di Stefano Ceccanti
Nel Decreto Rilancio si consente al Mef di andare ben oltre quanto previsto dalla legge di contabilità. La decisione di bilancio deve essere del Parlamento: il tema esiste, al di là delle buone volontà a fin di bene
Sono rimasto stupito che solo in questi ultimi giorni alcuni commentatori abbiano preso coscienza della radicale innovazione contenuta nel Decreto Rilancio (comma 8 dell’articolo 265) che consente un’ampia delegificazione della decisione di bilancio, cioè il suo slittamento verso il governo.
Modalità già utilizzata, almeno apparentemente, nell’ultima legge di bilancio e, nella fase più drammatica dell’emergenza dall’art. 126, co. 7, nel Decreto Cura Italia e che è stata ora ripetuta e aggravata, perché non più isolata, nel decreto Cig.
È nel Decreto Rilancio che c’è stato però un innegabile punto di svolta qualitativo e quantitativo. Innegabile perché, evidentemente, se si consente nell’ambito di un decreto che tocca tutti gli ambiti della vita economico-sociale, una rimodulazione ex post mediante decreto ministeriale di somme assegnate in via legislativa, si consente al Mef di andare ben oltre quanto previsto dalla legge di contabilità, che consente rimodulazioni all’interno della stessa missione e comunque dello stesso Ministero, senza però toccare le spese dipendenti da fattore legislativo.
Lo stupore deriva dal fatto che puntuali osservazioni critiche erano state formulate prima di tutto (già il 27 maggio!) da quella particolare commissione parlamentare che è il Comitato per la Legislazione, sempre sollecito a difendere le prerogative del Parlamento e poi dal parere della Commissione Affari Costituzionali.
Il problema è istituzionale, non politico di parte e neanche di sospetto per gli intenti del Governo pro tempore. Gualtieri è un ottimo ministro e il Governo ha sicuramente il diritto-dovere di spendere in tempi brevi e con modalità efficaci, specie in un periodo di emergenza. Tutto ciò è innegabile e sarebbe sbagliato non cogliere le specificità del periodo.
Tuttavia il problema, al di là delle drammatizzazioni di parte, esiste. La legge di contabilità e finanza pubblica (legge n. 196/2009) è di attuazione diretta dell’art. 81 della Costituzione. Si può superare così radicalmente? Si possono rimodulare con decreto ministeriale somme assegnate con autorizzazione legislativa, rimettendo quindi a una fonte subordinata contenuti già disciplinati da norme primarie? Questo ruolo sostanzialmente residuale, in quanto aggirabile, del Parlamento è compatibile con l’articolo 81 e più in generale con l’assetto costituzionale?
Mi sembra che non sia possibile superare questi interrogativi solo perché nella precedente legge di bilancio era stato possibile compensare tra loro due soli fondi, quelli su reddito di cittadinanza e quota cento. Ho parlato di precedente apparente proprio per questo: se il Parlamento individua solo due priorità, come in quel caso, e consente poi al Governo di dosarle diversamente, chi può negare che la decisione di bilancio sia stata presa davvero dal Parlamento?
Se invece ho varie decine di priorità, come nel Decreto Rilancio, e consento al Governo, o, meglio, al Mef, di dosarle diversamente ex post, davvero posso ancora sostenere che la decisione sia stata presa dal Parlamento? Mi sembra che obiettivamente l’analogia non regga.
Le soluzioni possono forse essere varie, e su quelle si può e si deve discutere in libertà, ma il problema istituzionale deve essere riconosciuto in tutta la sua importanza.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.