di Vittorio Ferla
Per Enrico Letta la campagna elettorale sembra aver preso una pessima piega. Il segretario dem continua a inanellare errori di comunicazione che tradiscono problemi politici. È una legge ineluttabile: in politica gli errori di comunicazione non sono mai soltanto errori di comunicazione. Poi, certo, anche gli errori di comunicazione contano: Letta non solo non si candida esplicitamente a premier ma si racconta come già sconfitto. Ma così chi ti vota?
L’ultima incongruenza in ordine di tempo riguarda la legge elettorale. Il leader del Pd si prepara ad una sconfitta elettorale senza uno straccio di idea e di strategia degne di questo nome. E così cerca di giustificare la debacle certa dando la colpa al Rosatellum e ai partiti – il M5s e il Terzo Polo di Renzi e Calenda – che, per il fatto stesso di esistere e di competere, sottraggono voti al Pd, falsando la competizione bipolare. In più, aggiunge il segretario dem, “questa legge elettorale, congiunta con la riduzione del numero dei parlamentari, crea il rischio che venga stravolta nei fatti la nostra Costituzione”. Insomma: se i barbari faranno il pienone in Parlamento addio alle garanzie della Carta. Il solito – e inutile – allarme democratico. Di fronte a questo grido di dolore, la cosa più facile per i giornali è ricordare a Letta la contraddizione in cui si ritrova: è stato proprio il Pd, infatti, a votare sia il Rosatellum che il taglio parlamentari, seppur in stagioni politiche diverse.
Come ricorda anche Maria Elena Boschi di Italia Viva, il Rosatellum fu frutto di un accordo di Pd, Forza Italia e Lega e la fiducia fu messa dal governo Gentiloni. Né si può dimenticare che, fin dal suo primo giorno da segretario, Enrico Letta ha chiarito la sua preferenza per il sistema maggioritario. Tutti ricordano, poi, la visita del dicembre scorso di Letta ad Atreju, il festival della destra. In quella occasione il segretario Pd, conversando amabilmente con Giorgia Meloni, ha riaffermato la sua idea: “Io sono sempre stato per il maggioritario e non ho motivi per cambiare idea”. Un gesto con cui Letta legittimò plasticamente la prospettiva di una competizione bipolare con Meloni. Ecco perché le lamentele contro il Rosatellum appaiono oggi come lacrime di coccodrillo.
A dispetto dei suoi critici, peraltro, la legge elettorale vigente non è né meglio né peggio delle altre. Semmai si limita a fare il suo ‘sporco lavoro’ per raggiungere lo scopo per cui era stata concepita. Quando la approvarono, Pd, Lega e Forza Italia avevano in mente tre obiettivi. In primo luogo, la parte maggioritaria doveva servire per confermare quel bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra che segna ormai da circa trent’anni la politica italiana, a partire dall’elezione dei sindaci fino al parlamento. La vittoria di uno dei due poli inoltre avrebbe garantito una migliore stabilità di governo, sempre compatibilmente con gli standard della tradizione repubblicana italiana. In secondo luogo, con l’ampio recupero proporzionale, si pensava di evitare la vittoria schiacciante di un polo sull’altro e di garantire così un’ampia rappresentatività dei partiti in parlamento. Soprattutto, si garantivano le segreterie dei partiti, sia come artefici della composizione delle liste a scapito dell’autonomia dei singoli candidati, sia come protagoniste effettive delle dinamiche parlamentari e istituzionali. Infine, ma tutt’altro che marginale, c’era un’altro obiettivo non dichiarato: alzare una barriera contro la marea montante del M5s che aveva già cominciato a sfondare nel 2013.
Sappiamo come andata a finire. Nonostante il Rosatellum, nel 2018 il M5s straripò ben oltre i confini sperati dai suoi avversari, disegnando un tripolarismo di fatto del sistema politico italiano. Nel mondo reale, insomma, qualsiasi legge elettorale, al di là delle intenzioni dei suoi autori, interagisce per forza di cose con altri due elementi di sistema: l’assetto che si danno le forze politiche nel momento in cui si presentano alle urne e il sistema dei partiti come disegnato dal voto dei cittadini. Evidentemente, il doppio binario maggioritario-proporzionale del Rosatellum aveva maglie troppo larghe per predeterminare risultati obbligati.
Lo stesso problema si ripresenta oggi. Lo schema bipolare secco sognato e preparato da Enrico Letta – anche attraverso i duetti con Giorgia Meloni, nella logica della definizione e legittimazione reciproca dei due contendenti – è saltato. Sia per le scelte politiche dello stesso Letta (rottura con il M5s, alleanza con Sinistra italiana e Verdi) che dei suoi potenziali alleati (Conte e il duo Renzi-Calenda). La stessa logica identitaria del Pd come partito a vocazione maggioritaria appare sempre più sbiadita, prima di tutto perché lo stesso Pd sembra non crederci più. Allo stesso modo, è saltato lo schema – accarezzato ancora una volta da Letta – di una competizione bipolare tra i partiti che si riconoscono nell’Agenda Draghi e quelli che si riconoscono nell’Agenda Meloni. Tutti i partiti, di fatto, si sono sfilati da Draghi. Il primo è stato il M5s che cerca di recuperare la sua natura antagonista e antisistema. Poi è stata la volta di Lega e Forza Italia, ritornati all’ovile del centrodestra. Lo stesso Pd è rimasto in mezzo al guado come al solito, per accontentare la sinistra interna e quella di Fratoianni. Sdraiata su Draghi resterebbe la coppia Renzi-Calenda: in questo caso, però, è lo stesso Draghi ad essersi sfilato, del tutto disinteressato ad associare il suo nome a una delle parti in campo.
Ecco che la situazione sul campo – con l’unipolarismo di fatto che già chiude la partita principale, assegnando la vittoria all’unica coalizione esistente, quella di centrodestra – diventa sempre più confusa, al punto da recuperare singoli derby tra partiti all’insegna del ‘chi supera chi’: Pd vs Fdi, M5s vs Lega, Terzo Polo vs Forza Italia. Insomma, l’apoteosi del caos proporzionalistico. Tornando a Enrico Letta, resta da registrare il capolavoro negativo della sua strategia. Passando dalla vocazione maggioritaria alla vocazione a farsi tutti nemici. Nel caso di Salvini-Berlusconi-Meloni appare un’ovvietà: rappresentano la metà di destra del sistema, alternativa al Pd, e ritornano uniti (all’apparenza) come nel 2018. Ma contro il Pd è condotta anche la campagna del M5s e del Terzo Polo, quelli che avrebbero potuto essere i due motori del polo di centrosinistra, ma che Letta si è persi strada facendo, incapace di scegliere per l’uno o per l’altro. Da una parte, il M5s – che crolla ma ritorna alla casella di partenza, refrattario a coalizzarsi – cerca di attirare i voti dei delusi della sinistra classica. Dall’altra parte, Renzi e Calenda – frutto della cronicizzazione dei problemi del centrosinistra – cercano di raccogliere i delusi dalla retroversione antiliberale del Pd. L’offerta politica italiana offre insomma una quadriglia di proposte: il Pd (che è un polo dimezzato), un polo fatto e finito (il centrodestra), il M5s e il Terzo Polo. Con una linea unica trasversale: tutti contro il Pd.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).