di Pietro Ichino
Nel dosare la reazione all’aggressione russa, le nazioni occidentali devono non solo evitare il rischio di una escalation ancora più catastrofica, ma anche costruire i presupposti perché sia possibile, poi, una solida pace
Nel reagire all’invasione russa dell’Ucraina, USA e UE camminano su un crinale affilato: da un lato il rischio di essere troppo timide, come lo furono nel 2014 dopo la zampata russa sulla Crimea; dall’altro quello di scatenare un’escalation che metterebbe a rischio l’umanità intera.
Per altro verso, i policy makers occidentali devono fin d’ora considerare le condizioni indispensabili perché appena le armi taceranno si possa ricostruire un equilibrio pacifico tra UE e Russia; e – la storia insegna – questo presuppone che siano puniti i criminali responsabili della catastrofe, ma che il popolo russo non si senta umiliato e schiacciato.
L’equilibrio fra queste esigenze, tutte di importanza vitale, è tanto più difficile quanto più mostruoso è il crimine che l’esercito invasore sta commettendo in Ucraina.
Nella sua gelida follia, il capo del Cremlino sembra non accorgersi della tragica contraddizione tra giustificare l’invasione come un intervento in soccorso dei fratelli ucraini e attuarla massacrando i fratelli stessi, distruggendo il loro Paese, costringendo milioni di essi a migrare per cercare salvezza nell’Occidente.
Di fronte all’assurdità e all’efferatezza di questo crimine è difficile non lasciarsi trascinare dallo sdegno e dall’odio per i colpevoli.
Invece occorre sempre ricordare quello che proprio un grande russo ci ha insegnato: non c’è crimine così grande che anche ognuno di noi non sia capace di commetterlo. Ogni delitto è un “peccato” (nel senso più concreto del termine) per e dell’umanità intera, un suo male che va curato.
Così come, nei Paesi più civili, la giustizia penale assume come proprio simbolo più l’ago e il filo che la spada vendicatrice, perché si preoccupa di ricucire la ferita inferta alla convivenza civile prima e più che di “retribuire” il feritore con altrettanta sofferenza, allo stesso modo l’ordinamento internazionale deve, sì, fermare l’aggressore e punirlo, ma ma non interrompere, anzi rafforzare i canali di comunicazione con il popolo russo: per primi quelli dell’informazione quotidiana.
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino