di Claudia Mancina
Mi è accaduto varie volte di chiedermi come sarebbe stata la storia italiana se ci fosse stato un rapporto inverso dal punto di vista quantitativo tra Partito Socialista e Partito Comunista, cioè se il Partito Socialista fosse stato più grande e il Partito Comunista più piccolo. Sarebbe stata sicuramente una storia molto diversa, forse una storia più simile a quella degli altri Paesi europei. L’anomalia italiana sarebbe stata sicuramente o inesistente o comunque molto meno pronunciata, perché l’anomalia italiana consisteva, come Ceccanti ha spiegato molto bene, nella presenza di questo forte Partito Comunista.
Tuttavia forse ci dovremmo chiedere come mai è successo che il Partito Socialista dal 1946 ha immediatamente perso la sua preponderanza mentre il Partito Comunista è cresciuto in modo estremamente significativo e ha continuato a crescere, a parte qualche ovvio momento di frenata. Ora io non pretendo di rispondere a questa domanda, è una domanda che tocca più agli storici, però la mia impressione è che all’uscita dalla guerra, in una atmosfera caratterizzata dalle difficoltà ma anche dall’entusiasmo della ricostruzione, il Partito Comunista apparisse – ai giovani soprattutto – come qualcosa di più nuovo, di più fresco, di più seriamente organizzato. L’organizzazione del Partito Comunista, che è stata più tardi considerata quasi un difetto, era allora invece vista come un elemento di grande valore, di grande stima. E un elemento di concretezza.
Credo anche che il Partito Socialista, nella fase precedente al fascismo, all’inizio del Novecento, si fosse esposto a un giudizio negativo, con le sue contorsioni interne, con la frattura violenta tra riformisti e rivoluzionari, essendo poi – dopo la nascita del Partito comunista – altrettanto rivoluzionario dei comunisti. Mi pare cioè che il Partito socialista non rappresentasse in quella fase, e anche nell’immediato dopoguerra, un’opzione realmente socialdemocratica, ma qualcosa di non molto diverso dai comunisti. Comunque la storia è andata così; per quanto la storia controfattuale sia utile, non è il caso di interrogarsi oltre un certo limite su una possibile storia diversa.
Sul partito nuovo e il ruolo di Togliatti è stato detto molto. Io vorrei ricordare un episodio, un piccolo episodio, perché è stata citata, come segno della vocazione insurrezionale del PCI, l’occupazione della Prefettura di Milano nel 1947. Bisognerebbe citare però anche la risposta – ben nota – che Togliatti dette a Pajetta che gli telefonava tutto orgoglioso: “abbiamo preso la Prefettura di Milano”; la risposta fu: “bravi, adesso che ve ne fate?” Che non è una cosa da poco, ma mostra chiaramente che il PCI di allora non aveva affatto una prospettiva di tipo insurrezionale. Certamente in seguito a una scelta di Stalin e agli accordi di Jalta, come ha ricordato Amato; ma anche come effetto di un filone di pensiero sviluppato da Gramsci in carcere e dallo stesso Togliatti nell’esilio sovietico. Se non fosse così non comprenderemmo passaggi fondamentali della storia italiana, come la partecipazione alla Costituente anche dopo l’esclusione dal governo; o il modo in cui si comportò il Partito Comunista durante il rapimento di Moro. Non potremmo neppure comprendere Berlinguer e il suo avvicinamento al governo negli anni Settanta.
È vero però, e questo credo che debba essere sottolineato, che ci fu una sottile vena insurrezionale in parte dentro il Pci ma soprattutto fuori e accanto ad esso (penso al tema del cosiddetto “tradimento della Resistenza”), che rimase viva molto sottotraccia e molto minoritaria, e che riemerse poi in collegamento con il terrorismo (l’album di famiglia della Rossanda non era una stupidaggine). Però non era quello il PCI, non era quella la linea del PCI, che d’altra parte, anche questo va detto e sottolineato con forza, non ruppe mai i suoi rapporti con Mosca: la “doppiezza”, che significava stare sì dentro la democrazia, ma non dentro l’Occidente.
Vorrei dire qualcosa sugli altri temi che ha sollevato Amato rispetto all’oggi e al domani e cioè le questioni che riguardano le prospettive della nostra democrazia. A proposito delle lucciole di Pasolini, io per esempio non sono tanto d’ accordo. Ricordo un passo di Miriam Mafai, che scriveva (nei colloqui con Reichlin e Foa) “le lucciole sono tornate”, cioè non c’è solo il regresso, a volte ci sono anche momenti di progresso. Le lucciole sono tornate perché è diminuito l’impatto dei pesticidi, non è scomparso completamente ma è diminuito. Il declino non è ineluttabile, come pensava Pasolini, e le lucciole possono tornare.
Questo per dire che ho qualche perplessità sull’atteggiamento totalmente anticonsumistico che si incarna nella figura di Pasolini, più che nelle figure di Habermas e Ratzinger nel loro dibattito del 2004. Devo dire soprattutto Ratzinger interessantissimo, più ancora di Habermas.
Ma tornando alla questione del consumismo, non sono così convinta che sia possibile essere totalmente negativi su questo punto, perché una tendenza al consumo e al godimento del consumo anche materiale è insita nell’essere umano ed è strettamente connessa alla innovazione tecnologica che è la principale caratteristica dell’homo sapiens. Cos’erano le fiere medievali, diffuse in tutta Europa, se non appunto il tentativo di avvicinarsi a oggetti di consumo, naturalmente in condizioni di risorse – di offerta e di domanda – completamente diverse da quella in cui viviamo noi?
