di Tommaso Nannicini
Il Movimento 5 Stelle, nella sostanza, è un partito di destra, con qualche riverniciatura della peggiore sinistra massimalista, quella che antepone la purezza ideologica alla vita delle persone, l’assistenzialismo alla dignità del lavoro, il moralismo all’etica delle responsabilità, il giustizialismo al garantismo. È di destra perché il populismo e il trasformismo sono da sempre nemici del progresso, la cifra della sinistra.
A meno di non voler snaturare l’identità del Partito democratico, nessuna alleanza permanente con i grillini è neanche immaginabile. In un sistema proporzionale e frammentato, si possono fare alleanze di governo temporanee, ricercando una sintesi faticosa per non lasciare il Paese allo sbando.
Ma l’ossessione del Partito democratico deve restare una sola: trasmettere un’idea forte di sviluppo (sostenibile) e di giustizia sociale (per prendersi cura delle fragilità e dei conflitti del mondo di oggi, non del Novecento). Per poi trasformare quella visione in azione di governo con altre forze del centrosinistra, di cui il Movimento 5 Stelle non fa parte né mai la farà.
Non sarà la sommatoria tra le idee confuse dei grillini e la presunta responsabilità dei gruppi dirigenti del Partito democratico a sconfiggere Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Anzi, aprirà a loro un’autostrada sulle macerie di una crisi sociale che non perderà tempo a farsi politica.
Se domani ci fosse un congresso del Partito democratico vorrei poter votare per una mozione che parta da questa premessa. Non per puntiglio polemico, ma per necessità politica. La stessa necessità a cui ci richiamava Christian Rocca nel suo editoriale di qualche giorno fa.
Una nuova visione progressista non nascerà dall’alleanza permanente con un partito che governava con Salvini e avrebbe continuato a farlo se non ci fosse stato il Papeete. E le scelte del governo Conte non cambieranno di una virgola se il Partito democratico e altre forze del centrosinistra non daranno battaglia nel Paese.
Se i decreti Salvini, l’assistenzialismo di Stato, quota 100 e le crisi aziendali dai nomi che non cambiano mai sono sempre lì, mentre non si vede l’ombra dello Ius Soli o di politiche per la crescita e per la qualità del lavoro, non è perché i grillini hanno tanti parlamentari; questo è un alibi.
La vera ragione è che noi riformisti abbiamo perso da decenni l’egemonia culturale. Sull’Europa, sui migranti, sull’assistenzialismo, e via snocciolando, abbiamo paura di imporre una nostra visione dando battaglia a viso aperto. Troppa paura. Faccio tre esempi, così ci capiamo. Impresa. Lavoro. Democrazia.
Lo confesso: io sono uno statalista, perché penso che l’intervento pubblico sia fondamentale per promuovere giustizia sociale e crescita inclusiva. Ma proprio per questo rabbrividisco di fronte alla faciloneria con cui si discute di Stato e mercato, l’uno contro l’altro armati. Roba da Novecento.
Roba da convegni. Stato e mercato sono due strumenti, devi farli funzionare e capire quando serve l’uno o l’altro a seconda dell’obiettivo. E senza dimenticarti del “terzo pilastro”, per dirla con Raghuram Rajan: della spinta a una crescita inclusiva che può arrivare dal privato sociale, dal terzo settore e dal welfare di comunità.
Oggi si fa un gran parlare di Stato imprenditore. Bene, parliamone. Vogliamo entrare nel capitale di alcune aziende strategiche? Definiamo cosa è “strategico” allora. Dopo che undici governi del passato hanno bruciato nove miliardi degli italiani su Alitalia, la nuova stagione all’insegna dello Stato imprenditore doveva proprio partire con altri tre miliardi su Alitalia?
Con la capitalizzazione di borsa di Lufthansa a 4,4 miliardi non era meglio prendersi il controllo della compagnia tedesca? Provocazioni a parte, dove altro si pensa di investire i soldi pubblici: su economia verde, intelligenza artificiale, internet delle cose, telemedicina, o per salvare aziende decotte inseguendo un consenso di breve periodo e regalando false speranze ai lavoratori? Parliamone.
E parliamo di nomine pubbliche. Lo Stato italiano vuole fare come in Francia acquisendo partecipazioni in grandi aziende? Prima si vada a vedere la procedura, trasparente e meritocratica, con cui la politica francese seleziona i manager pubblici, che infatti passano di continuo dal pubblico al privato.
Mentre da noi abbiamo professionisti del pubblico la cui migliore competenza è frequentare certi salotti e dire sempre sì, tra una tartina e l’altra, ai potenti di turno. Insomma: pensiamo al futuro anziché salvare aziende decotte, selezioniamo manager di qualità anziché gli amici delle elementari di qualche ministro, dopodiché parliamo pure di Stato imprenditore.
Detto questo, adesso non ci serve una nuova Iri per furore ideologico. Ci servono nuove Luxottica e nuovi Cucinelli, non nuove Alitalia. E ci serve uno Stato emancipatore, che fa tante cose, anche – perché no – entrando nel capitale di qualche grande impresa, ma con una strategia chiara, circoscritta e, soprattutto, facendo bene quello che dovrebbe fare e ora non fa.
Pagare la cassa integrazione in tempo. Investire nelle infrastrutture fisiche e digitali. Garantire il diritto a istruzione e formazione di qualità, per tutta la vita e su tutto il territorio. Favorire gli investimenti nella riconversione tecnologica ed ecologica della nostra economia.
Alle imprese devi dare meno bonus categoriali e più convenienza a investire sulla qualità del lavoro. Certo, puoi fare norme contro il dumping sociale e l’elusione fiscale internazionale.
