di Carlo Curti Gialdino
Intervento al Convegno Aldo Moro. Tra passato e futuro, Sala Lauree, Scienze Politiche, Roma, 9 maggio 2023
1. Ringrazio per l’invito gli organizzatori di questo incontro e, in particolare il Collega Stefano Ceccanti, che ha suggerito di coinvolgermi. Mi sono laureato in quest’Aula il 18 novembre 1972 e, nel corso della mia carriera di studente universitario, ho avuto la fortuna, nell’anno accademico 1969/70, di seguire le lezioni del Professor Aldo Moro, che nella vicina Aula XI, al tempo molto più ampia, insegnava Istituzioni di diritto e procedura penale.
Organizzerò questo breve intervento attorno a tre argomenti: l’insegnamento di Istituzioni di diritto e procedura penale nelle Facoltà di Scienze Politiche, le Lezioni del Professore e, infine, la sua missione di docente a tutto tondo. Alcune delle cose che dirò sono ovviamente riprese dalla relazione Aldo Moro tra storia e memoria, che tenni in occasione del Convegno Aldo Moro: gli anni della Sapienza (1963-1978), promosso dal Dipartimento di Scienze Politiche il 7 dicembre 2016, e che, riveduta e ampliata, venne pubblicata, nel 2018, negli Atti curati dai proff. D’Angelo e Toscano per i tipi delle edizioni Studium, la cui omonima rivista, come noto, fu diretta da Moro dal 1945 al 1948. Altre le ho ripescate dalla memoria per questa occasione.
2. Ricordo, anzitutto, che l’originaria previsione di inserire Istituzioni di diritto penale tra gli insegnamenti fondamentali per conseguire la laurea in Scienze Politiche fu oggetto di una proposta di legge di iniziativa parlamentare, che il deputato Aldo Moro presentò nell’agosto 1953 (II legislatura, Atto Camera n. 114). Nella relazione illustrativa si legge che “l’inclusione risponde all’evidente esigenza di dare nozioni elementari di diritto penale ai giovani che saranno chiamati ad esercitare funzioni amministrative per le quali quelle conoscenze sono essenziali (esempio, funzioni di polizia). È del resto appena necessario rilevare – continuava Moro – che non può aversi una vera e compiuta formazione politica, se si prescinda dalla conoscenza del diritto penale, mediante il quale si tutelano le fondamentali esigenze della comunità”.
La cattedra di Istituzioni di diritto e procedura penale nella Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza venne assegnata ai sensi dell’art. 50 della legge 24 luglio 1962, n. 1073 e Moro, con delibera del Consiglio di Facoltà del 25 marzo 1963, su relazione redatta dal prof. Riccardo Monaco, ordinario di Diritto internazionale e, per i casi della vita, mio primo Maestro accademico, tenne l’insegnamento dal 1° novembre 1963 fino al 15 marzo 1978. Se la storia, a tutti nota, avesse, infatti, avuto un altro corso, l’indomani mattina, 16 marzo, il Professore avrebbe dovuto partecipare ad una seduta di laurea. Nella FIAT 130 blu ministeriale, a via Fani, furono ritrovate le tesi che sarebbero state discusse, macchiate del sangue degli uomini della scorta trucidati dalla ferocia dei brigatisti.
Dopo l’assassinio del Professore, l’insegnamento di Istituzioni di diritto e procedura penale è restato nell’offerta formativa della Facoltà per quasi trentacinque anni. Fu tenuto lungamente da Francesco Tritto, che si era laureato con Moro nel 1974, divenendone poi assistente universitario. Franco, come tutti noi lo abbiamo sempre chiamato, si è dedicato, fino alla prematura scomparsa nel 2005, a custodire la memoria del suo Maestro e, nella sua scia, ad insegnare un “diritto penale dal volto umano”. Negli ultimi anni della sua breve vita, quando già lottava contro un male che non dà scampo, ha voluto terminare la curatela delle Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale tenute alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma, nell’anno accademico 1978/79. Dopo la morte di Tritto, l’insegnamento, che nel frattempo da fondamentale era divenuto opzionale, fu affidato, per contratto, al magistrato militare Antonino Intelisano, e poi, nell’a. a. 2011/12, ultimo anno in cui il corso fu assicurato, delle lezioni si incaricò il compianto Collega Beniamino Caravita di Toritto. Dal 2012 la materia fu espunta dall’offerta formativa del Dipartimento di Scienze Politiche sia, asseritamente, per la difficoltà di trovare un docente disponibile, sia per una sorta di rimozione in senso freudiano, secondo una nota ricostruzione (Lanchester), del rapporto tra il rapimento e la morte di Aldo Moro e la Sapienza. E ciò anche in disparte delle commemorazioni nei vari decennali della scomparsa e dell’intitolazione dell’aula XI, avvenuta il 9 maggio 1979, nonché dell’importante Convegno del 2016, ricordato in apertura.
Sono persuaso che la soppressione dell’insegnamento sia stato un errore e mi rammarico molto di non essermi attivato per ripristinarlo, quando presiedevo l’Area didattica in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali. La materia, invece, è ancora presente in parecchi corsi di laurea in Scienze Politiche attivi in altri Atenei. Invero, la conoscenza degli istituti fondamentali del diritto e del processo penale, letti soprattutto con riferimento, per un verso, all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sui principi di legalità e colpevolezza e, per altro verso, tenendo conto dell’incidenza del diritto sovranazionale europeo tanto sul versante dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, quanto su quello delle nuove fattispecie criminose derivanti dal diritto dell’UE, appare oggi assolutamente imprescindibile per qualsiasi amministratore, pubblico o privato, oltre che, ovviamente, come ricordato da Moro, per i funzionari e gli operatori delle forze di polizia.
Il Professore ha sempre preferito insegnare a Scienze Politiche, pur provenendo dalla facoltà giuridica dell’Ateneo barese. Non volle trasferirsi, nel 1969, a Giurisprudenza, quando pure gli fu proposto in occasione dell’istituzione della seconda cattedra di Diritto penale. A Giuliano Vassalli – il Maestro della scienza del diritto penale, principe dell’avvocatura penalistica, che era stato uno dei capi delle organizzazioni militari socialiste nel periodo dell’occupazione nazista di Roma, e che, dopo la vicenda che ci occupa, fu deputato, senatore, poi ministro di grazia e giustizia, e, infine, giudice e presidente della Corte Costituzionale – che teneva la prima cattedra e insisteva per il trasferimento, disse che “quando si è avanti nell’esperienza, ci si accorge che sono poche le cose che contano e sono taluni principi fondamentali ed è quelli che vale la pena di insegnare, ed è questi che io posso meglio sviluppare, senza vincoli, nella facoltà di Scienze Politiche, dove mi trovo bene in questo insegnamento congiunto del Diritto e della Procedura penale”.
Se, nel 1969, avesse accettato di passare a Giurisprudenza, come, a differenza sua, hanno fatto, prima e dopo di lui, numerosi giuristi di questa Facoltà, non avrei avuto il privilegio di essere stato suo studente e di intrattenere poi con lui un dialogo che si è interrotto solo il giorno del sanguinoso sequestro di via Fani.
Come ha rilevato da par suo Giovanni Spadolini, al tempo ministro della Pubblica Istruzione, il 9 maggio 1979, in occasione dell’intitolazione dell’Aula XI al Professore, Moro “si accasò in questo mondo di Scienze Politiche con un perfetto agio e direi quasi con una forma di predilezione che gli derivava da quella concezione non statica ma dinamica del diritto che aveva e lo portava a un incontro, vorrei dire naturale e spontaneo, con le discipline storiche, economiche, sociologiche e politologiche”.
3. L’insegnamento del Professore era posto al secondo anno del corso di laurea in Scienze Politiche, al tempo quadriennale, che seguii nell’a.a. 1969/70. Come ho ricordato, alla fine degli anni Sessanta del Novecento, si trattava di una materia fondamentale e per sostenere l’esame si doveva aver superato quelli di Istituzioni di diritto privato e di Istituzioni di diritto pubblico. Il programma prevedeva lo studio di oltre 900 pagine. Si trattava, nell’anno del mio corso, della settima edizione del Diritto Penale. Parte generale, di Giuseppe Bettiol, pubblicata nel 1969, con l’omissione di alcuni capitoli e della terza edizione delle Istituzioni di Diritto Processuale Penale, di Giovanni Conso, pure del 1969.
Le lezioni iniziavano nei primi giorni di novembre. Assistetti alla prima lezione, molto affollata, ma poi, fino a febbraio, mi concentrai sugli esami del primo anno che non avevo sostenuto per l’occupazione della Facoltà nell’anno precedente, cui avevo partecipato. Ricordo distintamente che una mattina del febbraio 1970, nella quale ero venuto a leggere nella bacheca del corridoio a piano terra le date degli esami, fui fermato dal Professore, che mi chiese come mai non fossi più venuto a lezione e se l’insegnamento da Lui tenuto non mi interessasse. Ovviamente, dalla settimana dopo, partecipai a tutte le lezioni fino al maggio successivo.
La prima volta che entrai nell’aula XI restai stupefatto allorché il Professore non soltanto chiese il mio nome e cognome, ma anche l’indirizzo e il numero di telefono e lo registrasse nell’agenda che aveva sempre con sé. Capii ben presto che questa “schedatura” – come da ex sessantottino allora mi parve – era finalizzata, per un verso, a farci avvertire dalla segreteria del Professore circa i suoi impedimenti a tenere la lezione, determinati dai molteplici impegni in qualità di Ministro degli Affari Esteri, carica ricoperta nel secondo e nel terzo governo Rumor ed anche dei luoghi sostitutivi dell’Università in cui avrebbe recuperato le lezioni saltate. Per altro verso, sostituiva l’antica firma di frequenza, allora non più obbligatoria, come condizione per sostenere l’esame. In vista di questo incontro ho consultato il sito dell’Edizione Nazionale delle opere di Aldo Moro, curato dall’Università di Bologna, ed ho trovato il testo di un suo intervento a Radio Bari, presumibilmente risalente alla fine del 1943, in cui il Professore osservava che “la firma si dovrebbe concedere, oltre che a coloro che hanno frequentato, a quegli altri, la cui assenza a giudizio dei professori sia determinata da una seria ragione personale o famigliare. Si offrirà così al docente un mezzo efficace e insieme pieghevole per garantire il buon andamento della vita accademica, salvando pure interessi incontestabili dei cittadini. Se il professore saprà essere giudice umano e di larghe vedute, si può esser certi che sarà trovata di volta in volta una soluzione equa.” Su questa umanità del Professore ritornerò in seguito.
Nelle sue lezioni il Professore presentava la materia non solo con riferimenti al diritto positivo, come interpretato dalla giurisprudenza, ma anche con una forte impronta di teoria generale del diritto e di filosofia del diritto. Ciò rendeva sicuramente impegnativo l’ascolto per gli studenti di Scienze Politiche, che non avevano nella loro offerta formativa Filosofia del diritto, anche se l’avrebbero potuta scegliere fra i tre esami che allora si potevano effettuare fuori dalla Facoltà. Non è necessario che mi dilunghi sulle sue lezioni, dato che, come ho ricordato, chi fosse interessato al suo particolare approccio al diritto penale, può utilmente consultare il volume curato da Franco Tritto.
