di Carlo Fusaro
(Aggiornato al 12 settembre 2020)
Benaltrismo, massimalismo, demagogia e populismo. Sono presenti massicciamente nel campo del No. Benaltrismo è il “dire NO perché non si fa qualcos’altro, piuttosto”, che però non è oggetto del voto e/o non si può fare. Massimalismo è l’eterno male italiano per cui “non si fa nulla se non si fa tutto” (“non si può ridurre se non si riforma il bicameralismo tutto quanto”). Demagogia sta nel promettere grandi riforme e presentarle come facili al posto di quella – unica – che è stata fatta. Populismo è negli argomenti di alcuni: il populismo del finto antipopulismo che si nutre di argomenti come: “con la riduzione vinceranno quelli che vogliono i capipartito”, “i capipartito controlleranno meglio i parlamentari”, “il Pd è schiavo del M5S” (però deve farci maggioranza), etc. Soprattutto il NO è populista nella misura in cui pretende di salvare il Parlamento da sé stesso: cioè finge di combattere il populismo ma specula sul rifiuto di tutto, anche di una riforma in teoria popolare decisa dal Parlamento, cioè la sede della democrazia rappresentativa. E lo fa utilizzando uno strumento, il referendum, più di ogni oltre suscettibile di alimentare demagogia e populismo (com’è regolarmente accaduto). Una contraddizione clamorosa.
Bicameralismo assoluto. L’Italia come quasi tutti i paesi con i quali si confronta ha un Parlamento bicamerale, cioè formato da due camere. L’Italia però è la sola a eleggere direttamente due camere con gli stessi poteri, il che costituisce una complicazione non da poco, perché fra questi poteri vi è – diversamente dagli Stati Uniti che pure hanno un bicameralismo paritario – il potere di vita o di morte sul governo (rapporto di fiducia), il che rende due volte più difficile il funzionamento del regime parlamentare (che sul rapporto di fiducia, necessario, si fonda). Per questo più che paritario quello italiano è oggi un bicameralismo indifferenziato. Abbandonati i propositi di riforma del Senato (e la sua trasformazione, per esempio, in una camera delle Regioni), avendo deciso di mantenere le altre caratteristiche, oggi si procede verso l’abolizione – in questa logica opportuna – degli ultimi elementi che distinguono Camera e Senato, in particolare l’elettorato attivo e passivo. Ecco perché, scherzando ma non troppo, e parafrasando un’espressione inopportunamente usata in passato in relazione alla forma di governo, parliamo di bicameralismo assoluto. Si segnala che alcuni studiosi (Enzo Cheli, per esempio, Andrea Manzella) ritengono che questa forma di bicameralismo potrebbe essere razionalizzata, accrescendo le funzioni del Parlamento in seduta come e altre forme di riparto del lavoro parlamentare fra Camera e Senato.
Chi è il padre di questa riduzione dei parlamentari. E’ una decisione che ha molti padri: infatti se ne parla da trentacinque anni. Dopo il “no” al referendum del 2016 è prevalsa la tesi delle riforme costituzioni puntuali. Questa strategia è stata annunciata dal ministro Fraccaro sin dalla nascita del governo M5S-Lega: ed è stata perseguita dai rispettivi gruppi parlamentari. Fraccaro ipotizzava cinque interventi costituzionali: riduzione dei parlamentari, togliere il CNEL dalla Costituzione, referendum propositivo, attribuzione alla Corte costituzionale della competenza d’appello in materia di ricorsi elettorali, abolizione del quorum della metà più uno sul referendum abrogativo ex art. 75. Non aveva proposto, invece, forme di vincolo di mandato, che se mai sono nel programma del M5S. Il Pd era contrario, sia in quanto partito di dura opposizione al governo gialloverde sia per la mancanza di altre misure coordinate che riteneva necessarie (voto ai diciottenni prima di tutto, v.): tanto più che gli erano stati dichiarati inammissibili gli emendamenti in quella direzione (in nome della natura puntualissima della riforma). E’ certo vero che la riduzione corrisponde alla campagna contro la casta e, nel M5S, si sposa appunto con il potenziamento della democrazia diretta a spese di quella rappresentativa. Ma non vi è dubbio, parimenti, che l’opinione secondo la quale il nostro Parlamento abbia una composizione pletorica è condivisa da decenni. E poi la riduzione è stata votata da tutti! 553 sì, 14 no, 2 astenuti all’ultima votazione alla Camera: il 97% dei presenti, l’88% dei componenti, un record! (Solo + Europa contraria.) (Per questo dico che il referendum, vedi sotto, non avrebbe dovuto essere richiesto.) Nello stesso Senato il voto a favore è stato di 180 contro 50, oltre tre ad uno (certo molti assenti, ma anche questo è significativo): 78% sì sui presenti, 56% dei componenti (meno dei due terzi: di qui la possibilità di chiedere il referendum). Va infine ricordato che la riduzione è l’unico punto che è andato avanti: gli altri sono in stand by e difficilmente verranno recuperati. In particolare non risultano progetti all’esame in materia di modifica dell’art. 67 Cost. il quale esclude vincoli di mandato.
