di Marco Bentivogli
In questi anni, di Fiat si è discusso e narrato molto in Italia con categorie più utili a descrivere la cronaca rosa che una grande vicenda industriale. Troppo spesso si passa dall’elogio all’azienda a una generalizzata demonizzazione di quello che hanno fatto i sindacati. Quegli accordi, condizione per tornare ad investire in Italia, sono costati aggressioni e assalti alle nostre sedi, e dirigenti messi sotto scorta. Per cosa? Forse per avere salvato il settore. Un altro abruzzese come Silone diceva giustamente che le istituzioni e le loro opere le fanno le persone. E questa cosa l’ha fatta Marchionne con una parte del sindacato contro tutti.
La Fiat, malata di scarsa innovazione
Finanche La Stampa di Torino fu molto fredda nei mesi più duri dello scontro. Sergio Marchionne ha preso la Fiat da anni malata di scarsa innovazione, di errori nella gestione delle persone e delle strategie commerciali. La crisi si apre formalmente solo nel 2002, ma il declino inizia molti anni prima. Alcuni lo fanno risalire all’uscita di Vittorio Ghidella nel 1988. Sta di fatto che la Fiat dal 1980 al 2010 ha perso 50mila dipendenti. Un lungo succedersi di cambiamenti al timone dell’azienda, molti eventi nella proprietà, incrociati con continui e importanti cambiamenti nel settore automotive.
Nel 2004, quando entra in scena Sergio Marchionne, l’azienda è sull’orlo del baratro: perde più di un miliardo di euro l’anno, rischia la chiusura. L’anno precedente era considerata tecnicamente fallita. Dal 2007 la riorganizzazione rientra nel vivo.
In quella situazione di crisi e riorganizzazione del settore auto, al protagonismo dei governi americano e tedesco fa da contraltare l’assenza del governo italiano.
L’acquisto di Chrysler Group
Fca il 21 luglio 2011 ottiene il controllo della maggioranza del pacchetto azionario di Chrysler Group. Nel gennaio del 2014 viene annunciato l’inizio delle operazioni volte ad acquisire la totalità delle azioni Chrysler. Il 16 dicembre 2014 la Fiom commentò tale operazione dicendo che «la Fiat non esiste più».
In realtà, accadeva l’esatto contrario. La Fiat era morta dieci anni prima e proprio in quell’anno ritornava in vita. Altrettanto valeva per Chrysler.
D’altra parte, come si fa a non riconoscere l’intuizione e la strategia vincente di fronte ad un consolidamento complessivo del mercato mondiale dell’auto attorno a 5-6 grandi player e alla possibilità di rimanere in partita con alleanze internazionali, capacità di integrare piattaforme e puntare su innovazione e organizzazione del lavoro?
È anche vero che nel nostro Paese, l’Ad Fiat aprì il confronto con un diverso tenore rispetto a quanto avvenne dopo in Usa e Germania. Il 18 giugno 2009 Sergio Marchionne preannunciò, e ribadì il 22 dicembre a Palazzo Chigi, la chiusura dello storico insediamento siciliano di Termini Imerese.
Il piano “Fabbrica Italia”
Torniamo indietro. Il 21 aprile 2010 venne annunciato il piano “Fabbrica Italia”. Tutte le organizzazioni sindacali lo accolsero favorevolmente, perché prevedeva importanti investimenti invece di altre chiusure di stabilimenti. Si trattava di un piano che si basava su una visione del mercato italiano ed europeo che risultò in seguito troppo ottimistica, visto il suo crollo del 50% (da 2.700.000 vetture a 1.350.000), ma che consentì di salvare lo stabilimento di Pomigliano e costruì le condizioni e gli impegni per rilanciare poi gli altri siti in Italia.
Pomigliano era inizialmente condannato alla stessa sorte di Termini Imerese, lo stabilimento di Pomigliano era sostanzialmente chiuso: quasi tutti i lavoratori erano a casa, inizialmente la Fiat pensava, dopo il no della Fiom, che noi ci saremmo accodati ma Fim, Uilm, Ugl e Fismic furono intransigenti nel proseguire il negoziato e arrivammo all’accordo. Pomigliano doveva avere un futuro, e così fu nonostante dentro Fiat, e non solo, una parte del vertice puntava sul “no corale” di tutto il sindacato, per poter andar via veramente dall’Italia, perché dopo Pomigliano, ci sarebbero state Melfi, Cassino e Mirafiori. Quel “sì”, invece, riaprì la partita. E Marchionne mantenne il patto con noi.
Quell’accordo impegnò manager e azionisti di Fiat a evitare altre chiusure di siti produttivi nella crisi più devastante del settore automotive degli ultimi 50 anni. I dati acquisiti dal Comitato aziendale europeo (Cae) sono emblematici. Gli occupati in Europa di Fca passano da 84.329 nel 2011 a 82.680 nel 2014. Gli altri settori industriali hanno perso tutti di più.
L’uscita da Confindustria
Nell’autunno del 2011 la Fiat annunciò l’uscita da Confindustria, con effetto dal primo gennaio 2012. Si aprì, di conseguenza, uno scontro durissimo con Marchionne. Fu uno strappo che anche noi contrastammo, che tuttavia lanciava un sasso nello stagno di un establishment pigro, adagiato sulla rendita. Politici, banchieri, giornalisti e sindacalisti da intrattenimento, che vivevano a corte della vecchia Fiat, avevano tentato maldestramente di camuffare la durezza storica delle relazioni industriali in Fiat, come se Romiti e Agnelli fossero dei socialdemocratici e Marchionne il cattivissimo.
In realtà molti, a cominciare dal segretario della Fiom, su questa retorica disfattista hanno costruito una carriera, se non ancora politica perlomeno mediatica.
Quanto a buona parte dei media, essi dimenticavano che la Fiat non era mai stata palestra di relazioni industriali partecipative, semmai terreno di scontro e antagonismo, spesso aziendale ancor prima che sindacale. Troppi smemorati dimenticavano le vicende dei “reparti confino” e altre espressioni tipiche della politica del Lingotto. A ricordarlo chiaramente ci pensò Cesare Romiti, proprio nei giorni dell’accordo di Pomigliano, quando stigmatizzando il comportamento di Marchionne affermò: «Il sindacato non va diviso, va battuto».
Il confronto con il sindacato
Sarebbe stato molto più semplice anche dividersi sul merito. I contratti sono strumenti che intervengono a regolare uno scambio fra soggetti interdipendenti. Lo scambio negoziale si fonda su un principio di reciprocità, che scatta soltanto se la rappresentanza dei lavoratori aderisce ai principi organizzativi della nuova fabbrica. Eppure la stessa Fiom aveva sottoscritto insieme alla Fim accordi in cui riconosceva come fattore di innovazione sostenibile proprio l’Uas e il Wcm, persino nel documento del Network sindacale mondiale dell’auto.
C’è stata, dunque, molta ambiguità nel riconoscere ruoli e responsabilità. Una politica delle mani legate a tutti e libere per sé e della non accettazione del principio maggioritario. La Fiom era abituata ad essere coccolata dalla vecchia Fiat, il cui consenso arrivava ad essere più importante del progetto industriale. Un modo di fare perdente, tipico di un mondo che non c’è più, nel quale l’incidenza e l’occupazione industriale sulla società italiana erano enormi ed era forte il legame che univa, soprattutto una parte del sindacato, alla politica. Un modo che ha arrecato molti danni.
L’ottima risposta del mercato
L’ottima risposta del mercato sia ai prodotti Maserati sia alle nuove auto di Melfi (Jeep Renegade e 500X), il lancio della nuova Alfa Romeo Giulia, del SUV Levante e degli altri modelli previsti nel piano con Giulia e Stelvio, ci hanno avvicinato senza centrare l’obiettivo della piena occupazione entro il 2018, dopo anni molto difficili, nei quali la cassa integrazione aveva coinvolto il 30% degli occupati.
Questa è la Storia. Il resto appartiene a una narrazione mediatica strumentale orchestrata da giornalisti e sindacalisti che non hanno mai letto neanche il testo degli accordi.
Da Pomigliano in poi, la ricostruzione nell’ex Fiat di un’affidabilità sul terreno delle relazioni industriali, terreno che prima era molto pregiudicato, ha consentito di festeggiare oggi quanto si malediva fino a qualche mese fa. L’elemento interessante è avere visto gli effetti positivi, proprio negli stabilimenti Fca, dell’implementazione del World Class Manufacturing (Wcm).
La migliore organizzazione del lavoro
Il World Class Manufacturing è applicato in Fiat, oggi Fca, dal 2005. La scelta del modello produttivo e l’adozione del Wcm come organizzazione del lavoro ha avuto un seguito nella scelta contrattuale. Questo è molto importante perché altrimenti non si comprendono né la vicenda Fiat, né tantomeno l’accordo.
Chi dice che ci abbia fatto “subire” gli accordi, non conosce di cosa parla, che non ha faticato a comprendere che i vecchi accordi Fiat, anche molto importanti, sull’organizzazione del lavoro, come quello del 1971, erano completamente inefficaci in una fabbrica moderna, dove il Wcm è in fase avanzata.
Alcuni si sono attardati nella difesa di questi accordi ritagliati per la fabbrica fordista, ma che non danno alcuno spazio di governo sindacale nei nuovi contesti organizzativi. Questo non vale solo per la professionalità, ma anche per gli spazi di azione del sindacato in fabbrica. Il ruolo del lavoro organizzato dentro la fabbrica moderna necessita sicuramente di un cambio culturale, ma anche di un nuovo sistema di ruoli e di norme.
Come ha ben ricordato Bruno Manghi, è passata la bugia dello “schiavismo” come risultato degli accordi sindacali su investimenti e Wcm. Questo grazie a quanti hanno fatto disinformazione definendoli “accordi firmati sulla carne viva dei lavoratori”. Inoltre, la metrica del lavoro Eaws, alla base del sistema Ergo-Uas, introdotto con gli accordi in Fca e Cnhi è utilizzata nel mondo da molte aziende automotive (e non solo) da decenni, in particolare dai costruttori tedeschi. Anche Volkswagen ha implementato il sistema Ergo-Uas in tutti i suoi impianti nel mondo. Ugualmente lo stabilimento Lamborghini di Sant’Agata Bolognese, essendo parte del gruppo Vw-Audi, usa Ergo-Uas. Tutti schiavi?
Il medagliere del Wcm contiene non solo elementi di efficienza, ma anche aspetti molto interessanti relativi alle questioni della sicurezza sul lavoro e a tutti i fattori che all’interno dell’azienda concorrono a migliorare progressivamente la gestione e i risultati dello stabilimento.
Questo offre al sindacato l’opportunità di tornare a occuparsi dell’organizzazione del lavoro. In questa prospettiva vanno superate due culture, quella dell’antagonismo e quella del paternalismo, per fare passi avanti verso la partecipazione. Il coronamento di questo percorso è introdurre nella governance societaria di Fca il sistema duale, con un Comitato di direzione e uno di sorveglianza, con partecipazione paritetica tra rappresentanti degli azionisti e dei lavoratori. Sarebbe la sfida per una maturazione di relazioni sindacali innovative, che renderebbero muti e marginali paternalismi e antagonismi. Certo, i miglioramenti da compiere sono ancora numerosi.
Un ambiente più sano, sicuro, sostenibile e vivibile
La continua ricerca dell’efficienza, infatti, porta certamente i ritmi di lavoro a farsi più intensi; ma per converso è largamente condivisa la percezione di una prestazione di lavoro in un ambiente più sano, sicuro, sostenibile e vivibile.
