di Mario Rodriguez
Smontare e rimontare? Nei giorni scorsi un autorevole esponente di lungo corso della politica ha ripetuto più volte che il PD dovrebbe essere smontato e rimontato. Ma la cosa che più mi ha colpito è che non ha indicato nessuna linea guida, nessuno schema, per procedere all’operazione. Questo accade, secondo me, perché al fondo vi sono alcune questioni di fondo che sono talmente basiche da essere date per ovvie e non necessarie e che invece sono alla base di ogni necessario ripensamento di come stare in questa società.
C’è una relazione tra successo elettorale e forma organizzata di un partito?
La prima domanda è sulla questione stessa. Perché preoccuparsi del modo in cui si organizza la presenza nella società: c’è una relazione tra il successo elettorale e la forma organizzata di un partito? Cioè il modo in cui un’associazione politica sta nella società?
Che forma organizzativa hanno i partiti vincenti del 2018?
La Lega da tanti anni è un partito di “eletti” che passa dal 4% al 17% senza aver fatto alcun cambio di forma organizzativa. Il M5S è partito “rete” però più intranet delle rabbie che rete sociale dal basso verso l’alto. Per complicare il ragionamento è obbligatorio fare riferimento anche all’altro exploit elettorale meno recente, l’altro partito nuovo del panorama politico italiano, Forza Italia. Ripeto la domanda: c’è una relazione tra il successo elettorale e la forma organizzata del partito?
Se ci soffermiamo su Forza Italia e M5S seppur si tratti di due esperienze molto diverse tra loro mi paiono accomunate da un fatto. Sono forme organizzate che nascono più dalla cultura aziendale che dalla cultura politica. Per la Lega questa considerazione non si applica e credo invece che emerga maggiormente la sua natura di partito basato più sugli eletti che sulla militanza esterna alle istituzioni rappresentative. In questo sta la sua contemporaneità: una struttura tipica dei partiti di massa che mette al po-sto dei militanti, o meglio fa corrispondere militanza e rappresentanza nelle istituzioni. Non affianca alle istituzioni la struttura decisionale del partito (come nel caso del partito di ispirazione leninista, fascista, togliattiano e fanfaniano per capirci).
Vorrei mettere in luce come gli stili di organizzazione che sono stati premiati dai risultati elettorali sono comunque forme leaderistiche e forti e fortemente accentrate. Caratteristica di tutte o molte forme leaderistiche.
C’è una relazione tra insuccesso elettorale e forma organizzata di un partito?
La seconda domanda è la prima ma rovesciata per i perdenti e in primo luogo per il PD.
Che rapporto c’è tra i risultati elettorali negativi e i limiti che della forma organizzata? Quali errori o limiti organizzativi hanno indotto cattivi esiti elettorali? Tenendo sempre presente l’eccezione del 2014 che complica tutto perché se è vero che il trend era negativo da anni nel 2014 la forma organizzata da smontare (citazione di Minniti) non aveva impedito un recupero elettorale consistente.
Di solito l’insuccesso del PD viene collegato ai seguenti limiti della forma organizzativa (cioè quando si dice che il partito va smontato a quali limiti, errori o insufficienze si pensa?):
- modo di elaborazione della proposta e della visione dell’assetto istituzionale
- incapacità di ascolto della società e la scarsa vicinanza alla sofferenza del mondo (per ironizzare un attimo su alcune affermazioni recenti)
- debolezze dei gruppi dirigenti, loro selezione e formazione degli staff
- stili di leadership
- modalità di governo o di gestione del rapporto governo società.
Sinceramente non sono così convinto che si possano connettere in termini di causa ed effetto le forme della organizzazione e gli esiti elettorali. Anche le recenti elezioni amministrative dimostrano che è semplicistico e riduttivo pensare che il voto sia determinato da come si sta nel territorio, il cosiddetto radicamento. Il M5S aveva vinto il 4 marzo perché era radicato ma poi alle amministrative crolla? Che significa radicamento allora? Come non vedere la determinante importanza della marca, del brand, del clima di opinione che una complessa rete di interazioni con alla base il sistema mediatico determina?