Chi ha voluto il referendum e perché. Possono chiedere il referendum confermativo cinque consigli regionali, cinquecentomila elettore o un quinto dei componenti di una Camera. Lo han chiesto 71 senatori (ce ne volevano 64 almeno). Ma essi sapevano benissimo che l’opinione pubblica è largamente favorevole alla riduzione: il loro scopo, in molti casi dichiarato, era quello di influenzare la Corte costituzionale sull’ammissibilità del referendum sulla legge elettorale e condizionare in qualche modo la durata della legislatura (per abbreviarla o allungarla a seconda delle aspettative). Non a caso le firme decisive sono arrivate dai senatori leghisti che pure avevano votato sì. E’ la prima volta che il referendum oppositivo viene chiesto NON da una minoranza parlamentare non coinvolta o contraria a una revisione maggioritaria, bensì da una serie di parlamentari a titolo individuale contro una revisione consensuale che ha visto l’accordo di tutte le forze politiche.
Contenuti o schieramenti o altro ancora?
Non è la prima volta (e non sarà l’ultima) che si tende a strumentalizzare un voto referendario per ragioni, in sé legittime, di tattica o strategia politica oppure per coinvolgere il corpo elettorale in un improprio giudizio sul governo e/o su chi lo guida e/o sulla maggioranza e/o su schieramenti presenti o futuri. L’elettore deve decidere se votare nel merito e nel contenuto della questione sottoposta (che è la modifica costituzionale già approvata dalle Camere) oppure su altro (pro/contro Conte, pro/contro M5S, pro/contro PD e chi lo guida, pro/contro una futura ipotetica alleanza PD/M5S, etc.). Se si sta al merito, invece, l’unica scelta è: accetto la decisione di ridurre i parlamentari a 600 oppure preferisco tenermi i 945 attuali?
Contro. A parità di tutto il resto, non si vedono argomenti contro veramente persuasivi. Forse il fatto che la riduzione induca la maggioranza attuale a pasticciare nuovamente con la legge elettorale e in direzione proporzionalistica (ma ciò per molti è un vantaggio). Certo: meglio sarebbe stato che la riduzione si inserisse in una revisione generale del bicameralismo. Ma questa è stata più volte bocciata anche di recente, per cui essa non è – a torto o a ragione – all’ordine del giorno. E siccome non si vede che danni possa fare la riduzione, tanto vale prendere quel che passa il convento per riprendere il discorso più avanti, a camere snellite.
Cosa cambia. Semplice: i deputati da 630 diventano 400; i senatori elettivi da 315 diventano 200. Per il resto non cambia assolutamente nulla. Non che non ci siano effetti evidentemente, ma non cambia nulla dal punto di vista giuridico.
Costi e risparmi. E’ una delle ragioni su cui più si insiste da molti anni e anche ossessivamente da che è scoppiata ed è stata alimentata la polemica sulla c.d. casta. E’ chiaro che gli oneri per assemblee rappresentative giustamente dimensionate ed efficienti possono ben valere la pena di essere sostenuti. Ed è pure chiaro che è un bene che le assemblee rappresentative siano sorrette da valide tecnostrutture al loro servizio: e competenti tecnostrutture costano. Resta che costruirne al servizio di una pletora di rappresentanti non si giustifica. E quasi mille son davvero troppi. Che risparmi si conseguiranno? A regime e dopo alcune legislature operando con determinazione si dovrebbero poter risparmiare somme relativamente consistenti (secondo mie stime intorno a 300-400 milioni/anno, a regime; i risparmi immediati saranno invece assai minori). Esse naturalmente nel mare magnum di una spesa pubblica che assorbe circa il 42-43% del prodotto interno lordo, restano una goccia. Non va sottovalutato peraltro la valenza simbolica dello snellimento. Se poi si riuscisse a tradurre la riduzione in maggiore efficienza operativa il guadagno sarebbe ben maggiore di quello finanziario.
“La Costituzione non si tocca”
Questo motto è tornato a riecheggiare (come ogni volta che si è ragionato di cambiarne qualche parte) e continua a convincere molti elettori. Però è forse il caso di rammentare che la composizione dell’attuale Parlamento (630 + 315) fu fissata NON nel 1948, ma nel 1963, modificando la Costituzione votata alla Costituente quindici anni prima. In quella sede la composizione era stata immaginata non fissa ma in base agli abitanti. Fu solo nel 1963 che si raggiunse un compromesso che aumentava la composizione di allora, ma la rendeva fissa. Quindi il motto di cui sopra non può applicarsi al caso della riduzione dei parlamentari. Per la cronaca il primo Senato ebbe 237 eletti; la prima Camera 574 (la somma fa 811, il 14% in meno dei 945, anche se molto di più dei futuri 600). Allora però non c’erano consiglieri regionali (ordinari) e non c’erano parlamentari europei.
Effetti del SI o del NO sulle riforme future. Sia il campo dei fautori della riduzione sia il campo dei fautori del no sostengono che la rispettiva vittoria al referendum sarebbe presupposto di altre e più incisive riforme. Io penso che sia più credibile – oggettivamente – la tesi del campo del SI. Infatti se il corpo elettorale dice NO anche a una revisione così puntuale, circoscritta, chirurgica e del resto popolarissima da sempre chi mai proverà più un intervento a rischio referendum? Se vince il NO alla riduzione nemmeno l’estensione dell’elettorato ai 18enni (atto dovuto se mai ne ho conosciuto uno!) diventa sicuro… Certo: vorrà dire che si faranno sono revisioni coi 2/3: ma questo, va da sé, limita le innovazioni alle cose votate da tutti in Parlamento e in entrambe le Camere. Sempre meglio che niente, ma il potenziale di ricatto di ciascun partito maggiore diventa ancora più forte di quanto ancora non sia e il meccanismo si irridisce vieppiù. E poi chi non ricorda i sostenitori, a sinistra, del NO nel 2016 (in testa D’Alema): se vince il NO si fanno le riforme giuste in sei mesi! Come si vede, era una balla buona solo per i creduloni.
Efficienza delle Camere a numeri ridotti. La teoria dell’organizzazione e ancor più l’esperienza mostrano che assemblee più ridotte nei numeri possono essere più efficienti. Inoltre è dimostrato che possono funzionare almeno altrettanto bene di quelle attuali. Primo: già adesso il Senato tende a funzionare più efficientemente della Camera, con 315 componenti. Nessuno ha mai lamentato che non potesse assolvere alle sue funzioni con la metà dei componenti! Secondo: il Senato ha già funzionato per un decennio con meno componenti, quando erano 237 (non 200 ma molto vicino). Terzo: nel mondo 122 parlamenti su 193 censiti hanno meno di 200 componenti, e funzionano. Quarto: pur a scala molto ridotta i Consigli regionali sono recentemente stati significativamente ridotti nel numero dei componenti. Non s’è lamentato nessuno tranne pezzi di classe politica locale e regionale che aveva meno sbocchi a disposizione! Quinto: illustri parlamentari hanno fatto in passato proposte per ancora meno componenti (Gerardo Bianco, Dc nel 1975!).
Leggi ordinarie connesse (legge elettorale). Sin dalla nascita del governo Conte II le forze di maggioranza hanno concordato di cogliere l’occasione della riduzione dei parlamentari per studiare come rivedere la legge elettorale (che risale a meno di tre anni fa, la legge 165/2017). E’ a mio avviso un pretesto. Infatti non sta scritto da nessuna parte che la revisione imponga il passaggio, come si prevede, a un sistema integralmente proporzionale (oggi è misto, maggioritario per un terzo di parlamentari e proporzionale per il resto). In effetti la riduzione secca di un terzo può comportare talune difficoltà: che potrebbero essere affrontate anche prevedendo tutti collegi uninominali (ciò risolverebbe la lamentata distanza candidati – elettori). Ma siccome si teme una vittoria della destra guidata da Salvini o, peggio, Meloni, si preferisce un sistema proporzionale in cui per qualsiasi forza politica e coalizione sia più difficile fare maggioranza (una ricetta sicura verso l’ingovernabilità). Si vedrà.
Next Generation UE. Ovviamente il piano dell’UE per reagire agli effetti economici della pandemia non c’entra affatto direttamente con la riforma: non perché una maggior efficienza del Parlamento non tornerà utile, ma perché l’Italia dovrà varare e almeno in parte realizzare il proprio piano di rilancio nazionale prima del prossimo rinnovo delle Camere. Epperò che gli raccontiamo ai nostri soci europei che – con buone ragione – dubitano delle nostre capacità realizzative e di riforma, se ci ribelliamo alla decisione – parlamentare e unanime – a favore di un Parlamento più snello e sobrio, per tenerci quello più pletorico e costoso al mondo?
Polemica sulle innovazioni integrative (v. Leggi ordinarie connesse; v. Progetti correttivi o più esattamente integrativi). La narrazione dei fautori del NO presenta un PD tratto in inganno dal M5S o prostrato davanti ad esso perché delle innovazioni concordate alla formazione del governo solo la riduzione è stata già varata, mentre le altre sono in corso di iter. E’ una solenne mistificazione. Prima di tutto per la natura dell’accordo (non era affatto così stringente, specie nella tempistica). Secondo, perché ciò era inevitabile. Si guardi ai tempi: governo fatto a settembre, riduzione votata a ottobre. Del resto c’era solo il voto ai 18enni approvato in prima lettura alla Camera. Le altre novità non esistevano: l’AC Fornero arriva a novembre, l’AC Brescia (legge elettorale) arriva a gennaio. E si badi bene il PD sapeva che senza richiesta referendaria la riduzione entrava in vigore appunto a gennaio. O anche col referendum il 29 marzo 2020! Infine, dopo è scoppiata la pandemia e fino all’estate il Parlamento non ha fatto altro! Sicché i passi in avanti settembrini ottenuti dal PD osno già il massimo: nessuno poteva fingere di pensare che quelle novità (alcune soggette a 4 letture!) avviate solo a fine 2019, potessero essere già cosa fatta dopo 8-9 mesi! Al momento, il testo base della legge Brescia è stato adottato (in Commissione, alla Camera); la legge costituzionale per il voto ai 18enni ha fatto il secondo dei quattro passaggi (Camera 1 e Senato 1, si attendono Camera 2 e Senato 2) e potrebbe passare entro l’anno (sono curioso di vedere se qualcuno non la voterà o se farà mancare il quorum dei 2/3 e in questo caso se chiederà il referendum oppositivo! Ma non mi stupirei: basterebbe sostenere che il voto ai 18enni rende troppo uguali le due camere e che non si può accettare senza una revisione complessiva del bicameralismo).
Precedenti. La riduzione del numero dei parlamentari non è una novità: essa è stata votata dalle Camere in quattro diverse legislature (XIV, XVI, XVII e XVIII) per ben tredici volte (tredici!), sia pure in misura diversa (760, 758, 630, 600). Era prevista dalla riforma Berlusconi, dalla riforma Renzi-Boschi e poi dalla proposta M5S, fatta propria dal Parlamento. E’ inoltre stata votata anche dal Senato, ma solo da esso, nella legislatura 2008-2013. Infine proposta dalla commissione affari costituzionali della Camera nel 2007 (Violante presidente). Una curiosità: un progetto PD del 2008, a prime firme Zanda e Finocchiaro (AS 1178, XVI legislatura), proponeva esattamente quello che il Parlamento ha votato nel 2019 (400+200): il M5S non era ancora nato. E ancor più vale per l’AS 1177 a firma Quagliariello (che non è un populista M5S!) che ha a sua volta l’identico contenuto della revisione approvata (anche se ora Berlusconi sembra propendere per il NO). Ho perfino trovato un progetto Dc degli anni ’70 (AC4127 VI leg.), a prima firma Gerardo Bianco ed altri che senza abolire né sovvertire il bicameralismo qual’era ed è contro la crisi del Parlamento (!45 anni fa!) proponeva di ridurre i deputati a 380 e i senatori a 185. Si era più vicini alla Costituente che ad oggi, e per il populismo occorreva guardare… all’Argentina di Peron.
Pro. Camera e Senato meno pletoriche e più snelle. Modestissimi risparmi immediati, più significativi risparmi di spesa a regime. Processi parlamentari (legislativi, di indirizzo, di controllo, di informazione) più snelli e rapidi (basti pensare alle votazioni nominali sulla fiducia; o alle Commissioni con composizione ridotta). Potenzialmente minor frammentazione. Potenzialmente ristabilimento di un rapporto migliore fra opinione pubblica e politica nazionale. Un argomento in meno per l’antipolitica. Una innovazione fatta, finalmente. La conseguente estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni al Senato (oggi non è eletto a suffragio universale, in violazione del principio democratico). Quest’ultima innovazione, da sola, se realizzata (anche) grazie alla riduzione dei parlamentari, sarà stata sufficiente a giustificarla.
Progetti correttivi o più esattamente integrativi. Sono la trasposizione in iniziative di revisione puntualissime degli emendamenti Pd che, non ammessi, avevano portato ai famosi “tre NO” che ora vengono rinfacciati a quel partito. Non correggono nulla, ma integrano la riduzione per tenere conto di alcuni potenziali conseguenze, non necessariamente censurabili se non per ragioni di vera o presunta opportunità politica. Il discorso non si applica alla estensione dell’elettorato a tutti i maggiorenni al Senato che è davvero un atto costituzionalmente dovuto, ma indipendentemente dalla riduzione. Si tratta degli AC 1511-1647-1826-1873 collegati, relatori Ceccanti e Corneli, già aprovato dalla Camera e in corso di approvazione al Senato. Le altre innovazioni sono nell’AC2238 Fornero del 6 novembre 2019 che prevede l’elezione dei senatori in circoscrizioni che permettano di mettere insieme più regioni (ed evitare l’elezione proporzionale in ambiti considerati troppo piccoli) e che prevede due e non tre delegati regionali in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica. Infine c’è la proposta sulla legge elettorale. Sul punto v. Leggi ordinarie connesse (legge elettorale).
Quesito referendum 29 marzo 2020, spostato al 20-21 settembre 2020. Eccolo: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari“, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – Serie generale – n° 240 del 12 ottobre 2019?»
Raffronti con altri paesi. Se ci teniamo alla sola Europa e ai soli paesi “grandi” (Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Spagna – nell’ordine) si vede che nessuno ha tanti parlamentari direttamente eletti come l’Italia, oggi. Dopo la riforma, la sola Spagna ne avrebbe di più (in rapporto alla popolazione). La Francia che ha un Assemblea nazionale di 577 componenti pensa di ridurli: il governo ha proposto 404, il Parlamento si orienta verso 424. Il Regno Unito ha deciso di ridurre i membri dei Comuni da 650 a 600. La Germania va approvando una nuova legge elettorale (lì il numero dei deputati dipende anche da quella) in modo da impedire un eccessivo aumento del loro numero e scendere dai 709 di questa legislatura verso i 598 teoricamente previsti. Va anche aggiunto che le Camere italiane sono le più “costose” fra tutte anche in termini assoluti.
