di Carlo Fusaro
I giornali del 28 ottobre scorso – quale più quale meno – hanno visto un nesso fra l’esito del voto al Senato sul disegno di legge contro l’omofobia e l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Hanno scritto: quel voto dimostra che i gruppi parlamentari nelle votazioni segrete non tengono; ne consegue che solo un candidato voluto da quasi tutti può essere eletto presidente e che le forzature non possono funzionare.
Mi pare la scoperta dell’acqua calda. E’ stato sempre così: le votazioni segrete (necessariamente segrete come tutte quelle per l’elezione di persone) per l’elezione del PdR han sempre frantumato i gruppi parlamentari, specie quelli dei partiti della prima Repubblica, PCI escluso. Quanto alla seconda… beh, tutti ricordiamo l’esplosione del gruppo Pd nel 2013, che portò alla fine della segreteria Bersani.
Lo ricordo agli smemorati: circa 100 (dico cento) parlamentari e delegati regionali PD non votarono il più prestigioso degli esponenti PD, l’uomo che bene (1996) o male (2006) aveva battuto due volte Berlusconi, Romano Prodi. E ho detto tutto: fu allora (fatemi fare un’autocitazione, una sola) scrissi: il PD non è un partito politico, sarà qualcos’altro ma non è un partito politico (perché perfino in prima Repubblica, mai c’era stato un numero così grande di franchi tiratori: gente che vota contro le scelte pubbliche del proprio gruppo).
Non ci voleva davvero il Ddl Zan per scoprire tutto ciò, dunque.
Vedo invece un nesso pensioni / Quirinale. E mi spiego.
Sembra che alla fine il Governo abbia rinunciato a sistemare la faccenda pensioni una volta per tutte. Ha tenuto il punto, almeno, stabilendo quota 102 per il 2022. Ma ha dovuto rinviare quota 104 per il 2023 e quindi anche il ritorno pieno al regime ordinario Fornero) per il 2024 dopo.
Mi fido di Draghi e se non se l’è sentita di fare diversamente, non sarò io a lanciargli la croce addosso. E’ un piccolo passo avanti comunque. Tuttavia significa anche un’altra cosa: che il braccio di ferro fra chi vuole continuare a privilegiare le vecchie generazioni e i garantiti a spese dei giovani e di chi lavora e lavorerà domani ricomincerà. E significa anche un’altra cosa: che la Lega (e altri a partire da FdI), con la benedizione – ahimè – del sindacato, farà la campagna elettorale per le politiche all’insegna del “mai più la Fornero”… se non addirittura, “torniamo a quota 100 (101)”.
Questo sì che ha nessi e conseguenze sull’elezione del prossimo PdR: mi pare rafforzi notevolmente la tesi di chi dice “rieleggiamo Mattarella”.
Primo, perché su altri (temo su chiunque altro) trovare un’intesa pare al momento impossibile. Secondo, e ancor di più, perché Mattarella rieletto è la miglior garanzia (insieme al vitalizio dei parlamentari che impone 4 anni e mezzo di legislatura) per far gestire al governo Draghi oltre che il bilancio 2022 anche il bilancio 2023, pensioni incluse.
Dopo di che non sarà facile per nessuno – a pochi mesi di distanza – tornare ai regimi derogatori tanto in voga.
Presidente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San
Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).