Però poi il consumismo, per usare questa parola standard, che è uno slogan, è stato uno degli elementi fondamentali della caduta del comunismo. I cittadini dei Paesi comunisti si sono trovati di fronte a una organizzazione statale e sociale che predicava l’uguaglianza, nella quale invece c’era una assoluta disuguaglianza, come fu denunciato già negli anni Sessanta nel celebre libro di Milovan Gilas sulla nuova classe: la classe dei burocrati, che godeva di condizioni di grande privilegio sfruttando i cittadini lavoratori. La percezione ormai generalizzata della disuguaglianza, l’assenza di libertà e l’arretratezza tecnologica: sono questi gli elementi sui quali è caduto il comunismo. Il desiderio di consumi migliori e più facili sintetizza questi tre elementi. E non è un caso che, quando i tedeschi dell’Est si sono riversati nelle strade di Berlino ovest, dove sono andati? Sono andati nei grandi magazzini, cosa che i comunisti, anche noi comunisti italiani, abbiamo guardato con grande disprezzo. Allora era solo un problema di consumismo? O si trattava di avere una vita migliore, come avevamo in Occidente e come in quei Paesi non avevano proprio, neanche nella Germania Est che pure era il paese più avanzato, più coccolato e più ricco? (E oggi, per un terribile paradosso della storia, quello in cui si sviluppano i partiti neonazisti.)
L’ultimo punto che vorrei toccare è questo: il presentismo della politica. Certo, è verissimo che siamo in una fase in cui la politica non riesce a guardare neanche all’anno dopo, figurarsi allo sviluppo decennale di questioni come quella climatica o quella, ad essa collegata, della riconversione industriale. Io però credo che questo sia fondamentalmente un problema della politica; sull’opinione pubblica sono meno pessimista e mi chiedo se non possiamo guardare con un po’ più di fiducia all’evoluzione della nostra società. È vero che ci sono gli attacchi ai medici, agli insegnanti, che c’è un aumento dell’egoismo sociale, dovuto anche alla pessima influenza dei social media, ma credo che la responsabilità maggiore sia di una politica che non è in grado di rispondere ai bisogni della società, non è in grado di indicare prospettive di sviluppo al paese, e tanto meno di indicare dei valori.
Io non credo di avere soluzioni, per carità. Un punto che però mi sentirei di sottolineare è quello dei valori conservatori di cui pure ha parlato Giuliano Amato. Io credo che la sinistra debba avere la capacità e l’umiltà di assumere, sia pure trasformandoli, almeno alcuni valori che appaiono a uno sguardo pigro conservatori. Credo che questo sia il punto vero che abbiamo di fronte. Io non chiedo alla religione di svolgere questo ruolo, anche perché il discorso sulla religione oggi è più complicato che mai: la nostra società è inevitabilmente multireligiosa e multiculturale, in tutti i paesi democratici, e questo rende ancora più difficile attribuire alla religione (quale religione?) il ruolo di “deposito di valori” evocato da Habermas. Credo che la politica progressista possa e debba elaborare da sé il deposito di valori che è necessario per ricostruire una società libera e solidale.
Faccio un esempio. La politica progressista, una politica che guardi avanti, deve essere in grado di porsi seriamente, e non soltanto in termini ideologici o moralistici, il problema dell’immigrazione. Non basta l’idea di accoglienza, bisogna porsi il problema di come concretamente strutturare l’ingresso di migliaia e migliaia di persone nei nostri Paesi, delle quali peraltro abbiamo bisogno. Non è solo per generosità che li dobbiamo fare entrare, è anche perché ne abbiamo bisogno, come ci ripetono tutti i giorni gli industriali e gli economisti.
Però bisogna pensare a modi concreti di inserire queste persone nel nostro tessuto sociale, rispettando la loro cultura e la loro religione, (sono convinta che l’assimilazione nel vecchio senso francese sia fallita e non sia più un modello), però nello stesso tempo richiedendo una adesione a quelli che sono i valori fondamentali della nostra società democratica e anche, non dobbiamo temere di dirlo, della nostra tradizione culturale. La differenza tra la sinistra e la destra non dovrebbe essere sulla negazione o affermazione della tradizione culturale, ma sul modo di concepirla: come qualcosa di statico o come qualcosa che è in continua evoluzione, oggi come ieri e come domani.
Così come penso che sarebbe giusto anche recuperare un concetto progressivo di nazione, e non lasciare questo concetto esclusivamente alla destra. Non credo che sia un concetto di destra: è nato come concetto democratico (non c’è bisogno di citare Mazzini, John Stuart Mill, Renan), ma anche oggi è un concetto che ha e deve avere un senso democratico e progressivo.
Mi fermo qui perché non voglio fare un elenco. Voglio però dire, come atteggiamento generale, che credo che la parte progressiva, quella che è erede del Partito Socialista e anche in buona parte del Partito Comunista e naturalmente del Partito Popolare e della Democrazia Cristiana, dovrebbe avere la capacità di ripensare in termini un po’ più aperti, un po’ più dinamici, il proprio patrimonio politico-culturale. Il nostro patrimonio di idee mi pare un po’ troppo – come dire – adagiato su sé stesso; non guarda sufficientemente ai mutamenti che sono in atto nella società. Per guardare a questi mutamenti, per cercare soluzioni nuove, temo che non basti rivolgersi alla religione; bisogna ripensare, rinnovare coraggiosamente tutto il nostro patrimonio, quello del mondo cattolico così come quello del mondo della sinistra.
Articolo pubblicato sul numero 11-12/2024 della rivista Mondoperaio
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)