Con l’annuncio delle misure che daranno il via alla cosiddetta Fase 2, abbiamo assistito a un inedito scontro a colpi di comunicati tra la CEI e il Governo. È stato un difetto di comunicazione o nella scelta dei provvedimenti è stato sottovalutato l’impatto che la restrizione alla partecipazione ai sacramenti sta avendo sulla Chiesa italiana?
La libertà religiosa e di culto è altamente protetta dalla Costituzione. In una fase di grave emergenza sono state opportune forti limitazioni. Però se si annuncia una nuova fase è legittimo attendersi attenuazioni. Se esse non sono ancora pronte, perché evidentemente c’è una necessaria complessità da affrontare e c’è l’urgenza di emanare un dpcm, basta inserire nello stesso una norma procedurale che rinvia l’apertura a quando sarà pronto un protocollo. Se invece si dà la sensazione che su quell’aspetto resta tutto uguale si crea un conflitto perché appare una contraddizione con l’annuncio di una fase nuova.
Lei ha annunciato un emendamento al decreto 19, ipotizzando l’adozione di un protocollo tra Stato e confessioni religiose per la tutela della salute dei partecipanti alle funzioni. Ce lo spiega nei dettagli? Non c’è il rischio di ridurre le confessioni religiose a mere parti sociali?
Siccome quella scelta non si è fatta nel dpcm, a meno che nel frattempo la questione non venga risolta in qualche altro provvedimento, abbiamo a nostra disposizione una legge di conversione di un decreto legge destinato a riordinare il sistema delle fonti e quindi si può tranquillamente inserire lì. Le confessioni religiose, secondo gli articoli 7 e 8 della Costituzione, Concordato e Intese, sono già abituate alla logica pattizia, non sarebbe affatto una novità. Loro sono interessate a ridurre i limiti e lo Stato a tutelare la salute: è giusto trovare soluzioni condivise.
Il governo ha annunciato che “si studierà un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza”. C’è il rischio di incentivare la clandestinità delle funzioni religiose? I cristiani torneranno nelle catacombe in attesa di un nuovo editto?
Il protocollo è necessario per le ragioni che ho detto. Non è materia di decisioni unilaterali. Eviterei inutili drammatizzazioni. Il Governo vuole tutelare la salute, non persegue una politica ideologicamente ostile. La Chiesa non si sente affatto oppressa, ma solo limitata. Rimettiamo le cose nella loro giusta dimensione.
Secondo lei, i cristiani che “prendono parte a tutti gli obblighi come cittadini, ma tutto sopportano come stranieri” arriveranno al punto di affermare, con Don Milani, che l’obbedienza non è più una virtù?
Non c’è materia di scontro, non c’è alcuna necessità di arrivare a forme di disobbedienza civile perché gli obiettivi del Governo e della Chiesa, pur partendo legittimamente da esigenze diverse, non sono contraddittori. La Chiesa non vuole mettere a rischio la vita dei fedeli e il Governo non vuole mantenere limiti irragionevoli. Ci vuole tempo per conciliare esigenze non opposte.
Da più parti giungono perplessità sull’eventuale incostituzionalità dei DPCM con cui il governo sta gestendo l’emergenza. Qual è il suo punto di vista? Ci sono state delle forzature o condivide le scelte normative adottate?
Proporrei anche qui di evitare le polemiche retrospettive e di pensare in positivo per il futuro. Ho pensato ad un secondo emendamento su quella legge di conversione proprio su questo tema.
I dpcm sono una fonte che nel corso dell’emergenza ha finito per avere un rilievo sconosciuto in precedenza. Entrando in una nuova fase appare opportuno regolarli in modo diverso: ferma la responsabilità piena del Governo sulla sua emanazione, appare però opportuno introdurre un parere preventivo del Parlamento, obbligatorio anche se non vincolante, con un tempo certo di una settimana. In tal modo alcune criticità potrebbero essere prevenute dal Parlamento, senza che esso debba essere costretto ad intervenire ex post su altre fonti. Una tecnica che in questo periodo ha consentito di risolvere alcune questioni, ma che ha finito fatalmente per rendere molto più complesso e difficilmente comprensibile il sistema delle fonti. Il decreto 19, che era nato appunto per riportare ordine nel sistema, darebbe così anche una soluzione stabile e ragionevole.
In questo periodo si è insistito molto sulla libertà di accesso a quelli che sono stati individuati come beni di necessità materiali. Possono essere sufficienti per il pieno dispiegamento della persona umana? Il prossimo accesso al lotto e a giochi simili vale più di un ordinato accesso a una funzione religiosa, al di là della religione di appartenenza?
Man mano che usciamo dalla stretta emergenza dobbiamo aprirci ad esigenze diverse da quelle solo materiali, anche se le cose sono sempre intrecciate e il rischio di una contrazione delle risorse personali e familiari va di pari passo anche con forme di disagio diverso. Dobbiamo trovare un equilibrio con saggezza. Stiamo attenti a non opporre troppo facilmente essere e avere perché per essere occorre anche avere risorse. In questo, certo, non credo sia bene mettere tra le priorità il gioco d’azzardo.
Pensa che la sensazione, che hanno alcuni, del passaggio da uno Stato di diritto a uno Stato di polizia sia esagerata?
Sono sempre stato estraneo a un certo costituzionalismo ansiogeno che partendo da problemi reali tende poi a costruire concetti onnicomprensivi, derive autoritarie, stati di polizia, democrature e così via, come se l’Italia fosse il Cile degli anni ’70 o la Polonia e l’Ungheria di oggi. Inviterei a leggere su Facebook il parere pacato del professor Paolo Ridola, un maestro di equilibrio oltre che di diritti.
