di Alberto De Bernardi
Ho partecipato in questi mesi alla discussione sulla fase politica che stiamo vivendo sulle prospettive politiche immediate e future della Pd e della sinistra in alcuni circoli della mia città; parallelamente ho seguito molto da vicino la discussione all’interno di Libertà Eguale: due situazioni completamente diverse anche per il livello della discussione, ma entrambe accomunate, seppur in misura assai diversa, da una medesima incertezza e da una stessa divergenza che affondano le loro radici nel recente passato.
Tre giudizi sui governi PD
Riguardano il giudizio storico-politico che si dà sui governi Renzi-Gentiloni, a cui aggiungerei anche se mi minor peso, quello di Letta. Tre governi caratterizzati dal comune profilo di governi di coalizione con partiti di centro-destra, nei quali però il Pd è stata la forza egemone al punto da poterli annoverare come espressione politica del progetto strategico di una forza riformista del socialismo europeo. Di fronte a questa esperienza che l’intero gruppo dirigente dovrebbe condividere si registra invece una polarizzazione radicale, trascinata certo dal giudizio che si dà sulla figura di Renzi, ma che va ben oltre e che chiama in causa la/le concezione/i del riformismo che caratterizzano la sinistra.
I giudizi si possono suddividere in tre tipologie:
- I governi del nostro partito sono stati un’esperienza fallimentare, autodistruttiva, sostanzialmente guidata da una concezione di destra, coerente con il “renzismo”, una ideologia estranea alla sinistra nella quasi si intrecciano un blairismo fuori tempo massimo e una sudditanza dai dettami neoliberisti: un governo del “partito del petrolieri” come disse Emiliano, e prima in altra forma tutti i fuoriusciti di Bersani e D’Alema, confluiti in Mpd Art 1. e come continuano a dire Cuperlo e Orlando, che ha prodotto diseguaglianze e povertà.
- Si tratta di governicchi, che hanno fatto qualche cosa di buono, ma in ogni caso poco incisivi, e poi sostanzialmente inconcludenti dopo la sconfitta referendaria, perché guidati da una classe dirigente di modeste capacità alla mercè di un leader divisivo e arrogante. In ogni caso bisogna voltare pagina e seguire nuove strade: “abbiamo capito la lezione” e il nostro punto di riferimento diventano Corbyn e Sanders, i cui governi non esistono, ma indicano la strada di un riformismo ad altro tasso di protezione del lavoro e dei deboli.
- In sintesi, calendianamente, i migliori governi degli ultimi trent’anni. Hanno preso per i capelli l’Italia finita nella crisi dell’eurozona iniziata nel 2010 in una posizione di estrema debolezza, e in un contesto di ripresa economica ancora incerta, perché la crisi non era affatto finita tra il ’14 e il ’17 hanno rimesso a posto i fondamentali, garantito la crescita combinata con la ripresa dell’occupazione e la lotta alla povertà. Un successo dunque – con le ovvie zone d’ombra – che hanno messo alla prova la capacità di governo di un partito giovane e indebolito al suo interno da divisioni molto radicali e in molti casi incompatibili.
La natura del riformismo
Queste tre posizioni sono lo specchio fedele non di un pluralismo programmatico e ideale scontato e necessario in un grande partito popolare come il PD, ma di divergenze talmente profonde che hanno avuto l’effetto non solo di rallentare l’azione del governo, ma soprattutto di impedire che quest’azione diventasse la trama politica dell’iniziativa del partito: in questa frattura tra partito e governo il dibattito interno al Pd è diventato una costante resa dei conti tra gruppo dirigenti organizzati in correnti, dove minoranze ideologiche, poco interessate a mettere alla prova l’orizzonte ideale del riformismo in un progetto governativo concreto, hanno ostacolato la maggioranza interessata a farlo.
Il carattere di Renzi e il padre della Boschi c’entrano ben poco; sono semmai rappresentazioni utili all’interno di narrazioni politiche che hanno pero altre finalità: impedire al Pd di diventare quella forza politica riformista, liberalsocialista, moderna che stava nell’orizzonte ideale e programmatico lanciato al Lingotto nel 2008.
Un progetto alternativo, volto ad ancorare il nuovo partito ad una vecchia tradizione socialdemocratica, più presunta che effettiva, frettolosamente rielaborata dagli eredi del Pci e alle evoluzioni della sinistra democristiana, che prima ha schiantato Veltroni e poi ha eroso la forza del progetto renziano fino a portarlo alla sconfitta.
Il PD, dunque, fin dalle sue origini è stato attraversato da una divergenza sul riformismo, che ha limitato le sue capacità/possibilità di essere una risorsa politica efficace nella fase storica e politica nella quale è immerso il mondo.
