di Alberto De Bernardi
In questa settimana successiva alla Direzione del Pd – nella quale il segretario in maniera invero contorta ha riaffermato che in questa legislatura ci sarà un’alleanza con i 5S – tre autorevoli voci si sono susseguite per ribadire che il problema dell’alleanza con il “populismo buono” dei grillini resta aperto e rimane un nodo politico centrale della strategia del partito: se non si risolve infatti il Pd rimane isolato e costretto ad una opposizione permanente perché la “vocazione maggioritaria” , come ha ricordato Folli resta un illusione che va superata.
Tre approfondimenti
I tre autorevoli esponenti del Pd sono stati Cuperlo, Fassino e Sala che in diverse circostanze hanno precisato il senso della proposta di Franceschini con tre argomenti consonanti:
- Bisogna rompere l’alleanza di ferro tra il M5S e la Lega, che tiene imprigionato il paese, inserendosi nelle fratture che separano i due contraenti il “contratto di governo”, allo scopo di fare saltare la maggioranza e possibilmente andare al voto. Anche se le forze di governo si manifestano nella concreta azione parlamentare assai più coese di quel che i litigi continui – a mio parere orchestrati per una platea di giornalisti avvezzi a scambiare lucciole per lanterne – farebbero apparire, questo wishful thinking resta comunque la bussola politica dell’attuale maggioranza del Pd. Costoro non si vogliono convincere che di Maio e Salvini siano come i ladri di Pisa, che litigano di giorno e rubano insieme di notte, ma che siano portatori di strategie diverse: in quella di Salvini non c’è niente di buono, in quella dei 5S invece, gratta, gratta, sotto la scorza populista si scopre l’araba fenice della sinistra.
- Ammesso che il “mai con Di Maio” sia effettivo, dalle interviste e prese di posizione ricordate emerge l’obbiettivo di spaccare i 5S, ormai allo sbando, separando il “partito di Di Maio”, asservito alla Lega e destinato all’implosione, da una sorta di “nuovo 5S” di sinistra, democratico, ancorchè rozzo, ma capace di portare linfa nuova alla sinistra italiana. Un partito “di ragazzi” che però le esperte mani della sinistra ex pd, ex cattocomunista e ex sinistra democristiana potrebbero plasmare facendolo diventare un attore attivo della riscossa antipopulista. L’idea che sta dietro questa visione è che il nemico sia Salvini – un misto di sovranismo, fascismo, estremismo di destra, violenza politica, antidemocrazia – mentre il M5S sia una sorta di incidente della storia, che ha raccolto però istanze di cambiamento, di pulizia della vita politica, di partecipazione che non vanno abbandonate, ma ricondotte nell’alveo della democrazia parlamentare. E’ la vecchia idea di Bersani del M5S “partito di centro”. E’ l’idea di Franceschini di creare un nuovo “arco costituzionale” con cui isolare Salvini, nel quale i 5S possono avere un ruolo attivo, perché riportati all’ovile dei fondamenti della costituzione: la ridicola raffigurazione di Conte come novello Aldo Moro, che vede le firme più prestigiose del giornalismo impegnate nel ruolo di fiancheggiatori della maggioranza del Pd, fa parte di questa strategia, anche a costo di sfidare l’intelligenza dei loro lettori (sempre meno, peraltro).
- Per realizzare questa confusa strategia il punto di partenza è di contrapporsi solo a Salvini e lasciare sullo sfondo i 5S, anche dopo i fatti ignobili di Bibbiano: le contorsioni ridicole per la presentazione della mozione di sfiducia a Salvini, che avrebbero messo in difficoltà i 5S – lo farà quando non serve più -, il tentativo di realizzare dopo la defenestrazione di Faraone, una sosta di Laboratorio siciliano promosso dal capobastone locale della corrente di Franceschini, o la ripresa dell’attacco concentrico contro Renzi, ritenuto il principale ostacolo al confronto, testimoniano il punto di contatto tra questi tre interventi sia non solo e non tanto fare emergere le contraddizioni tra gli alleati, ma soprattutto riconoscere le differenze tra il M5S e Salvini.
Oltre il congresso
Questi sono gli indirizzi politici su cui le correnti di sinistra e quella di Franceschini garantiscono il loro sostegno a Zingaretti, senza il quale la sua segreteria cadrebbe domani mattina e soprattutto sono intenzionate a dare su queste basi ideologiche il colpo decisivo al “renzismo”, anche a costo di provocare una frattura irreparabile. Su questi indirizzi che rappresentano la vera linea politica dell’attuale Pd vale la pena di entrare maggiormente nel merito.
Il primo punto riguarda le forme e il metodo. Non era questa la linea su cui Zingaretti ha vinto il congresso, e quindi non è stato su questa che gli iscritti prima e poi i cittadini con le primarie sono stati chiamati a pronunciarsi e a decidere: loro dovevano decidere sul ritorno a sinistra, sul “campo largo”, sul ritorno nelle periferie, ma non sull’alleanza strategica con i 5S, sempre smentita. Per quanto tempo Zingaretti potrà reggere nell’ambiguità di dire una cosa – no all’alleanza con i 5S confermata da tutte le direzioni successive al congresso – mentre con il suo consenso i suoi principali azionisti di maggioranza ne dicono e ne fanno una opposta?
Ovviamente non potrà per molto tenere i piedi in due staffe, anche perché in questa situazione rischia due clamorosi autogol.
Due autogol
Il primo è rafforzare, al di là delle intenzioni, proprio il “partito di Di Maio”, oggi l’unico M5S che esiste, colpito al cuore dalla sconfitta elettorale sia alle europee e costretto a fare il cameriere di Salvini per difendere la sua poltrona e quella di trecento tra deputati e senatori, portando alle estreme conseguenze la contraddizione tra giocare a fare l’opposizione e approvare supinamente tutti i provvedimenti che la Lega vuole realizzare. Ora ce ne sono tre decisivi: l’autonomia differenziata, la finanziaria, le nomine negli organismi europei sui quali si giocherà il futuro del governo e del paese stesso. Un Pd tutto concentrato sulla battaglia antisalviniana, in nome dell’antifascismo e dei diritti umani, che per mettere le basi di un futuro fumoso “arco costituzionale” gioca solo di rimessa nei confronti dei 5S, darebbe a Di Maio la straordinaria opportunità di risalire la china, lasciandogli campo libero per accreditarsi come l’unico oppositore della destra sovranista e come vittima del “sistema”, di cui il Pd fa parte.
Il secondo riguarda l’ammissione gravissima per un leader politico che il suo Pd senza l’accordo con una parte dei 5S, dopo che si saranno liberati di Di Maio o meno, non potrà mai più andare al governo, perché è destinato a rimanere un partito del 20% e dintorni anche col “campo più largo possibile”. E’ di fatto una dichiarazione di resa, di irreversibile debolezza, come ha ben evidenziato Veltroni nell’intervista a Repubblica, se dopo aver chiamato a raccolta tutto ciò che stava alla sua sinistra, svendendo persino i risultati dei governi che aveva guidato, il Pd di Zingaretti affermasse che senza un accordo con una parte dell’universo populista e antipolitico – cioè con un accordo con l’antidemocrazia illiberale – per il Pd non c’è futuro se non come forza di opposizione. Franceschini e i suoi sodali hanno probabilmente preso atto che l’egemonia populista di destra non è di breve durata e che l’unica possibilità per rientrare nell’area del governo sia legata alla disponibilità di una parte delle forze egemoni di utilizzare il Pd come strumento utile a ridefinire i suoi equilibri interni. Ma senza nessuna possibilità di dettare l’agenda, se non per finta, accreditando la convinzione che le gli obbiettivi e le proposte degli altri sia anche le sue: è già accaduto con il salario minimo, con la lotta alle grandi opere, con l’accettazione dello statalismo assistenzialista, come strumento per il rilancio del Mezzogiorno, che serpeggiano nella cultura politica della attuale maggioranza del Pd.
Senza alternativa
Il progetto di alleanza con i 5S nasconde, dunque, dietro la burbanzosa supponenza con cui è proposto, la cupa realtà di un gruppo dirigente irresoluto che non ha nessuna effettiva strategia per fare l’opposizione e elaborare su questa puntigliosamente e chiaramente una proposta alternativa, per conquistare quella massa di elettorato fluttuante che è costituta attualmente dal 40% del corpo elettorale che non vota e contemporaneamente spostare una parte del consenso attualmente attratto dall’offerta politica populista. Nonostante lo dica ai quattro venti il Pd oggi non ha e non è l’alternativa. Per realizzare questo obbiettivo ambizioso e oggettivamente difficilissimo capace di metterlo all’altezza effettiva della sfida politica che lo riguarda come centro propulsivo potenziale dell’alternativa democratica, il Pd dovrebbe avere chiarezza sui suoi valori e sulla sua identità.
Ma questa lacuna strategica né Zingaretti, un buon amministratore, ma politicamente teleguidato dagli ex Ds dentro e fuori il Pd, né Franceschini, uomo di corrente, non leader politico, né altri sono in grado di colmarla, anche perché sono tenuti insieme dal collante dell’”antirenzismo”, cioè dal rifiuto dell’unica leadership che ha tentato di definire l’identità riformista del Pd e tradurla in politiche di governo. Senza quell’esperienza il Pd non recupera la sua orgogliosa tradizione di partito di sinistra, come vorrebbe D’Alema, ma precipita nell’irrilevanza. Il rapido declino di Corbyn, per molto tempo descritto a casa nostra come il novello alfiere della sinistra socialista sta lì a dimostrarlo. Qualcuno nel Pd questo dilemma lo ha colto…speriamo si faccia avanti con meno timidezza.
