di Stefano Ceccanti
Com’è noto l’articolo 96 della Costituzione e la legge costituzionale 1/1989 prevedono che nel caso dei cosiddetti reati ministeriali la Camera di appartenenza possa evitare il processo a un ministro votando a scrutinio palese a maggioranza assoluta dei componenti «ove reputi…che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». La Camera in questione non deve quindi decidere se ritiene innocente o colpevole il ministro in questione (Salvini), ma se ritiene che egli abbia comunque agito sulla base di un così importante ragion di Stato che lo esonererebbe da responsabilità persino se avesse commesso dei reati.
I parlamentari quindi non devono sapere se il Ministro Salvini abbia commesso reati e non devono neanche deciderlo.
Di fronte a questi dati oggettivi, a questo parametro, non è difficile esaminare coerenze e incoerenze dei vari soggetti.
Il ruolo dei parlamentari che si oppongono alle politiche di Salvini è relativamente semplice: più volte i parlamentari di centrosinistra hanno denunciato che nei comportamenti di Salvini sulle politiche migratorie sono evidenti logiche elettoraliste e propagandistiche che vanno a ledere in modo inaccettabile la dignità di persone umane. È quindi logicamente impossibile quanto ha proposto tra gli altri Panebianco: chiedere ad essi di riconoscere nel comportamento di Salvini addirittura una ragion di Stato; non è questione di equilibrio di rapporti tra organi dello Stato a cui in sostanza vorrebbe ricondurci Panebianco, è questione di coerenza rispetto ai giudizi espressi in precedenza.
Piuttosto prevedibile, anche se non condivisibile, è anche l’atteggiamento di Forza Italia che in Parlamento non fa un’opposizione intransigente all’intero esecutivo, ma solo al Movimento 5 Stelle, nella speranza di ricomporre il centrodestra.
Ad essersi ritrovato in una strada senza uscita razionale è stato invece il Movimento 5 Stelle. Esso è partito da una visione del tutto distorta sui rapporti tra magistratura e politica: ritenendo la prima sempre e comunque infallibile, aveva da sempre sostenuto che tutte le forme di immunità dovessero cedere comunque rispetto a richieste della medesima. Ora invece, trovatosi di fronte a una strettoia, ha provato ex post a distinguere le autorizzazioni di cui all’articolo 68 da quelle del 96. È vero che le due tipologie sono tra loro diverse, ma tuttavia l’argomento per il quale il M5S si era sempre dichiarato favorevole alle richieste, la sostanziale infallibilità della magistratura, è stato di fatto smentito dal nuovo approccio senza volerlo ammettere. Del tutto surreale anche il metodo inventato per provare ad uscire da questo imbarazzo: il ricorso, nel frattempo divenuto rarissimo, alla piattaforma informatica Rousseau. Ora, se talvolta l’enfasi sul divieto di mandato imperativo di cui all’articolo 67 della Costituzione può apparire inflazionato, la base delle forze politiche può infatti pronunciarsi su alcune scelte di fondo di vita politico-parlamentare (meglio comunque con procedure più garantiste di quella affidata alla Casaleggio e associati), in realtà in questo caso il richiamo critico non è invece per niente improprio. Si è chiesto agli iscritti di sostituirsi ad una delle decisioni più delicate della vita parlamentare, dove il grado di conoscenza diretta delle carte da parte degli eletti, anche tramite l’apposito dibattito in Giunta e in Aula, è incommensurabile rispetto a quella di estranei al Parlamento. E questo a prescindere da tutte le anomalie da tutte le anomalie di un quesito, chiaramente orientato a confondere e ad orientare la decisione in senso favorevole a Salvini, cercando di dissimulare il cambiamento di linea e facendo di fatto capire che occorreva non mettere in pericolo a nessun costo la vita del Governo. Una sorta di ragion di Stato interna alla maggioranza. In altri termini il M5S è riuscito a passare da una posizione sbagliata (l’infallibilità assoluta della magistratura che avrebbe comportato l’accettazione indiscriminata di qualsiasi richiesta) ad una altrettanto sbagliata (salvare ad ogni costo il Governo).
Che cosa concludere quindi dopo il voto del Senato? Che Salvini ha evitato al processo, ma che, tra tutti gli attori, uno ne esce fortemente punito perché ha seguito una traiettoria indifendibile da qualsiasi punto di vista: il Movimento 5 Stelle.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.