Se è vero che le crisi plasmano le nazioni e, come dei reagenti chimici, provocano cambiamenti non solo nelle strutture economiche ma anche nella conformazione degli attori sociali e delle modalità con cui essi cooperano e confliggono nello spazio politico, la qualità del riformismo si misura nella capacità di rispondere a questa sfida non solo sul piano della policy, ma anche in quello più complesso delle culture politiche e delle tavole di valore.
Oltre la crisi dei debiti sovrani
I governi Pd vanno valutati su questo e non sulla base di opzioni ideologiche, che anche alla luce dei risultati bavaresi, appaiono sempre più scollegate dalla realtà. Il quinquennio tra il 2013 e il 2017 può essere considerata una fase politica nella quale l’UE e i principali stati europei sono messi di fronte alla necessità di uscire dalla crisi dei debiti sovrani che tre anni prima aveva minacciato le fondamenta della costruzione europea e la sopravvivenza dell’euro.
Con la rielezione di Obama, gli interventi massicci della Fed e l’avvio della politica di Draghi legata al QE, nella seconda metà del 2012 cominciano a operare gli strumenti tecnici e politici per rilanciare la costruzione europea e la ripresa; ma i danni del triennio di austerity precedente sono stati terribili: l’esautoramento dei governi greco e italiano, gli interventi della troika in diversi stati europei, una sostanziale stagnazione economica che scava un fossato tra gli Stati Uniti e la UE, un aumento della disoccupazione e una caduta verticale della fiducia dei consumatori alimentati dalla mitologia conservatrice della pareggio di bilancio hanno aperto una duplice frattura: tra l’Eu e i suoi cittadini; tra Usa e Eu per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale.
E ancora per i due anni successivi attorno al debito greco si svolse una partita politica di grande rilievo tra austerity e politiche monetarie attive per la crescita, tra neoliberismo e una sorta di keynesismo 2.0: e in questo contesto che sono chiamati a misurarsi i governi Renzi-Gentiloni, che sono governi di coalizione tra forze di sinistra di diversa tradizione politica e europeisti liberali, in qualche caso conservatori, come quasi tutti quelli europei.
Il contributo dei governi Renzi-Gentiloni
Questi due governi decidono di diventare un attore significativo del cambiamento di strategia macroeconomica europea nel quale la disciplina di bilancio è chiamata a integrarsi con nuovi strumenti di intervento economico di carattere espansivo. Certo il patto di stabilità e crescita è una “porta stretta” dal punto di vista dell’effettiva capacità d’iniziativa dei singoli stati, ma è stato anche un campo di lotta politica tra visioni diverse dell’Europa in cui il gruppo dirigente del pd ha avuto un ruolo di notevole spessore.
Il riformismo è dunque è stato messo alla prova della lenta uscita dell’Europa dalla crisi e il nodo politico su cui orientare la discussione congressuale dovrebbe sciogliere il quesito se i governi Renzi-Gentiloni abbiano giocato bene o male la partita difficilissima che consisteva nel recuperare il massimo di risorse disponibili, allentando la maglia delle rigide compatibilità, per attivare politiche di redistribuzione della ricchezza: non in astratto ma attraverso un confronto con i governi di Hollande, in Francia, di Tsipras in Grecia e di Costa in Portogallo, che sono stati gli unici tre governi di sinistra dell’Europa in quegli anni.
Uno sguardo retrospettivo serio deve prendere atto che queste coalizioni tra centristi europeisti e forze riformiste socialdemocratiche e liberal democratiche sono riuscite, seppur solo in parte, a superare la crisi dei debiti sovrani, che era il volto europeo della più generale crisi della globalizzazione neoliberista, come è accertato da tutti gli indicatori di sviluppo a nostra disposizione.
Il Pd ha tirato fuori l’Italia dalla crisi
L’Italia non ha rappresentato un’eccezione, ma una variante virtuosa di questo processo, nonostante le maggiori difficoltà dovute al peso del suo debito e alla debolezza della coalizione governativa, frutto non solo di una classe dirigente autorevole, ma di una durissima lotta politica in sede europea.
Quando si dice che Il Pd ha tirato fuori il paese dalla crisi, significa riconoscergli un merito storico, non solo politico, che dovrebbe inorgoglire l’intero partito. Così non è però perchè un parte minoritaria del partito non ha partecipato a questa battaglia, non ha contribuito a questo risultato, anzi lo ha ostacolata e disconosciuto perché asserragliata in una visione del riformismo divergente da quella che ha animato l’azione dei governi a guida Pd, quando non addirittura collocata al di fuori di questo campo politico-ideale, se si seguono le biografie di dirigenti come ad esempio Fassina o Emiliano. E’ un riformismo fondato sul trinomio protezione, statalismo, debito pubblico che è fortemente confliggente con quello del “renzismo” fondato su opportunità, globalismo inclusivo, merito e mercato.
Non c’è nessuna ragione di “chiedere scusa agli italiani”
Non c’è dunque nessuna ragione di “chiedere scusa agli italiani”: se lo si propone come indirizzo politico, come “manifesto” di una rifondazione del Pd, al di la delle prese di posizione estemporanee, significa non solo dare ragione ai nostri avversari, ma soprattutto ritenere che sia possibile attivare politiche di redistribuzione della ricchezza, che costituiscono l’essenza di ogni progetto riformista, al di fuori di quel “sentiero stretto” che è stato perseguito nel quinquennio precedente.
Ma fuori di esso si entra nella terra di nessuno nella quale il sostegno ai ceti deboli non si fa carico dei problemi dello sviluppo e della formazione del capitale sociale indispensabili per perseguire l’obbiettivo dell’eguaglianza.
Senza crescita non c’è redistribuzione e questo non è cedimento alle logiche del neoliberismo come ha sostenuto il candidato Zingaretti, quanto piuttosto aderire all’essenza più profonda del keynesismo, perché i diritti sociali hanno una natura profondamente diversa da quelli civili, avendo che fare con la produzione delle risorse economiche in grado di sostenerli.
Separare redistribuzione da produzione di ricchezza porta a Maduro, non a Keynes: altro che “critica al capitalismo” che vorrebbero fare Zingaretti, Boccia e Damiano, chiudendo l’Ilva, reintroducendo l’art. 18 o sostenendo il progetto di Salvini di riformare le pensioni con “quota 100”.
Eppure abbiamo perso
Ogni sconfitta è una lezione per chi fa politica: da capire come ci ha ricordato Martina. Per capire però bisogna andare a fondo dei processi storici nei quali la politica è inserita, non è darsi ragione come stanno facendo Zingaretti e gli altri candidati, riducendo la spiegazione a una damnatio memoriae di Renzi e ritornando indietro, ma non si sa bene dove: al Prodi dell’Ulivo, al D’Alema antiulivista e anti Pd, al Prodi dell’Unione, al Bersani di “Italia bene comune” o a Leu che si astiene sul Def di Salvini e Di Maio, fino al nazionalismo antieuropeista alla Malenchon, che trapela in molte prese di posizione “a sinistra”? Nessuno dei candidati scioglie questi nodi, perché non va oltre il suo naso autoreferenziale tutto proiettato dentro una battaglia di partito.
E invece bisogna calarsi nelle vicende politiche dell’Occidente a partire dal 2014 quando si verificò il successo di Marie Le Pen in Francia, dell’Ukip in Gran Bretagna, del Partito popolare danese per cercare di capire gli eventi che hanno travolto la sinistra in tutta Europa nel triennio successivo fino alla vittoria della Lega e dei 5S in Italia.
La doppia debolezza dell’Europa e degli Stati nazionali
La crisi dei debiti sovrani e le difficoltà dell’Europa di dare vita a un progetto di sviluppo coerente con la sua tavola di valori storici capace di contrastarla, portava alle sue estreme conseguenze la frattura tra l’UE e gli stati nazionali perché la prima non era in grado di costruire una “mano visibile” sovranazionale in grado di salvaguardare, seppur nelle nuove dinamiche della globalizzazione, quel compromesso sociale tra i “produttori” su cui si fondava la stabilità politica degli stati nazionali dell’Occidente, che era già stato messo fortemente in discussione dalle forze di mercato che già dagli anni novanta erano penetrate fin dentro i meccanismi di funzionamento del welfare, integrandoli al processo di estrazione del valore.
L’intreccio perverso tra due debolezze – quella degli stati nazionali indeboliti dalla globalizzazione neoliberista e quella della UE che non riusciva a mettere in campo politiche macroecomiche e finanziarie all’altezza della crisi perchè indebolita dalle sue divisioni strategiche, dalle miopie delle sue elités politiche dominanti, dalla effettiva durezza della crisi e dalle migrazioni di massa – ha fatto saltare i rapporti i tra eguaglianza e libertà, tra profitto e benessere, su cui si erano rette per mezzo secolo le società democratiche occidentali: ha rotto in sintesi in Occidente, quel rapporto tra sviluppo economico e emancipazione sociale e civile, che ha coinvolto pienamente il lavoro e ha fondato i sistemi politici nelle democrazie di massa.
Per questa ragione la crisi dello stato nazionale e della UE rischia di trascinare con sé la democrazia, in quanto era stata l’esito politico di quell’equilibrio tra stato, mercato e cittadini, emerso dalla seconda guerra mondiale e che aveva faticosamente retto fino alla fine del secolo scorso.