E puoi favorire la partecipazione delle lavoratrici, perché è meglio se nei Consigli di amministrazione entrano i sindacati piuttosto che i partiti. Ma non puoi dettare i livelli occupazionali e le strategie di investimento per legge. Non è il lavoro della politica.
Il nostro compito è un altro. Nonostante cassa integrazione e vincoli ai licenziamenti, nei mesi di marzo e aprile abbiamo perso 398 mila occupati. Una cifra enorme e mai vista in così poco tempo. Per ora sono lavoratori precari, autonomi e giovani in ingresso nel mondo del lavoro a pagare il conto più alto, ma in autunno altre fasce del lavoro dipendente privato avranno serie difficoltà.
Dobbiamo evitare che la crisi occupazionale sfoci in una crisi sociale. Prendendoci cura di chi perderà il lavoro, con un reddito vero e con politiche attive e della formazione dove ci saranno da investire miliardi di euro. Pensare di aiutare i disoccupati con il reddito di cittadinanza è una stupidaggine.
Non tutti i disoccupati sono poveri, per fortuna. Devi aiutarli con un salario di disoccupazione che gli dia un reddito forte appena perdono il lavoro (una Naspi rafforzata e senza cali del reddito nel periodo in cui la percepisci). E devi aiutarli a fare formazione e spostarsi laddove si crea domanda di lavoro.
Abbiamo fatto l’app Immuni per l’emergenza sanitaria. Facciamo subito l’app Occupati. Quando nasci in Italia non devi avere 40 mila euro di debito pubblico sul groppone, ma 40 mila euro di conto personale per la formazione che ti accompagna per tutta la vita.
E ancora. Piuttosto che obbligare le imprese a tenere artificialmente in vita posti decotti, aiutiamole a creare lavoro di qualità. Sostenendo l’occupazione aggregata, non irrigidendo l’occupazione aziendale.
Con una decontribuzione totale di tre anni per i giovani assunti con contratti stabili e con un taglio permanente di otto punti del costo del lavoro a tempo indeterminato (20 miliardi), magari modulandolo per sostenere di più l’occupazione femminile, vero volano di crescita del Paese.
E introducendo congedi di paternità obbligatori e part-time di coppia agevolati dopo la nascita di un figlio, perché la genitorialità sia una scelta di libertà per la coppia, non un’esigenza di cura che ricade solo sulle donne.
Non c’è un minuto da perdere. Sono queste le “terapie intensive” del welfare e del lavoro su cui dobbiamo investire oggi, per non farci trovare impreparati dalla crisi dell’autunno. Una crisi che non scongiureremo con i vincoli ai licenziamenti o le rigidità modello “decreto dignità”.
Chiudo sull’idea di cittadinanza e di democrazia. Il Partito democratico deve dire con chiarezza che questo governo ha un senso se entro questa legislatura ci sarà una legge di cittadinanza per i Nuovi Italiani (o Ius Soli che dir si voglia): sono i compagni di banco dei nostri figli, italiani con meno diritti degli altri.
E se supereremo finalmente la Bossi-Fini e i decreti Salvini per gestire le migrazioni economiche come una risorsa, non come un’emergenza da inseguire: in Italia si deve entrare andando in un’ambasciata e inserendosi in un percorso di integrazione, non rischiando la vita in mare.
Perché vogliamo costruire una società aperta dove tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. La regolarizzazione dei lavoratori stranieri annacquata dai 5 Stelle in pieno Covid-19 è un esempio lampante: c’era un’occasione unica per far emergere i diritti di tutti, italiani e stranieri. Perché laddove c’è un irregolare sfruttato, ci sono italiani che lavorano in nero, finte Naspi o finte partite Iva.
Le libertà sono tutte solidali, non ne offendi una senza offenderle tutte, diceva Filippo Turati. Ecco un altro tema da rilanciare: la lotta all’irregolarità e al sommerso. Diamo a tutti i lavoratori sfruttati, italiani o stranieri, la possibilità di emergere con un reddito forte e un percorso di formazione intensiva, se hanno il coraggio di denunciare i loro sfruttatori. Apriamo i diritti, di tutti.
Non solo. Ci sono altri temi che non tollerano ambiguità. Non è con un taglio lineare alla rappresentanza parlamentare come quello imposto dai grillini che si salva la democrazia, ma prendendo di petto i nodi che allontanano la politica dai cittadini: legge elettorale che dia un reale potere di scelta agli elettori, democrazia governante, democrazia interna dei partiti politici, trasparenza del finanziamento alla politica.
Servono regole trasparenti sulla vita dei partiti politici, delle loro fondazioni e delle loro Srl. Da chi ricevono finanziamenti, che dati usano e per cosa, che regole di vita interna si danno? La democrazia si migliora rafforzando le istituzioni e i corpi intermedi, non sostituendoli con una piattaforma digitale controllata da un Srl.
E c’è, infine, un tema di democrazia economica, di rilancio del ruolo delle parti sociali con regole chiare per misurarne l’effettiva rappresentatività. Non si può fare a meno del sindacato o svilire la contrattazione collettiva, come puntano spesso a fare i 5 Stelle.
Per carità, sono solo esempi in libertà. Ma vogliamo parlarne seriamente? Un tempo c’erano quelli che non volevano morire democristiani. Oggi eviterei di vivere da grillini.
(Articolo pubblicato il 5 giugno 2020 su Linkiesta)
Senatore PD, eletto a Milano. E’ stato consigliere economico del Presidente del Consiglio Renzi e, quindi, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 2016.
Professore ordinario di Economia Politica all’Università Bocconi. Research Fellow a CEPR, IZA, Baffi Carefin e IGIER. Dal 30 maggio 2017 componente della Segreteria Nazionale del Partito Democratico.
Presidente del comitato di indirizzo strategico del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile.