di Enrico Borghi
Non sono un “ragazzo del coro”. Me lo insegnò Carlo Donat Cattin, un giorno. A margine di un evento pubblico, Fausto Del Ponte (indimenticato comandante partigiano e senatore per due legislature) mi presentò al leader di “Forze Nuove” che era intervenuto alla Festa dell’Amicizia di Pieve Vergonte. “Carlo, ti presento Enrico Borghi. E’ un nostro giovane leone. Digli qualcosa”. Donat Cattin mi squadrò, e lapidario disse: “se vorrai davvero combattere in politica, non dovrai mai essere un ragazzo del coro”. Ecco, tra i miei mille difetti, ho questo. Non sono un ragazzo del coro. E quindi non mi unisco ai peana, agli appelli e alle suppliche (che preferisco non aggettivare) di fronte alle dimissioni del segretario Zingaretti. Di fronte alle dimissioni, a mio avviso in politica servono le riflessioni.
Andrea Orlando ha invitato il partito a considerare queste dimissioni come una fatto politico, e non come il frutto di un capriccio caratteriale. Sono d’accordo con lui. Quando il leader di una comunità politica decide di compiere un gesto così rilevante, va analizzato con le lenti dell’analisi politica. E il fatto politico -se vogliamo analizzare i fatti, e non credere alle veline o agli spin- è che occorre una valutazione su ciò che è stato e su ciò che sarà. Altrimenti tutto questo rischia di essere non solo inutile, ma addirittura dannoso.
Il lessico delle dimissioni: una resa culturale al populismo
Con una sola osservazione in premessa, rispetto alle modalità scelte. Mi ha molto colpito il lessico utilizzato dal segretario per motivare la sua scelta, che va comunque rispettata anche quando non la si condivide. Nicola ha detto di “vergognarsi” del suo partito. E ha accusato il Pd di occuparsi solo di “poltrone”.
Per quel che vale, ho un’altra opinione. Non credo che ci si debba vergognare del Pd, e non credo che la ricerca del potere sia l’unica attività che in esso vi si svolge. Al contrario, ho sempre visto un Pd fatto di donne e uomini sinceramente impegnati per un ideale. E quando ci si batte per un’idea, non bisogna vergognarsi mai. Ma la mia opinione è relativa.
Ciò che mi ha colpito è il lessico impiegato. Aver utilizzato il binomio “vergogna-poltrone” mi è sembrata una clamorosa resa culturale al populismo, a quel qualunquismo destrorso da noi sempre avversato che ha sempre additato nei partiti la sentina di tutti i mali e li ha interpretati come luogo della perdizione e della perdita di tempo. Nella democrazia rappresentativa, le “poltrone” non sono solo il logico traguardo per chi fa politica, ma il giusto strumento per convertire in fatti i propri valori e le proprie idee. Quando il potere è un mezzo e non un fine, la presenza nei luoghi del potere non può diventare esecrabile. E’ la fisiologia della politica. Gli strumenti del potere -se non vogliamo tutti improvvisamente trasformarci in anime belle- in politica servono per il perseguimento dei propri obiettivi, per l’inveramento dei propri ideali. E a sinistra questo aspetto è sempre stato molto preciso, tant’è vero che il linguaggio populista veniva sempre bandito con grande attenzione.
Questa riflessione sulla semantica mi porta alle due valutazioni politiche sulle dimissioni.
Il ‘frontismo’ e la subordinazione politica al M5s
La prima attiene a ciò che è stato. Ed è relativa al rischio -definiamolo così- della subordinazione culturale e politica del Pd al Movimento 5 Stelle. Non voglio addebitare al segretario cose che non gli appartengono, perchè ancora nella sua conclusione all’ultima direzione ha parlato dell’esigenza del rilancio della “vocazione maggioritaria” del Pd. Ma è indubbio che l’azione politica di chi lo ha consigliato, guidato e indirizzato in questi anni, e nei passaggi chiave di questa ultima crisi politica in particolare, ha evidenziato (dentro il prospettato conglomerato Pd-M5S-Leu a guida Conte, voluto e amplificato da Travaglio e dai corifei del “Fatto Quotidiano” fino al punto da sdoganare la pratica della caccia al “responsabile” con nostro colpevole silenzio davanti ad una pratica del genere…) il ritorno ad una sorta di “frontismo 4.0” come unica prospettiva politica del Pd.