L’orario delle lezioni era dalle 9:00 alle 10:00, da novembre a maggio. Al tempo il quarto d’ora accademico era rigorosamente seguito. Tuttavia il Professore, che, prima di venire all’Università si recava a Messa, non arrivava prima delle 9:20-9:25. Io venivo a lezione con un mio compagno di scuola. Al tempo abitavo a casa dei miei genitori, che era molto vicina a quella del Professore. Partivamo non prima delle 8:30 perché il mio amico accompagnava il fratello a scuola, che era di fronte a casa mia. Vedevamo la macchina del Professore e quella della scorta davanti ad una delle chiese presenti, in via Trionfale o a piazza dei Giochi Delfici o a via Regina Margherita, sul percorso da casa alla Sapienza ma poi, mentre loro entravano dall’ingresso principale, nell’allora Piazzale delle Scienze, ora a Lui intitolato, noi cercavamo parcheggio, a volte fin dalle parti del Verano, e quindi entravamo in aula non prima delle 9:30. Dopo la terza volta il Professore chiese come mai fossimo sistematicamente in ritardo e, appresa la motivazione, comunicò che dalla lezione seguente il corso sarebbe iniziato alle 9:35.
Le lezioni non terminavano mai alle 10:00, nonostante il finis che veniva dato dal capo usciere Fusco. Il Professore, infatti, restava nell’aula per almeno altri venti minuti. L’incontro con il Professore aveva pure un abituale proseguimento nell’attiguo corridoio. Egli vi si fermava a lungo, anche per più di un’ora, a volte fino alle 11:30, e questo ci dava modo di conversare con Lui di qualsivoglia argomento. Dai più importanti film in programmazione nelle sale cinematografiche, che da grande appassionato aveva sicuramente già visto, ai fatti di cronaca, fino alle vicende più marcatamente politiche, su cui era interrogato dagli studenti, non solo quelli del corso ma anche quelli di passaggio, con domande molto spesso polemiche, alle quali, con grande pazienza, rispondeva senza eluderne alcuna, esercitando una funzione, che aveva teorizzato in un intervento sempre a Radio Bari del 23 novembre 1943. Parlando dei professori universitari, Moro aveva rilevato che, oltre all’attitudine scientifica, fondamentale fosse “la capacità didattica, che è sapienza della vita, pazienza, comunicativa, umiltà, prestigio, amore” e aggiungeva che “essere scienziati, non vuol dire ancora essere maestri. E se noi abbiamo bisogno di scienziati, anche, e forse ancor più, abbiamo bisogno di maestri”. Ecco, in quelle ore trascorse in corridoio ad ascoltare il Professore, ho appreso molto più di quanto ho acquisito dalla lettura di tanti libri!
Il programma didattico era poi completato da visite agli Istituti di prevenzione e pena, che oggi non credo siano più possibili. Vi si andava in pullman, il Professore sedeva nelle prime file e noi ci alternavamo accanto a Lui, soprattutto al ritorno, per commentare le situazioni che avevamo visto.
Infine l’esame, che era ritenuto da noi studenti mediamente difficile. Ho già detto della lunghezza dei testi da studiare. Come si usava al tempo, era diviso in due momenti. Una prima fase era con gli assistenti, che erano Fortunato (Nino) Lazzàro, Raffaele Dolce e Francesco Saverio Fortuna, tutti e tre magistrati ordinari. Talvolta, quando gli impegni parlamentari glielo consentivano, si aggiungeva Renato Dell’Andro, di sei anni più giovane del Professore, che era il suo successore alla cattedra di Diritto Penale a Bari, dopo il trasferimento di Moro alla Sapienza. I tre magistrati ponevano due domande, una di diritto e l’altra di procedura. Erano abbastanza puntigliosi e chiedevano che sapessimo orientarci nel Codice Penale e nel Codice di Procedura Penale. Per fortuna non pretendevano che li conoscessimo a memoria, come invero era accaduto per le norme della Costituzione, indispensabili per superare l’esame di Istituzioni di diritto pubblico, che iniziava sempre con la domanda: “mi reciti l’art. XY della Costituzione e ne compia l’esegesi” (nel mio caso fu l’art. 13, con i suoi cinque commi), esame che non continuava se non avessimo recitato il testo costituzionale…
La seconda parte dell’esame era con il Professore, che, di regola, chiedeva di approfondire tematiche di carattere generale e, quando avevamo difficoltà a ricordarci le norme, diceva che non dovevamo fare i magistrati o gli avvocati, ma nondimeno, come studenti di Scienze Politiche, dovevamo essere attenti alle riforme introdotte dal Parlamento e all’evoluzione della giurisprudenza, soprattutto quella costituzionale. Per la cronaca, a me chiese di esporre le cause di esclusione dell’antigiuridicità, con particolare riferimento alla legittima difesa. Me lo ricordo perché l’avevo annotato nell’indice del manuale di Bettiol.