Referendum costituzionale, confermativo o oppositivo. E’ quello del 20 settembre 2020. Previsto dall’art. 138 Costituzione al comma due, si tiene a richiesta nei soli casi in cui una legge di revisione costituzionale sia votata da meno di due terzi dei componenti di ciascuna camera. Non richiede quorum di validità (vincono comunque i “sì” o i “no”, quale che sia il numero dei partecipanti). Ne abbiamo già avuti tre: nel 2001 (revisione del titolo V° sui rapporti Stato-Regioni: prevalse il “sì” con partecipazione del 34.1%), nel 2006 (riforma Berlusconi, prevalse il “no” con partecipazione del 52.4%), nel 2016 (riforma Renzi-Boschi, prevalse il “no” con partecipazione del 65.5%). E’ del tutto diverso dal referendum abrogativo il quale ad oggetto una legge o parte di legge e per la validità richiede che partecipi un elettore più della metà degli aventi diritto. E’ la prima volta che viene indetto su richiesta non di una minoranza politica che ha “subito” una revisione imposta dalla maggioranza ma contro l’intero Parlamento che ha votato alla quasi unanimità da parte di una serie di parlamentari a titolo individuale e in dissenso dal loro gruppo.
Regolamenti parlamentari (da riformare). Certamente sarà opportuno por mano ai regolamenti parlamentari: e altrettanto certamente non solo per la riduzione! Risalgono al 1971, sono stati modiifcati significativamente, ma un ripensamento è reclamato da tempo. E’ assai più probabile che ciò si faccia se vince il SI, a me pare. In effetti, almeno alla Camera, la Giunta per il regolamento ne ha già discusso, decidendo la costituzione di un Comitato ristretto con il solo parziale dissenso di Forza Italia. In effetti qualcuno discute se debba procedervi questo Parlamento o quello futuro. Probabilmente entrambi. Comunque il processo, anche qui è avviato, anche se per ora la pandemia ha fermato tutto. In conclusione: la riduzione potrà essere stata l’occasione per fare un salto di qualità al funzionamento delle due Camere (anche se di ciò nessuno può dare garanzia: certo è che non ci sarà nemmeno allo stato potenziale se la riduzione viene bocciata).
Revisioni costituzionali connesse. In base agli accordi fra M5S e Pd (e alla ragionevolezza) sono all’esame del Parlamento altre proposte di revisione puntuali, coordinate con questa, sulle quali sono da escludersi referendum. Si tratta dell’estensione a tutti i maggiorenni del diritto di eleggere i senatori (oggi limitato a chi ha compiuto 25 anni: un’intollerabile violazione del principio democratico a danno dei giovani, relatore Stefano Ceccanti alla Camera). Inoltre si ipotizza di ridurre il numero dei delegati regionali che concorrono all’elezione del presidente della Repubblica, da 58 quanti sono oggi a 39 (in ossequio alla proporzione). Infine si pensa di modificare le circoscrizioni senatoriali per permettere di unire in una sola circoscrizione più regioni al fine di aumentare il numero degli eligendi all’interno della circoscrizione (oggi rigidamente regionale). L’unico intervento decisivo, a mio parere, è il primo.
Revisioni regolamentari conseguenti. Ciascuna camera dovrà ragionare sul se e come riorganizzare i propri lavori e sul se e come rivedere il numero di parlamentari necessari per attivare questo o quel potere. Per esempio: oggi alla Camera ci vogliono 20 deputati per costituire un gruppo. Si lascia questo numero (che ora corrisponde al 5%) o lo si abbassa? Al Senato ce ne vogliono 10 (stesso discorso). Inoltre oggi ciascuna camera ha ben 14 commissioni permanenti: le si lasciano così come sono? In questo caso si ha una media di circa 28-30 deputati e di circa 14-15 senatori per commissioni. Oppure si coglie l’occasione per rivedere le competenze e ridurle un po’: se ci si attestasse su dieci commissioni, il rapporto salirebbe a 40 deputati e 20 senatori per commissione (va considerato che circa 50-60 parlamentari vanno al governo, per esempio). Chiaramente la funzionalità dei due organi dipenderà dalla bontà delle soluzioni che saranno trovate.
