di Marco Leonardi
Quale è il ruolo degli economisti in politica? Molto spesso si devono accontentare di influire sui dettagli perché le decisioni principali hanno un carattere politico, vanno al di là del merito e rispondono alla necessità di mobilitare il consenso. L’esempio più appropriato è costituito dal Jobs Act, una serie di norme varate nel 2015 e che costituiscono una riforma complessiva del mercato del lavoro. Quella riforma avvenne all’esito di un lungo percorso di riflessione, prima di tutto all’interno dell’accademia a livello internazionale, sul ruolo delle leggi di protezione dal licenziamento e dei contratti a termine nel determinare l’occupazione. Una delle domande più frequenti è se la riforma del Jobs Act abbia contribuito o meno ai buoni dati dell’occupazione di questi anni.
Dal 2015 ad oggi nel mercato del lavoro c’è stato un grosso aumento dell’occupazione sia per i giovani che per i più anziani, soprattutto dei contratti a tempo indeterminato fino all’attuale massimo storico, e una diminuzione tendenziale della disoccupazione. Grazie all’uso massiccio della cassa integrazione, l’aumento dell’occupazione e la diminuzione della disoccupazione sono stati solo brevemente interrotti dalla pure molto grave crisi Covid del 2020. Non va tutto bene, semplicemente oggi i problemi del mercato del lavoro non sono più quelli di 10 anni fa. I temi del dibattito pubblico, che nel 2015 erano monopolizzati dalle leggi del licenziamento e dai contratti a termine, si sono spostati su altri temi quali i salari stagnanti, i contratti part time involontari, la demografia in discesa, tutti temi assenti nei ben otto decreti del Jobs Act.
È difficile dire se le norme del 2015 abbiano avuto un effetto positivo sull’andamento dell’occupazione negli anni seguenti perché molte cose sono cambiate nel frattempo. Certo è che gli effetti sono quelli che i legislatori del tempo si auguravano: più occupazione e più contratti a tempo indeterminato. Il punto, però, è sempre stato più politico che tecnico, per questo non stupisce che ora il PD si schieri a maggioranza contro quella riforma. Se il punto è tutto politico, a maggior ragione sarebbe opportuno considerare con maggiore attenzione tutto il resto che è successo in questi anni nel mercato del lavoro e non solo.
Dal 2013 al 2022 il PD è stato parte di tutti i governi tranne la parentesi del governo gialloverde. Gli ultimi due governi precedenti al Meloni, si sono trovati a gestire prima la pandemia Covid e poi l’esplosione del costo dell’energia e la guerra in Ucraina. Le misure di politica economica prese in questi governi sono state del tutto eccezionali: il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione per tutti, i ristori per lavoratori e imprese, le garanzie di liquidità per le imprese; e poi per la fase di ripresa, gli incentivi alle assunzioni, il taglio dei contributi a vantaggio dei redditi bassi, i massicci investimenti pubblici del PNRR. Un primo bilancio di quella gestione della crisi si può già fare: certo sono stati commessi errori come quello del superbonus ma, nei manuali di economia, la crisi del 2020 è un esempio di successo in confronto alla gestione sbagliata della crisi del 2008 e poi di quella del 2012. La grossa differenza la ha fatta il ricorso massiccio alla spesa pubblica.
Non solo nel 2020 si sono evitati gli errori del 2008 spendendo molto di più: dal punto di vista distributivo si è anche riusciti a compensare la parte più povera della popolazione. ISTAT certifica il miglioramento dei numeri sulla diseguaglianza dei redditi sia durante il governo Conte II sia durante il governo Draghi.
Era ben prevedibile che qualunque governo fosse venuto dopo Draghi avrebbe dovuto gestire principalmente, oltre al PNRR, il ritorno alla gestione normale della finanza pubblica con la riduzione della spesa che si era resa necessaria nella crisi. Il tutto in un quadro di nuovi equilibri in Europa e nella geopolitica dei rapporti internazionali.
Se questo è il quadro che premia chi ha gestito la crisi del 2020 e attende i risultati di un difficile ritorno alla normalità da parte del nuovo governo, un partito che volesse candidarsi a gestire questa fase dovrebbe difendere quel che ha fatto con successo e dimostrare di poter fare meglio sul PNRR, sulla gestione della finanza pubblica, nei rapporti europei e internazionali, anche nel mercato del lavoro ovviamente, ma affrontando i problemi dell’attualità, non quelli di 10 anni fa.
È comprensibile la scelta del sindacato, che non deve candidarsi a governare, ma un partito che ha governato, e che spera di tornare a governare, vuole davvero accusare davanti all’opinione pubblica una sua legge? Paradossalmente la prospettiva è di vedersi inevitabilmente sconfitto: se passa il referendum, la Meloni è contenta e pure Landini, mentre il PD è accusato di aver rovinato i lavoratori; se non passa il referendum, il PD è sconfitto e la Meloni è contenta lo stesso.
Professore di economia politica all’università degli Studi di Milano, si occupa di disoccupazione e diseguaglianze. E’ stato tra gli anni 2015 e 2018 membro del comitato tecnico di valutazione della Presidenza del Consiglio e consigliere economico del Presidente Gentiloni. Ha scritto un libro sulle riforme di quegli anni dal titolo “le riforme dimezzate, perché su lavoro e pensioni non si può tornare indietro”, EGEA 2018. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale.