Intervento alla XVI Assemblea Annuale di Libertàeguale
In questa sedicesima assemblea annuale di «Libertàeguale» si è giustamente cercato, a più riprese, di riflettere in chiave europea sui principali problemi economici, istituzionali e sociali italiani. Non sorprende che si senta il bisogno di prestare grande attenzione a quel che avviene nei maggiori Paesi nostri partner a livello continentale. È infatti del tutto evidente che le forze politiche di centrosinistra si trovano, nelle singole nazioni, dinanzi a sfide affrontabili per lo più solo con scelte di respiro europeo.
Per questo non è possibile sottrarsi a un’analisi franca della crisi che stanno attraversando quasi tutti i partiti aderenti al Pse. Una crisi grave e strutturale, rispetto alla quale il Pd italiano rappresenta al momento una felice e solitaria eccezione. Dalla Germania al Regno Unito, dalla Francia alla Spagna, i partiti della sinistra di governo europea vanno male elettoralmente e appaiono in crisi di progetto e di leadership.
La crisi di progetto nasce dalla perdurante incapacità di rispondere efficacemente agli interrogativi sollevati negli ultimi anni da tre fattori di grande peso: i guasti della Grande Recessione; l’avanzata dei movimenti populisti, xenofobi e antipolitici; l’affermarsi, specialmente in Germania e nel Regno Unito, di un nuovo conservatorismo centrista e espansivo, quello impersonato dalla Merkel e da Cameron. Un neoconservatorismo che indubbiamente costituisce un avversario temibile in virtù della sua attitudine a ben presidiare le fasce intermedie e solitamente più fluttuanti dell’elettorato. Questi partiti neoconservatori hanno dimostrato di essere in grado di svolgere con credibilità, sul versante del centrodestra, il ruolo di partiti di governo.
Partiti siffatti possono essere battuti solo se sul versante del centrosinistra torneranno ad agire partiti in grado di imporsi come «forza centrale» (che non vuol dire «centrista»).
«Forza centrale» nel senso che a questa espressione dette, con più chiarezza di altri, Gerhard Schröder nel 1998, quando elaborò il concetto di Neue Mitte (Nuovo Centro) per descrivere la linea politica della sua Spd, l’ultima Spd vittoriosa da quasi quindici anni a questa parte.
Per ridiventare «forze centrali» e maggioritarie, i partiti del Pse debbono anzitutto comprendere che non recupereranno terreno semplicemente andando un po’ più a sinistra.
Andare un po’ più a sinistra, dissociandosi in misura crescente dagli anni di Blair, è ciò che hanno fatto i laburisti con Brown e Ed Miliband, perdendo sia le elezioni del 2010 che quelle del 2015.
Lo stesso ha fatto la Spd: a partire dal 2006 ha preso sempre più le distanze dall’Agenda 2010 di Schröder e con questa linea ha perso due elezioni di fila nel 2009 e nel 2013. È chiaro che la strada da seguire per riscattarsi non è quella della virata a sinistra, bensì la coerente coltivazione della vocazione maggioritaria.
Soltanto una scelta netta su questo fronte riporterà i più grandi partiti del Pse a essere «forze centrali»: ovvero non partiti di sinistra che guardano al centro, ma partiti di sinistra capaci anche di rappresentare autonomamente il centro, senza delegare ad altri questo compito. Questa capacità, se guardiamo ai più importanti Paesi europei, nell’ambito del centrosinistra l’ha avuta, di recente, soltanto il Partito Democratico italiano diretto da Matteo Renzi.
Certo è che per costruire una piattaforma da «forza centrale» servono nuove idee su come miscelare, senza appiattirsi banalmente sull’asfittica retorica anti-austerity, i due ingredienti senza i quali non vi è una sinistra di governo degna di questo nome.
I due ingredienti in questione sono da una parte le azioni con finalità di tipo redistributivo; dall’altra le azioni di tipo produttivistico, legate all’esigenza di stimolare gli investimenti, la produzione e la propensione ad assumere delle imprese.Esigenza, quest’ultima, che può essere soddisfatta solo se si è capaci di dare importanza primaria ai temi delle eguali opportunità, dell’efficienza, della meritocrazia, dello snellimento burocratico e del contenimento della spesa pubblica e della pressione fiscale nell’ambito di una sana gestione della finanza statale, che è cosa ben diversa dal rigorismo ideologico, che anzi dobbiamo superare.
Si tratta di due ingredienti che vanno combinati in maniera innovativa e dinamica, senza ripiegamenti retorici.
A questo riguardo, sebbene le posizioni più avanzate della visione blairian-clintonian-schröderiana costituiscano ancor adesso un riferimento a mio giudizio ineludibile, è essenziale la consapevolezza che una semplice riproposizione delle politiche della Terza Via sarebbe illusoria e sterile. Necessitiamo di nuovi rimedi per nuovi problemi tipici di un mondo nuovo, quello scaturito dalla crisi post-2008 e dall’ulteriore estendersi del processo di globalizzazione economica e finanziaria.
