di Massimo Veltri*
Le ragioni che hanno portato alla fine dei grandi aggregatori sostituendoli con altri fondati su ideologie e estremismi che dividono piuttosto che unire portano alla conclusione che per come è ora la politica questa non sia attrezzata per il compito immane che abbiamo davanti. Attualmente ci si trova a vivere nella cosiddetta società liquida e, mentre nel secolo scorso presero vita i grandi partiti, partiti che funzionarono per decenni facendo funzionare la democrazia a favore di milioni e milioni di persone, oggi ci agitiamo alla ricerca di bussole che non si intravedono.
Ho leggermente parafrasato le parole di Giuliano Amato pronunciate di recente per evidenziare almeno due aspetti che contraddistinguono i nostri tempi.
Alla subalternità della politica nei confronti dell’economia e ancor di più della finanza di cui gli osservatori più avveduti da almeno due decenni sono consapevoli si aggiungerebbe così la debolezza se non l’inanità della politica verso la complessità che la mole di problemi che la modernità reca con se’ ci sciorina quotidianamente.
Mentre per come era nata e la conoscevamo era l’arte e pure il mestiere o il saper fare della gestione delle cose pubbliche-individuare problemi, proporre soluzione, mediare, prospettare futuri-, apprendendo e approfondendo dinamiche e riportandole a sintesi, le brusche e crescenti accelerazioni introdotte dalla fine del secolo scorso, i mutamenti di scenari, capovolgimenti e introduzione di esigenze nuove, necessità di avvalersi di conoscenze e di tecniche inedite, pongono tutti a misurarsi con termini inediti che trovano la politica, quella politica in cui credevamo, disarmata o quasi.
Non si tratta soltanto di sconvolgimenti geopolitici, di crolli di regimi e frammentazioni in localismi senza controllo, di mondi in movimento che premono alle frontiere, di lavori da trovare e inventare, di globalizzazione o di crisi climatica, di avanzare di diritti nuovi o solo sopiti, di internet e giovani alla ricerca di se’ stessi: c’è anche e affianco la necessità di dover coniugare indirizzi e scelte con la scienza che è in continuo aggiornamento sui fronti di un orizzonte che non conosce confini.
Linguaggi propri di discipline specialistiche, tanto umanistiche che tecnico-scientifiche, da intelleggere e declinare in opzioni politiche, rendersi conto che nella quasi totalità dei casi si tratta di risultati o ipotesi improntati a livello di probabilità, per cui il determinismo, ch’era il figlio del secolo breve, di fronte all’universo stocastico è come obnubilato e la politica è obbligata a scegliere e quindi a rischiare. E il rischio, quale che sia, la politica non vuol correrlo, è restio a correrlo, specialmente se non ha strumenti decisionali idonei e soprattutto se non sa qual è la direzione di marcia da intraprendere.
Il caso riguardante la composizione delle esigenze del lavoro con l’inquinamento è paradigmatico, al pari di quello, altrettanto importante, di compenetrare esigenze di approvvigionamenti energetici e aspetti etici di diritti internazionale.
Perciò la politica che i nostri padri ci avevano trasmesso dovesse essere essa stessa a dirigere e governare ogni altra attività, ad avere il primato, non solo va rivista e per molti aspetti ridimensionata, ma insistere per ritornare ai bei tempi passati si dimostra un esercizio di scarsa o nulla utilità.
E c’è un altro aspetto, lo dicevamo, da considerare, quello della neutralità e onestà della scienza, di come e quanto cioè valutare indipendenti oppure provenienti da centrali lobbistiche questa o quella scoperta innovativa o ‘verità’ imprescindibile. L’argomento non è nuovo ma si impone oggi più che mai all’attenzione dei decisori i quali il più delle volte invocano certezze e disambiguità.
Ne discende così, anche da qui, la crescente crisi della politica, lo svuotamento dei partiti, l’ascesa a palazzo Chigi di premier tecnici, non in ragione soltanto delle difficoltà nel quadrare il cerchio in termini di accordi fra forze politiche, il crescere dell’antipolitica, dei populismi.
Se l’assunto fin qui illustrato è condivisibile per la situazione italiana, lo è anche, ovviamente, per l’Occidente in generale ma i nostri caratteri improntati a vecchi stilemi fatti di ideologismi e populismi vari trova più facili e pesanti conseguenze: il famigerato Caso Italiano.
Forse l’emergenza principale, dopo il 25 settembre, è proprio quella di occuparsi di tutto questo: resta da capire da parte di chi.
*Professore ordinario di idraulica, già senatore della Repubblica
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud, 24 agosto 2022