4. Mi resta di dire qualcosa sulla missione del Professore come docente ed educatore a tutto tondo. L’esame gli dava, invero, un’ultima occasione di dialogo con gli studenti. Chi aveva seguito le lezioni sapeva però che lo avremmo potuto incontrare nuovamente in corridoio, anche nei due anni successivi e pure tutte le volte in cui fossimo tornati in Facoltà.
Il Professore, come ho ricordato in altra occasione, era un educatore e un amico per i suoi studenti. Questa missione del docente universitario era già chiarissima nello scritto giovanile, destinato alle matricole, Confidenze di un professore, pubblicato su Azione Fucina del 25 dicembre 1944. Vi si legge che “il professore d’Università è (…) al di là delle apparenze togate, un amico, che ama la scuola e i giovani e si ritrova in essi, intero” (…)” Il tuo professore d’Università ti domanda fiducia e collaborazione. Una fiducia che, senza toglierti la personalità, permetta e renda fecondo un insegnamento, il quale non avrebbe altrimenti ragion d’essere. Una collaborazione che, basata sulla fiducia, impedisca a quest’ultima di divenire supina accettazione, contrastante alla vivacità vibrata delle conquiste della scienza”. E continuava dicendo che “il (…) professore è un uomo di scienza (…), che ha dedicato la sua vita alla scienza, un sacerdote della verità. Ciò contribuirà talvolta a fartelo sentire lontano con le sue astrazioni, strumenti inutili per una tecnica professionale troppo ristretta” (…). Però, “in tale modo di essere del professore c’è un insegnamento definitivo per te. Ed è insegnamento ad amare e coltivare la libertà per sé stessa (…) che sarà sempre patrimonio prezioso della tua umanità, senza la quale non potrai essere neppure professionista, perché la professione è come uno svolgimento particolare della tua umanità e la suppone”. Moro concludeva rilevando che “il Maestro ha quel che ha donato; il suo possesso generato da un’amorosa dedizione è il tuo dono, che pare a te (…) piccola cosa ed è invece di valore immenso. Anche non confessata c’è in chi insegna questa gratitudine. La letizia di una giovinezza inesauribile che si alimenta perennemente nella tua fresca giovinezza; la certezza di un valore della scienza, la quale, nell’atto che a te si comunica, mostra di saper servire; il conforto di veder svolgere, bella nel suo dolore, la vita che in te s’impersona con un sorriso d’avvenire”.
Queste parole ben spiegano la sua interpretazione della missione del docente, di cui era parte integrante la sua dedizione all’insegnamento. Del recupero delle lezioni saltate per gli impegni ministeriali ho già detto. Mi limito a ricordare che nella lettera alla moglie Eleonora, non recapitata e poi ritrovata nel covo di via Monte Nevoso, a Milano, il Professore scriveva: “Per l’Università prega Saverio Fortuna di portare il mio saluto affettuoso agli studenti ed il mio rammarico di non poter andar oltre nel corso”.
Su un piano più generale, Moro era, inoltre, assolutamente contrario a che fosse fissata ex lege l’incompatibilità dell’insegnamento con il mandato parlamentare e/o le funzioni governative, ritenendo che, per il docente che non se la sentisse di assicurare il duplice impegno, dovesse essere prevista l’aspettativa a domanda. Riteneva, infatti, che, nella misura in cui si facesse fronte compiutamente al proprio dovere, non fosse giusto, privare gli studenti dell’apporto derivante da un’esperienza collegata con la realtà sociale e la quotidianità. Come ben rilevato da Spadolini, infatti, egli “non concepiva il mandato politico separato dal mandato culturale e universitario, (…), non riteneva possibile l’impegno nella battaglia politica, snervante e logorante, senza il correttivo del contatto con i giovani, senza il correttivo con quella forma spontanea e autentica della società civile (…), che è rappresentata proprio dai giovani.”.