Un “frontismo” nel quale il Pd si chiude ad ogni prospettiva espansiva sul versante dell’elettorato liberal-riformista, ecologista e popolare (che ne fece la fortuna nel 2008 e nel 2014), accettando al tempo stesso incomprensibilmente di decapitarsi, offrendo la leadership a Giuseppe Conte dentro un malinteso senso di affidamento di una funzione di rappresentanza dei ceti “moderati”. Una auto-decapitazione che colpisce alla base il senso identitario di un Pd che nasce nel 2007 per candidarsi esso stesso alla leadership del governo in quanto partito a vocazione maggioritaria. Accettando di porci in una logica subalterna a Conte, ci siamo posti in una condizione innaturale per la nostra stessa identità. Il rischio che dalla subalternità politica si giunga a quella culturale, come ho dimostrato prima (e come potrei esemplificare con molta casistica) è troppo forte per essere taciuto e per non incorrere nei peccati di omissione.
Il governo Draghi? È molto meglio del precedente
La seconda riflessione attiene a ciò che ci sarà. Il governo Draghi non è nato per scherzo, per imposizione o per dispetto nei confronti del Pd. Se il Pd fosse stato contrario a questa soluzione, la nostra delegazione lo avrebbe dovuto dire a chiare lettere sia al Presidente della Repubblica che all’allora Presidente incaricato. Invece ci siamo imbarcati in questa vicenda. Consapevolmente.
Ma il governo Draghi non è -come qualcuno sostiene- un governo “parzialmente estraneo al Pd e alla sinistra”, dal quale sottrarci “a pandemia rientrata”. Al contrario, questo esecutivo su alcune questioni essenziali (politica estera, politica fiscale, rapporto con l’Unione Europea, riforme istituzionali) è molto più affine alle posizioni nostre anche rispetto al governo che lo ha preceduto. Fare gli schizzinosi davanti a questo esecutivo, guardarlo con sufficienza e scattare in avanti per prenderne le distanze appena si può (esemplare la polemica su McKinsley che ha fatto scattare pavloviane istanze a sinistra) significa semplicemente commettere il grave errore di far “scivolare a destra” l’esecutivo Draghi, o peggio ancora regalarlo agli avversari (commettendo l’errore speculare che commise Berlusconi nel 1995 con il governo Dini che fu poi la camera di incubazione dell’Ulivo).
Ecco, a mio avviso è dentro queste due riflessioni -di ciò che è stato e di ciò che sarà- che vanno lette le scelte di Zingaretti, certamente stanco di una dialettica interna con le minoranze (comunque fisiologica in un partito che non è padronale) ma probabilmente anche perplesso di una maggioranza interna per il modo in cui lo ha sostenuto nella prima fase e preoccupato probabilmente per come lo avrebbe “sostenuto” nella seconda fase. Senza una adeguata analisi su questi due passaggi (di ciò che è stato con il governo Conte 2 e di ciò che sarà con il governo Draghi), restano sul campo solo espedienti. Che come tali durano lo spazio di un mattino.
Ecco, forse è il caso che alla tifoseria venga rimpiazzata la capacità di analisi e di riflessione, che non manca nel Pd anche se viene troppe volte soffocata dall’erba gramigna della faziosità e della cortigianeria. Lungo questa strada, potremmo perfino ritrovare noi stessi. E ridare un futuro all’esercizio politico di quei valori di libertà, uguaglianza e fraternità che sono la cifra della nostra azione e che nel mondo della pandemia sono le coordinate fondamentali per evitare il disastro
Secondo me caro Borghi, la seconda valutazione che hai fatto è quella più giusta. Nel futuro Zingaretti voleva costruire un nuovo partito formato da PD LEU e 5 Stelle a guida Conte. Grazie a Dio si è dimesso ed il progetto politico è sfumato.