Solo chi non conosce una fabbrica moderna e il lavoro di un metalmeccanico può pensare che un lavoratore sia più frustrato in una fabbrica con una migliore organizzazione. Come sostenuto da tutto il Network sindacale globale di Fca e Cnhi, di cui tutte le organizzazioni metalmeccaniche italiane fanno parte, il giudizio sul Wcm è largamente positivo. Ci sono, però, nodi ancora da superare. Non basta il coinvolgimento dei lavoratori, serve la loro partecipazione e quella del sindacato che accetta la sfida. Ora, con la sopravvivenza del settore in Italia e la ripartenza degli investimenti, la sfida è la conciliazione virtuosa tra produttività e qualità del lavoro.
La vicenda Fiat (oggi Fca) rappresenta pertanto una storia di successo, la possibilità di assicurare un futuro sostenibile alla manifattura nelle economie mature. La fusione con Fca, il Wcm, gli accordi sindacali, sono una dimostrazione della capacità di gestire la diversità multidimensionale in un’economia globale. Su oltre 180 stabilimenti che utilizzano il Wcm, Pomigliano nel settembre 2015 si è classificato al primo posto.
Una storia di successo
Altri gruppi industriali italiani, in settori che hanno subito minor crollo di mercato (si veda solo a titolo esemplificativo l’aerospazio), hanno avuto un crollo di addetti che l’automotive localizzata in Italia non ha registrato.
È la dimostrazione che la tenuta della manifattura passa per scelte strategiche internazionali e organiche. La vicenda Fca dimostra che ciò può avvenire, smontando i falsi miti che individuano nel costo dei fattori – riduzione del salario e deterioramento delle condizioni di lavoro in primis – le leve su cui agire per difendere nel lungo periodo la localizzazione produttiva. L’introduzione del Wcm corona quello che la Fim sostiene da anni: una migliore organizzazione del lavoro contiene i costi, determina un mix più favorevole, con l’impiego estremo di tecnologie che garantiscono una migliore difesa occupazionale. Capire le trasformazioni nel nostro Paese viene confuso con “l’accettare un ricatto”.
Ciò non toglie che Marchionne, spesso, ha affermato male le sue prerogative. Non ha mai creduto nella partecipazione del Sindacato e questo è stato un grande limite.
L’eredità di Marchionne
Ora tocca a Jack Manley. Ha un’eredità pesantissima davanti: l’azzeramento del debito (il mese scorso) e l’aver centrato i target finanziari fino ad oggi è un buon punto di partenza. I 9 nuovi modelli da realizzare e la completa elettrificazione della gamma su cui investire oltre 9 miliardi € sono un piano ambizioso. Piano per cui serve la seconda puntata a cui mirava Marchionne una grande alleanza internazionale con un player, che la rafforzasse, tecnologicamente finanziariamente e verso il continente asiatico. In Italia attendiamo a breve notizie sulla data di partenza dell’implementazione e della localizzazione dei nuovi modelli, utile a saturare tutti gli impianti e ritornare ovunque alla piena occupazione.
L’incontro più importante per me con Marchionne è stato a marzo 2016, non eravamo nella solita slot frettolosa, ha voluto affrontare ogni risultato centrato ma anche tutti i nodi aperti, tra una muratti e l’altra, parlando dell’Italia nel mondo. Forse le cose che abbiamo fatto insieme a lui sono state dirompenti, per la rappresentanza, le relazioni industriali, l’economia. Sono stati gli shock riformisti di cui l’Italia ha bisogno di ripartire e che l’Italia respinge puntualmente per non cambiare.
Qualcuno per giudicare il nostro “tradimento” confonde un accordo sindacale come un matrimonio, senza sapere che è semplicemente individuare obiettivi comuni e fare un pezzo di strada assieme per centrare quegli obiettivi, in un paese che lo considera un reato. E invece significa riaprire le partite e cambiare i destini apparentemente ineluttabili che in Italia significa avere il coraggio di non accettare i ricatti di chi preferisce le fabbriche chiuse all’assunzione di responsabilità impegnative perché è innamorato più delle idee che delle persone.
Articolo tratto da Il Sole 24 Ore del 22 luglio 2018
Segretario Fim Cisl