Il Professore aveva perfettamente ragione. Se ci fosse stata l’incompatibilità, poi stabilita dalla riforma universitaria del 1980, non lo avrei avuto come docente, come non avrei potuto laurearmi in Diritto internazionale con Riccardo Monaco, allora giudice alla Corte di giustizia delle Comunità europee, né seguire gli insegnamenti di Politica economica, allora impartiti da Giuseppe Medici, senatore della Repubblica o quelli di Storia dei trattati e politica internazionale e di Storia e istituzioni dei Paesi afro-asiatici, dispensati da Giuseppe Vedovato, allora deputato e vicepresidente della III Commissione Affari esteri, emigrazione o, infine, seguire le lezioni di Storia e politica monetaria, materia di cui era incaricato un non accademico, che si chiamava Paolo Baffi, al tempo direttore generale della Banca d’Italia.
Ad ogni buon conto, ciò che rendeva unica la presenza di Moro in Ateneo era l’estrema disponibilità verso noi studenti, il modo peculiare in cui ci seguiva, anche dopo aver sostenuto l’esame. Si informava sul nostro percorso universitario, facendosi aggiornare sia dei progressi che delle battute d’arresto, di cui chiedeva sempre le motivazioni. Continuava a formarci anche fuori delle aule universitarie, organizzando a nostro beneficio dibattiti su tematiche di attualità, che si tenevano in una sala dell’ex Civis, davanti alla Farnesina, ai quali invitava personalità di spessore assoluto: ricordo, in particolare, Leopoldo Elia, Nino Andreatta e Giovanni Spadolini, con incontri che finivano invariabilmente alle ore piccole.
E ci seguiva pure nella vita, partecipando sia ai momenti lieti, in genere ai matrimoni, spesso come testimone, quando glielo consentivano “gli impegni particolari” o “l’attività straordinaria” – come era solito definire le sue funzioni governative o parlamentari – e, comunque, inviando sempre un pensiero augurale, sia presenziando a quelli luttuosi, dove la partecipazione alle esequie aveva la precedenza assoluta su qualsivoglia impegno.
Il Professore era davvero un “educatore globale”, come lo definì molto bene Franco Tritto. Era dotato di uno straordinario carisma, con una personalità in cui il tratto umano prevaleva sulla componente rigidamente accademica. Avendo percorso la carriera universitaria nel mio settore disciplinare, che è quello del Diritto internazionale e del Diritto dell’Unione europea, ho cercato di trarre ispirazione e di portare nell’insegnamento il suo peculiare modo di intendere la missione del docente, cercando anch’io, nel mio piccolo, di instaurare con gli studenti quel rapporto di “umana cordiale amicizia”, che Lui, ventottenne, aveva indicato alle giovani matricole nelle menzionate Confidenze di un professore e che io, suo studente in questi stessi luoghi cinquantaquattro anni fa, avevo visto mettere in pratica splendidamente.
Carlo Curti Gialdino è vicepresidente dell’Istituto Diplomatico Internazionale. È stato professore ordinario di diritto internazionale e dell’Unione Europea e docente di diritto diplomatico e consolare nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”. È stato membro della delegazione dell’Italia al Consiglio superiore dell’Istituto Universitario Europeo (2003-2013), consulente per il diritto internazionale delle acque non marittime del Servizio di legislazione della Fao (1972-1982), referendario della Corte di giustizia delle Comunità europee (1982-2000), capo di gabinetto del ministro per le Pari opportunità nel 2001, consigliere giuridico dei ministri per le Politiche comunitarie (2000-2005), consigliere giuridico e vicecapo di gabinetto del ministro per il Turismo (2009-2011). Dal 2002 al 2005 è stato anche amministratore unico del Centro nazionale di informazione e documentazione europea.