L’arco costituzionale nell’età del postantifascismo
Nell’ambizione di volare alto Franceschini ha evocato la necessità di costituire insieme con il M5S e le altre forze politiche democratiche un nuovo “arco costituzionale” costituitosi negli anni ‘70 per contrastare il terrorismo sia nero che rosso, di cui fu chiamato anche il Pci a farne parte. Una sorta di ritorno al CLN, che non aveva però aspirazioni di governo – nonostante il Pci ne fosse convinto – quanto piuttosto quella di definire lo spazio della legittimità politica in un momento di estrema vulnerabilità della Repubblica e che trovò la sua massima espressione nell’elezione di Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica. Fuori dall’area della legittimità stava solo il Msi, in quanto erede del fascismo e fin dalla sua promulgazione contrario al patto costituzionale. Il fondamento della legittimità era infatti il riconoscimento dei valori dell’antifascismo e della repubblica dei partiti sostenuti dalla Costituzione.
Ma oggi è possibile riproporre quello schema? No. E’ una operazione senza fondamento per tre ragioni di fondo:
1- non ci sono più i partiti che quell’arco avevano costituito, nati tutti nella Resistenza e nel fuoriuscitismo e travolti da tangentopoli e dalla fine della guerra fredda;
2- l’antifascismo non è un valore fondante delle culture politiche dominati: non lo è per tutto il centrodestra, non lo è per i 5S;
3- non si può collocare fuori dalla legittimità democratica chi ha vinto le elezioni e veleggia oltre il 35% dei consensi come la Lega: sarebbe un atto eversivo.
Utilizzare l’antifascismo per creare una frattura nell’universo populista è una operazione politicamente ambigua e destinata al fallimento, perché si attribuisce al M5S la possibilità di riconoscersi in una matrice ideale che esso non ha mai avuto, né ha mai rivendicato. D’altronde fare il “vaffaday” in nome dei fratelli Cervi appare persino grottesco: Grillo è un uomo di destra e non c’è nulla nella sua storia politica che faccia supporre il contrario; era di destra anche quando faceva il comico. Anzi i 5S sono più lontani dall’antifascismo di quanto non lo sia la tradizione dell’etnopopulismo leghista, tra i cui adepti l’antifascismo era un valore presente, né qualche parola buttata lì da Fico e da altri militanti può bastare per coprire sia le origini neofasciste di molti dirigenti 5S, sia la voragine di ignoranza politica di tutto il movimento, dentro cui è precipitato inevitabilmente anche l’antifascismo, sia soprattutto la distanza siderale tra quest’ultimo e la tavola dei valori della Casaleggio e associati, portatori di un populismo sostanzialmente “antiantifascista”, perché anticostituzionale e nemico della democrazia parlamentare.
Con la proposta di Franceschini siamo di fronte ad un uso distorto della storia, che serve a dare dignità strategica a un progetto politico che esprime non già la forza di contrapporsi al terrorismo come accade nel passato, ma la debolezza di non saper contrastare il populismo nazionalista, se non attraverso l’invenzione di scorciatoie politiciste.
Per fare cosa?
In tutta questa discussione sull’alleanza con i 5S c’è un grande assente, che nessuno di coloro che l’ha evocata o proposta ha messo in chiaro: un’alleanza per fare cosa? Per realizzare quale programma? Infatti ogni progetto di aggregazione o di intesa di forze politiche per assumere il governo del paese presuppone quasi giocoforza di definire un’agenda politica di priorità e di obbiettivi da realizzarsi in comune. Ma nessuno fin a ora ha detto una sola parola su questo tema decisivo. Ma questo non è frutto del caso, ma di una visione della politica nella quale vengono prima le combinazioni governative e poi i programmi: la prima repubblica è stata un enciclopedia di infinite varianti di questo modello.
Eppure noi sabbiamo che le due uniche esperienze riformiste guidate da forze di centro sinistra – il primo governo Prodi e i governo Renzi – si fondavano su un potente disegno di modernizzazione del paese che aveva i suoi fondamenti nell’Europa, nell’Occidente, nel progressismo democratico, nella libertà combinata all’eguaglianza, nella lotta alle corporazioni e nella burocrazia. Anche se non raggiunsero tutti gli obbiettivi che si era proposti spinsero il paese in avanti, come non mai era accaduto negli ultimi trent’anni. Persino i governi D’Alema e l’infausta Unione aveva grandi obbiettivi. E ora invece un silenzio assordante accompagna la campagna per l’alleanza tra il Pd e i populisti “buoni” per quel che riguarda il programma di governo. D’altronde non è facile affrontare il tema con il partito della decrescita felice, delle toghe politicizzate, degli amici di Maduro, dei condoni, e dell’euroscetticismo.
Ma chi ha proposto questa alleanza ha il dovere di rispondere a questa domanda, ha il dovere di dire agli italiani per quali obbiettivi abbia senso una alleanza “contronatura”: per difendere i diritti umani? Per una nuova politica dell’emigrazione? Per rilanciare lo sviluppo? Per una nuova stagione di europeismo attivo? E deve farlo in fretta perché tra pochi giorni il Pd voterà in parlamento insieme alla Lega per proseguire i lavori della Tav contro i 5S.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019