A che cosa servono i partiti?
A mio parere dietro difficoltà che appaiono organizzative vi sono difficoltà di cultura politica prima ancora che di cultura organizzativa anche se questa, in quanto tale, non andrebbe bistrattata come da sempre fanno i politici. Sono limiti che possiamo fare emergere ponendo la madre di tutte le domande: a cosa servono i partiti? Che funzione devono svolgere nella nostra società democratica, e quindi come dovrebbero vivere e operare, cosa dovrebbero fare?
Non credo sia banale ripartire da questa domanda. Credo infatti che ci sia una sorta di senso comune attorno all’idea di partito, un qualcosa dato per ovvio, scontato, che invece ovvio o scontato non è.
Grosso modo si pensa che anche i partiti di oggi dovrebbero assomigliare ai partiti di massa, i partiti del novecento. E, abbastanza stranamente, si pensa che quel modello fosse unico, cioè il partito leninista, fascista, togliattiano e fanfaniano. Una sorta di automatismo molto pigro fa riproporre il vecchio modello se non come progetto come nostalgia. Ma le condizioni in cui vivevano i partiti di massa da cui ereditiamo pigramente il “modello” sono del tutto cambiate. Grosso modo, chi più (il Pci) chi meno (la Dc), erano partiti separati dalle istituzioni e organizzati per guidare dall’esterno gli eletti. Ovviamente ci sarebbero volumi da scrivere per approfondire le differenze e le peculiarità, per spiegare i contrasti e i compromessi anche all’interno di un’organizzazione. Per ripensare al manuale Cencelli in una visione centrata sulla rappresentanza dei territori (come si direbbe oggi) e non sul potere.
i partiti servono per fare funzionare bene le istituzioni rappresentative
La mia risposta può sembrare semplicistica o meglio minimalista, ma credo si debba prendere atto che nelle condizioni date i partiti servano per fare funzionare bene le istituzioni rappresentative, le istituzioni democratiche, il che significa in primo luogo:
- elaborare visioni, programmi e proposte di governo (non ricette per trattorie dell’avvenire)
- selezionare le persone che andranno a governare cioè a trasformare quelle proposte in politiche pubbliche.
Qui sta il nodo della funzione della leadership, del fare i conti con la personalizzazione e con il superamento della paura del leader.
Il compito fondamentale dei partiti politici è quindi reclutare, scegliere, informare, selezionare candidati. Queste sono interazioni forti con la società non sono azioni da svolgere in autonomia o meglio in una condizione autarchica, da setta. La politica è sempre più centrata sui candidati e le organizzazioni vanno sempre più finalizzate alla selezione dei candidati. Le presenze organizzate sul territorio devono quindi sempre più essere centri di reclutamento e selezione di persone interessate e appassionate a una politica che si propone di governare, di trasformare idee in atti amministrativi.
Accanto a questa funzione c’è certamente quella di interazione, controllo, stimolo, correzione, competizione se si vuole, con chi governa e con chi elabora la linea. Chi si organizza nel territorio deve essere consapevole che la sua azione non rimarrà testimonianza solo se diventerà azione di governo. Ma chi governa deve sapere che il successo della sua azione (e quindi anche la sua rielezione) dipende dalla interazione con la società e quindi dal coinvolgimento dell’organizzazione sul territorio.
Liberarsi di alcuni vincoli
Accettare questa impostazione significa anche liberarsi di alcuni vincoli che derivano da quel senso comune cui accennavo: il partito chiesa di una religione civile, il partito weltanschauung, che si fa se non stato quanto meno comunità di popolo. Vi sono ancora molte difficoltà ad accettare l’idea laica e secolarizzata di un partito “elettorale” cioè che riconosce nelle competizioni elettorali il cuore della democrazia e la ragione prima della propria esistenza.
Quante volte tra noi sentiamo dire ancora non si può ridurre il partito a una organizzazione di campagne elettorali o di comitati elettorali? Ma non è forse la scelta del governo e dei propri rappresentanti il cuore della nostra idea di democrazia?