Crisi della democrazia e ritorno alla sovranità statale
Ma in quel fatidico 2014 emerge un’ alternativa alle coalizioni che stanno guidando l’Europa; essa prospetta il ritorno alla sovranità statale come ancora di salvezza per comunità di nazionali sbandate e sfiduciate che non si accontentano più di qualche buon risultato economico – anzi sembra che nemmeno se ne accorgano – ma che vogliono garanzie protettive per il loro futuro.
Gli imprenditori politici della paura hanno ricette facili: espellere gli immigrati, fare saltare i vincoli europei in nome di una contrapposizione fasulla tra popoli ed èlites sovranazionali, redistribuendo risorse che non ci sono facendole pagare alle generazioni future.
La proposta del progressismo europeista incarnata da Renzi e dal Pd non ha retto l’urto del sovranismo populista dei 5S e della Lega, come il partito democratico statunitense non ha retto l’offensiva di Trump o come gli europeisti britannici sono stati sconfitti dai fautori della brexit, come era già accaduto in Danimarca nel 2015 con la caduta del governo socialista guidato da Helle Thorning-Schmidt.
Hanno vinto i fautori della società chiusa
La sconfitta si iscrive dunque in una nuova fase che si è aperta quando il superamento della crisi cominciava a dare i suoi frutti nella quale i fautori della società chiusa hanno prevalso su quelli che sostenevano una società aperta, rendendo quei risultati politicamente inutili e “invisibili” di fronte alle paure delle classi medie impoverite, anche perché non hanno raggiunto quella massa critica in grado di rendere percepibile un’inversione netta di tendenza rispetto al passato.
Ci voleva tempo e il tempo non c’è stato.
Nel caso italiano poi i limiti della proposta riformista sono stati enfatizzati sia dal riesplodere in forme del tutto nuove della questione meridionale, sia dal riemergere della “questione settentrionale”: una secessione assistenzialista e statalista nel sud, combinata con un ritorno alla rivolta fiscale nel nord.
Che fare? Le alternative
Di fronte a questo scenario Libertà Eguale ha proposto più riformismo, più radicalità nel costruire l’alternativa progressista al nazionalismo populista; Zingaretti ha detto torniamo indietro.
Una contrapposizione netta di prospettive che si trascina dietro una divergenza profonda sulle alleanze da costruire:
- comitati civici e forme nuove di aggregazione per allargare verso le forze civili che stanno al centro della società il progetto riformista andando oltre il PD
- o riproporre un alleanza “di sinistra” che va dall’Anpi a Leu e con in mezzo tutto il composito fronte degli avversari del riformismo.
Una contrapposizione che implica inoltre un giudizio diverso sul rapporto da avere con il M5S:
- combatterlo come parte integrante e – per molti aspetti – la più pericolosa del fronte sovranista-populista, soprattutto nel Mezzogiorno;
- oppure allearsi nella prospettiva di “disarticolarlo” in quanto portatore di visioni politiche di sinistra.
Contro il populismo di sinistra
Ma il problema è proprio qui: sempre nel populismo ci sono istanze di sinistra – c’erano persino nel fascismo – ma chiuse in una logica corporativa, assistenzialista, che genera subalternità al potere, che soprattutto non sprigiona nessuna formazione di capitale sociale moderno da spendere in una salto di qualità dello sviluppo locale e nel rafforzamento della democrazia, soprattutto al sud.
Il modello, piuttosto che il riformismo, è Lauro, che però è un gigante rispetto a Di Maio (come ci insegna il bel libro di Paolo Macrì su Napoli appena uscito dal Mulino).
Questa sinistra è uno dei volti della destra, più difficile da combattere che la xenofobia di Salvini o le idiozie di Toninelli sulle infrastrutture. Ma la sfida è qui perché questo è il terreno reale dove si svolge lo scontro vero tra riformismo e populismo; per ora il progetto sovranista ha disarticolato la sinistra non solo perché Leu si è astenuta sul Def, ma anche perché ha fatto venire allo scoperto le correnti nazionaliste e antieuropeiste presenti al nostro interno, che si sono già trasferite politicamente in quel campo politico avverso al riformismo: basta leggere l’ultimo comunicato Anpi sui fatti di Lodi, o il dibattito interno alla Cgil per capirlo chiaramente.
Questi sono i temi veri del congresso del Pd, che sta soprattutto a noi riproporli con forza se non vogliamo che l’incertezza sulla collocazione del Pd, invece di produrre l’effetto di “romanizzare i barbari” come ha proposto il politologo Orsina, ci faccia amaramente scoprire che ormai ci sono un po’ di barbari anche in mezzo a noi.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019