Col senno di poi, alla luce di ciò che l’emergenza ci ha insegnato, non ritiene un errore la riforma del titolo V della Costituzione con la conseguente devoluzione della materia sanitaria alle regioni?
Il problema del Titolo quinto non è quello che c’è, il tentativo di superamento di un assetto troppo centralizzato che di per sé non garantisce uguali prestazioni effettive. È quello che non c’è: una sede formale di cooperazione prevista in Costituzione (non abbiamo una seconda Camera così concepita e la Stato-Regioni è solo su base legislativa) e una clausola di supremazia che consenta senza dubbi di legittimità di esercitare una regia unica che possa modulare, a seconda delle fasi e delle aree di policy, uniformità e differenziazione.
Prima di diventare senatore e poi deputato del PD, lei è stato presidente nazionale della Fuci, protagonista di un forte impegno per i referendum per il sistema maggioritario e tra i promotori del movimento dei Cristiano Sociali. Come vede il ruolo dei laici cristiani nella politica italiana ed europea? Quali sono i suoi riferimenti nella tradizione dell’impegno politico dei cattolici?
Alla radice c’è la precisa collocazione europea del personalismo che propone Emmanuel Mounier: per Mounier lo spazio del personalismo che deve unificare credenti e non credenti è lo spazio della sinistra non comunista, del centrosinistra come diremmo noi nel nostro contesto. Non quindi generici centrismi o confusi massimalismi. Filone che nei vari Paesi europei ha prodotto ad esempio la seconda sinistra di Delors e Rocard in Francia; la Terza via inglese attraverso il Christian Socialist Movement; in Portogallo le premiership di Pintasilgo e Guterres, attuale segretario generale dell’Onu; in Spagna dopo le esperienze pilota di Peces Barba ed altri nella fondazione del Psoe; l’attuale gruppo dei Cristianos Socialistas, sempre nel Psoe, con Carlos Garcia de Andoin. Sono per alcuni di noi anche delle reti amicali e generazionali, dei movimenti specializzati di Azione Cattolica negli anni ’80, che sono rimaste e si sono anche fortificate. Per la politica italiana l’esperienza che mi ha più segnato è stata senza dubbio negli anni giovanili la partecipazione alla Lega Democratica di Scoppola, Ardigò e Giuntella. In particolare Scoppola sosteneva che il cattolicesimo democratico andava visto come la somma delle due caratteristiche positive dei diversi filoni precedenti, depurate dei loro aspetti negativi: l’apertura agli ultimi del cattolicesimo sociale depurato dal suo integralismo e intransigentismo originario, l’attenzione alle istituzioni e alla modernizzazione del cattolicesimo liberale depurato dal suo moderatismo sociale.
Il ruolo della Chiesa italiana, e in particolare del clero, è stato per lungo tempo determinante per gli esiti elettorali. È ancora attuale questa lettura? Pensa che l’insorgenza sulla scena politica di atei devoti abbia favorito, nella prima fase della seconda repubblica, una maggiore influenza del clero o possiamo dire che con il ridimensionamento del centrodestra, come l’abbiamo conosciuto tra il 1994 e il 2013, sia possibile un rapporto più laico tra politica e Chiesa italiana?
Ho sempre pensato che quello che la Chiesa riceve è molto di più di quello che la Chiesa dà alla vita politica. C’è un gioco di influenze reciproche in cui la prima direzione è prevalente. Come la Dc di De Gasperi ha su molti aspetti anticipato il Concilio, quando ci sono stati momenti alti di offerta politica anche la Chiesa è stata sollecitata in senso positivo. Più che lamentarci di questa o quella chiusura che si è vista in alcune fasi nella Chiesa, dobbiamo piuttosto sentirci responsabili di facilitare questa evoluzione, sentendoci responsabili delle eventuali incomprensioni e lavorando per rimuoverle.
Pierluigi Castagnetti, in una recente intervista al nostro giornale, ha definito simonia l’uso dei simboli religiosi fatto da Salvini. È d’accordo? A chi parla Salvini quando sventola il Rosario alla stregua di un manifesto?
Parla evidentemente ai settori che non gradiscono l’attuale pontificato, anche in sintonia con quei settori politici che a partire dagli Stati Uniti si muovono sulla stessa lunghezza d’onda. Questo cortocircuito si può battere soprattutto con un nuovo europeismo in cui, come per i Padri fondatori, l’ispirazione religiosa gioca, insieme ad altre, nel segno dell’apertura e del superamento dei pregiudizi reciproci.
È appena trascorso il 25 aprile e ancora molti non la considerano una festa fondativa e di tutti, lo abbiamo visto anche in Parlamento. Perché a 75 anni dalla Liberazione non si riesce ad avere ancora una lettura condivisa di un evento che sta indiscutibilmente alle radici della nostra democrazia?
Per noi che ci crediamo è un programma di lavoro contrario alla faziosità: comportarci per creare consenso, ossia ribadire che il 25 aprile non è sinistra contro destra, ma liberazione contro oppressione, pluralismo contro omogeneità forzosa.
Che cosa manca a questo governo per diventare qualcosa di diverso dall’argine, che attualmente è, alla destra salviniana?
Io non so se il Governo come tale, l’arco di forze che lo sostiene, possa diventare più dell’argine alla destra salviniana. Credo però che si dovrebbe sentire più risoluta la voce del Partito Democratico secondo l’impostazione ampia ed aperta della fase originaria del 2007. Se Il Pd riscopre quell’ambizione maggioritaria può fare da calamita anche per altre forze di maggioranza.