Ma fatta questa scelta certo non finiscono i problemi. Se avessimo chiaro e se condividessimo questa scelta potremmo cominciare a discutere su come si fa, su cosa facciamo per fare funzionare il marchingegno, non diremmo che dobbiamo smontare e rimontare qualcosa senza dire cosa. Lo so su questo non c’è ancora condivisione, temo.
Quale equilibrio tra partito ed eletti?
La prima sfida che segue questa impostazione è quale equilibrio troviamo tra il partito (i suoi organismi, le sue strutture) e gli eletti? Guardate che da questa risposta le decisioni organizzative derivano consequenzialmente. E le forme dell’organizzazione conseguono abbastanza linearmente.
Chi conta di più l’organismo di partito o gli eletti? E se prendiamo questa strada come facciamo corrispondere la struttura decisionale ai molti e diversi livelli delle istituzioni? Diventiamo multilevel o riprendiamo quella idea abortita del partito federale? Il PD nacque con qualche ambizione federale o federativa. Vogliamo riprendere quella riflessione? Bisogna avere livelli decisionali corrispondenti ai livelli governativi istituzionali o manteniamo una struttura decisionale piramidale che però per rappresentare diventa pletorica e inefficace? Insomma dove si prende la decisione finale del candidato sindaco di una città o di una regione? Consigli, confronti o ordini? Gruppi dirigenti o coordinamenti tra eletti? E come al solito bisogna chiarire su come ci si comporta non quando tutto fila liscio ma quando ci sono divergenze.
Partito aperto e ruolo della delega
Oltre alle paure relative al partito elettorale, al ridursi a un comitato elettorale, vi sono altre difficoltà che derivano dai cambiamenti indotti nella nostra società e che spingono anche tra noi a subire il fascino di forme di democrazia diretta, o forme di coinvolgimento degli elettori. E in fondo è nella cifra costitutiva del PD l’essere “partito aperto”, un partito di iscritti ed elettori. L’esperienza delle primarie aveva la volontà di rispondere alla domanda crescente e diffusa nella società di voler contare, di essere presi in considerazione.
Credo però che debba essere chiaro che la nostra concezione di democrazia, quindi di partito che rifiuta l’assemblearismo, che non indulge alla democrazia diretta, vuole comunque aprire e consolidare il flusso “comunicativo” tra il cittadino elettore e il decisore pubblici. Vuole dare voce, vuole una efficace relazione di collaborazione e di conflitto, di controllo, verifica e monitoraggio tra istituzioni e cittadini.
Ma credo anche che si debba difendere con forza il ruolo della “delega”. La nuova cittadinanza dell’epoca dell’autocomunicazione di massa va sviluppata riconoscendo e difendendo il ruolo della competenza. E credo che non si debbano nutrire false illusioni sulla partecipazione dei circoli (e quindi anche dei cittadini e dei comitati) alla elaborazione delle politiche governative e nemmeno amministrative.
Un’ultima considerazione su quello che a me pare un paradosso di difficile composizione.
Il sistema mediatico costruisce la realtà sociale
Il nostro ambiente sociale e politico è profondamente modificato dal nuovo potere che il sistema mediatico ha assunto nella nostra società.
È il sistema mediatico che costruisce la seconda realtà: quella sociale, che plasma il clima di opinione che si diffonde in tutto il paese. È questo “clima” che ha determinato l’esito elettorale molto di più delle interazioni faccia a faccia!
Il paradosso che viviamo è che questo processo di centralizzazione indotto dal sistema mediatico si sviluppa contemporaneamente a una forte domanda di decentramento, autonomia, voglia di contare, accesso alle informazioni, voglia di monitoraggio attivo delle attività di governo che viene dalla società.
I circoli, le forme di iniziativa sul territorio, non possono però indulgere nelle illusioni della democrazia diretta. Altrimenti saremmo alla diffusione di messaggi contraddittori. Non credo che si debbano illudere le persone dicendo che dai circoli possono nascere le leggi e nemmeno i regolamenti amministrativi. Possono giungere sollecitazioni, controlli, verifiche e monitoraggi. Non di più. Sarebbe già molto. E questo, ribadisco non significa non sollecitare e realizzare forme di interazione che non vanno lasciate senza risposta.
Scuole di partito e ruolo dei circoli
Per concludere riprendo le tre domande dalle quali credo si debba passare.
A che cosa servono i partiti? Servono a far funzionare le istituzioni democratiche attuali o a costruire la città futura, l’uomo nuovo, una nuova cultura? Debbono farsi stato e, ad esempio, produrre proprie competenze “partite”, separate dal sistema formativo nazionale? Devono avere scuole proprie che producano una propria cultura o debbono stabilire un legame tra i centri di produzione delle competenze specialistiche e la decisione pubblica? Devono avere le loro scuole o debbono usare il sapere che le scuole delle istituzioni democratiche producono per arricchire le decisioni pubbliche. Insomma Frattocchie o nuovi Think Tank?
La terza domanda è a cosa servono i circoli, come li facciamo funzionare, quanta autonomia gli attribuiamo, come li teniamo in rete e come li aiutiamo ad essere attivi senza esagerate illusioni assemblearistiche.
Infine la domanda cruciale: quale equilibrio stabiliamo tra la legittimazione che deriva dai congressi e la legittimazione che deriva dal voto? Cioè quale rapporto tra strutture di partito e rappresentanze nelle assemblee istituzionali? Quanto le strutture organizzative devono essere multilevel e far aderire l’organizzazione alle istituzioni.
Territorio, funzionari, finanziamento
Un’ultima chiosa sui funzionari, sul personale pagato. Credo si debbano assumere professionalmente community organizer e separare cariche politiche da funzioni organizzative. Abbiamo bisogno di una struttura professionale che connetta i vari livelli di presenza nella società. Tenere insieme presenze nel territorio, l’idea originaria dei club e dei circoli federati, ed eletti in un rapporto di collaborazione competitiva e monitorante. Ma deve essere una funzione professionale, staccata dalle cariche pubbliche, dalla eleggibilità, con regole precise.
Ovviamente, ritorna a galla un tema stranamente messo da parte in questi anni recenti: il finanziamento dei partiti. Molto di quello che è successo nella politica italiana è legato anche al non essere stati in grado di trovare un’accettabile soluzione al problema del finanziamento pubblico delle organizzazioni della rappresentanza democratica.
Ha fondato MR & Associati Comunicazione una società di consulenza oggi specializzata nel campo della web reputation. Consulente di comunicazione pubblica e politica, è docente a contratto all’Università di Milano. È autore con Nicolò Addario di “Comunicare la politica”, Monduzzi Editoriale, 2016, e ConSenso – “La comunicazione politica tra strumenti e significati”, Guerini e Associati, 2013. Collaboratore del “Il Riformista” e “Europa”, membro del Comitato scientifico della rivista “Comunicazione Politica”, edita da Il Mulino. Ha curato l’edizione italiana de “La rivoluzione silenziosa” di R. Inglehart, “I Neoconservatori” di P. Steinfel e “L’uso pubblico dell’interesse privato” di C. Schultze.
Analisi interessante. Aggiungerei la domanda sulla correlazione tra architettura amministrativa dello Stato e forma partito, vedendo quello che hanno in comune le organizzazioni PD e Lega. Da analizzare, anche, la differenza con il M5S, nel quale sia il rapporto con gli iscritti, che con gli elettori è diverso dalle forme dei partiti di massa. Vedere la crisi dei partiti come crisi della democraz
oserei redicalizzare la posizione e stabilire un nesso tra democraticità di un partito e sua aderenza alle istituzioni democratiche rappresentative. Bisognerebbe lavorarci e invece vedo molti attratti dallo sciogliersi in fantomatici movimenti come se l’adesione alla società implichi un allontanamento dalle forme della rappresentanza. Grazie del commento.