Riduzione dei parlamentari e forma di governo. In linea teorica la riduzione del numero dei parlamentari e potenzialmente dei gruppi parlamentari potrebbere aiutare la stabilità del rapporto fra maggioranza e governo. Tuttavia non ci sono da farsi al riguardo grandi illusioni: non tanto perché i comportamenti centrifughi fanno parte da sempre della cultura politica italiana quanto perché finché le camere restano due ed entrambe titolari del rapporto fiduciario, e finché la legislazione elettorale resta a prevalenza proporzionale (o addirittura diventa integralmente proporzionale) la stabilità resterà un mito (com’è del resto, ormai, in quasi tutti i regimi parlamentari europei, con la parziale eccezione di quello britannico e di quello francese: quest’ultimo del resto a forte prevalenza presidenziale).
Riduzione dei parlamentari e forma di stato. Per forma di stato ci si riferisce qui al rapporto centro-periferia. Dal 1970 e ancor più dalla riforma del 2001, l’Italia è un ordinamento nel quale rilevanti competenze anche legislative sono attribuite a 19 Regioni e 2 province autonome. Quindi quando si ragiona di rappresentanza e di rapporto fra il cittadino e chi appunto la rappresenta occorre tener conto che – oggi – accanto ai 945 parlamentari vengono eletti 884 consiglieri regionali. Se la si vede sotto questo profilo abbiamo in Italia, oggi, un legislatore ogni 33.000 persone; ne avremo domani, dopo la riduzione, uno ogni 40.700. Non mi sembra comunque poco.
Scioglimento delle camere. Alcuni sostengono che una volta confermata ed entrato in vigore la revisione, le camere risulterebbero “delegittimate” e che esse andrebbero sciolte. Con ogni evidenza è una tesi senza il benché minimo fondamento giuridico. Quanto all’eventuale fondamento politico anch’esso è inesistente: al contrario, un Parlamento che avrà trovato la forza di deliberare la riduzione della propria composizione, venendo finalmente incontro ad aspettative da lungo tempo manifestate da gran parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche (queste, per una volta, ancor prima che la questione diventasse tanto popolare) sarà ancor più legittimato a proseguire la legislatura (salvi incidenti di percorso del tutto indipendenti dalla riduzione).
Sistema elettorale. Al di là della formula elettorale (l’algoritmo per la trasformazione dei voti in seggi) comprende altri aspetti cruciali come l’ambito ovvero la dimensione del collegio e delle circoscrizioni in cui i candidati vengono candidati, votati ed eventualmente eletti. Ciò spiega anche perché la riduzione suggerisce una verifica della compatibilità della legge elettorale vigente con essa. Su questo vi sono opinioni divergenti che dipendono sia dalle priorità perseguite (rapporto elettori-eletti, costi campagne elettorali, governabilità, frammentazione o accesso esteso al maggior numero di forze politche possibili, eccetera) sia dal quadro delle presunte convenienze di ciascuna forza politica (alla destra, ora, piacciono formule maggioritarie, alle forze della maggioranza M5S-Pd-IV-Leu piacciono formule proporzionali; poco tempo fa era l’opposto).
Suffragio universale. Nella definizione della Treccani, si ha «s. universale quando il diritto di voto è attribuito a tutti i cittadini che abbiano raggiunto una determinata età (di solito la maggiore età), senza essere subordinato ad altre condizioni di carattere economico o culturale». Da noi è universale alla Camera dei deputati, ma non al Senato (dove si vota solo a 25 anni compiuti, quattro milioni e quattrocentomila elettori in meno). Ci sarà se il Parlamento vara la legge costituzionale attualmente all’esame. Finché non si creano le condizioni per riformare l’intero sistema bicamerale, è una modifica costituzionale che risponde all’essenza del principio democratico, e da sola giustificherebbe il SI al referendum.
Votare “sì” o votare “no”. Sì, senza grandi aspettative, senza grande entusiasmo, ma anche senza alcuna esitazione. Sì pre respingere un attacco, questo sì populista, al Parlamento da parte di una minoranza di dissidenti dei vari pariti che lo vogliono umiliare e che perseguono scopi che nulla o poco hanno a che vedere con l’oggetto della decisione (anche se si inventano ogni sorta di giustificazioni campate per aria. No, votare “no” proprio non si può.
Presidente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San
Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).