Venendo al punto della crisi di leadership, che è l’altro aspetto della crisi di consensi dei partiti membri del Pse, è evidente che, fatto salvo il Pd con Renzi, il centrosinistra europeo non è stato in genere in grado di assicurare una successione ottimale della generazione di leader come Blair e Schröder, Guterres e Kok, Persson e Rasmussen, e più recentemente Stoltenberg e Zapatero.
Questi sono dirigenti che nei loro Paesi hanno introdotto cambiamenti di rilievo governando per almeno sette anni e per almeno due mandati consecutivi.
Se si esaminano i risultati delle ultime elezioni europee e quelli delle elezioni parlamentari tenutesi dal maggio 2014 a oggi, non si è indotti a confidare granché nella possibilità di ripetere a breve scadenza quei successi. Non può essere taciuto il fatto che soltanto in tre Paesi su ventotto (Italia, Romania e Malta) ci sono partiti aderenti al Pse che si collocano sopra il 35%.
In Francia il Ps è sotto il 15% e secondo tutti i sondaggi il candidato socialista alle presidenziali dell’aprile 2017 è destinato a restare fuori dal ballottaggio, che si prevede sarà una sfida a destra tra la Le Pen e il vincente tra Sarkozy e Juppé nelle primarie dei Repubblicani annunciate per il novembre 2016. In Spagna, dove si voterà entro l’anno, il Psoe non ha speranze di diventare il primo partito e subisce la concorrenza a sinistra di Podemos e al centro di Ciudadanos.
In Portogallo, dove si terranno domenica prossima le elezioni politiche, col passare dei giorni sembrano ridursi le chances di vittoria del Ps contro la coalizione conservatrice al governo dal 2011.Nel Regno Unito si è votato da pochi mesi e la sconfitta del Labour è stata clamorosa. In Germania, dove si voterà tra due anni, la Spd è reduce da due elezioni politiche perse, quelle del 2009 e del 2013, in cui ha oscillato tra il 23 e il 25%.
Quindici punti di distanza dalla Merkel sono così tanti che non è mancato chi ha proposto che il partito, per la prima volta dal 1949, non schieri un proprio candidato alla cancelleria nelle elezioni del 2017. Secondo questa linea di pensiero sarebbe corretto dichiarare da subito che il miglior obiettivo realisticamente perseguibile dalla Spd è arrivare al secondo posto ed essere un buon socio di minoranza in un governo di grande coalizione a guida Merkel.
A fine luglio Torsten Albig, il presidente dello Schleswig-Holstein, ha sostenuto questa idea con parole rivelatrici, affermando che “la Spd sarebbe stupida a pensare di poter vincere, nessuno ci prenderebbe sul serio”. Peer Steinbrück ha sottolineato in maniera aspra l’incapacità della Spd, da sei anni guidata da Sigmar Gabriel, di suscitare entusiasmo e di mobilitare consensi maggioritari. Da questo punto di vista è opportuno analizzare senza superficialità il caso della Gran Bretagna, dovel’affermazione di Corbyn non riflette, come da più parti si sostiene, il desiderio dei cittadini di avere più sinistra (su questo le elezioni di maggio hanno detto tutto quel che c’era da dire). Essa appare piuttosto il prodotto di due elementi diversi: da un lato la grande determinazione con cui Corbyn ha saputo trascinare le componenti più radicali della base del Labour, per giunta tanto radicali quanto dimensionalmente ristrette; dall’altro la crisi di idee e di leadership dell’area riformista del laburismo, che non è stata in grado di innescare un moto di partecipazione diffusa in occasione delle primarie di agosto-settembre.
Primarie che, sebbene siano state per la prima volta aperte a chiunque volesse registrarsi come sostenitore, non hanno messo insieme più di 400 mila votanti: meno del 5% dell’elettorato laburista complessivo. Una percentuale irrisoria rispetto a quella che nel dicembre 2013 hanno fatto registrare le primarie aperte del Pd italiano, alle quali ha preso parte ben un terzo degli elettori del partito nelle elezioni politiche del febbraio precedente.
Quanto sopra richiamato chiarisce bene come mai ad oggi il Pd non sia solo una positiva anomalia nel panorama della sinistra europea legata al Pse; ma anche una speranza e un esempio per il riscatto del progressismo continentale, che deve rompere l’incantesimo che lo spinge, in taluni casi, a considerare scontata e inevitabile la prevalenza dei propri competitori. Il Pd è tutto ciò grazie alla tenacia con cui ha valorizzato le proprie qualità di partito a struttura competitiva, guidato da un leader eletto direttamente da quasi due milioni di persone, e di partito a vocazione maggioritaria, capace di rappresentare un elettorato socialmente composito e di attuare riforme di portata significativa per lungo tempo attese invano.