LibertàEguale

Come non affogare il riformismo nelle beghe delle candidature

di Michele Salvati*

 

Scrivo queste note senza sapere con certezza come si è conclusa la riunione delle Direzione nazionale del Pd sulle proposte di candidature della segreteria. E parto da una osservazione di metodo. Se un partito è ancora un partito tradizionale, con la sua tipica struttura “democratica” su base territoriale (circoli, organi provinciali e regionali), dovrebbe esistere un metodo comunemente accettato che gli consenta di scegliere le candidature quando incombono elezioni e si tratta di affermare una chiara linea politica. Non sempre e non necessariamente i candidati che emergono nelle, e sono sostenuti dalle, strutture territoriali sono quelli più adatti a esprimere questa linea. E, stante la diversa forza del partito in diversi contesti territoriali (le regioni ex rosse, i grandi centri urbani), il fenomeno dei “paracadutati” – candidati della direzione nazionale che tolgono il posto ad alcuni di quelli sostenuti dalle strutture locali – si pone inevitabilmente. Ma in proposito dovrebbero essere condivise regole certe, che pongano un limite alla discrezione della direzione nazionale e alla linea politica che questa intende far prevalere.

Il caso del professor Ceccanti è in proposito esemplareSi tratta di un deputato di questa legislatura, ovviamente schierato in una delle due linee politiche che ora dividono il Pd, ma in modo non settario e leale nei confronti dei diversi orientamenti che si sono succeduti nella legislatura. E’ stato uno dei migliori deputati di questo Parlamento, a mio giudizio, ma ampiamente condiviso: straordinariamente competente in materie di grande rilevanza politica e parlamentare e straordinariamente attivo in Parlamento. Dato il forte e continuo impegno nel suo collegio pisano, il partito locale lo appoggia ed è sul piede di guerra con la direzione nazionale. La competenza, la preparazione, l’intensità e la qualità del lavoro, la cura del collegio, non dovrebbero essere criteri predominanti per una riconferma? Quando ciò non avviene, vuol dire che c’è stato un eccesso di arbitrio da parte della direzione nazionale: al suo posto è stato scelto un politico di orientamento radicalmente diverso. O, più semplicemente (ma forse è peggio) che c’è stato un errore: già Renzi l’aveva commesso nelle elezioni del 2018, imponendo troppi candidati e lui vicini e non tenendo conto della complessità del partito che dirigeva, e ora Letta gli rende pan per focaccia. Una direzione che commette un errore così plateale – e tale resterebbe anche se alla fine un posto accettato da Ceccanti si trovasse – meriterebbe che il “paracadutato” al posto suo venisse sconfitto: cosa che non auspico perché significherebbe un collegio perso per l’unica sinistra democratica (e liberale?) radicata nei territori che ancora resiste. Per quanto? E’ per questo che ho recentemente sostenuto sul Corriere la necessità di un congresso ben preparato con al centro un’analisi del “baco” identitario che ora minaccia il Pd e ne ostacola il successo: la presenza di due linee politiche apparentemente (?) incompatibili.

Vengo ora ai cosiddetti “centristi”, un termine che Renzi e Calenda non dovrebbero accettare se implicasse una analogia con il centrismo della Prima Repubblica. Credo sia opinione predominante tra gli studiosi di politica che – anche nel caso in cui il loro partito non danneggiasse seriamente la sinistra – non esista alcuna possibilità che, nelle prossime elezioni, esso risulti l’ago della bilancia tra i due grandi schieramenti contrapposti. Cioè un partito che determini l’indirizzo politico del governo. Oggi dato, in tutti i sondaggi, saldamente nelle mani del centrodestra. Significa questo che un importante successo di questa nuova forza politica sarebbe irrilevante o addirittura negativo? A me non sembra. In un contesto che non è di bipartitismo (o meglio, di bi-coalizionismo) centripeto ma di bi-populismo divergente – questo è certo per il centrodestra di oggi, ma probabilmente anche per un centrosinistra nel quale si rafforzassero le componenti più estremiste e più insensibili ai vincoli europei e di governo – la forte presenza di un partito avverso a populisti e nemici di Draghi,  che coerentemente criticasse misure populiste, sovraniste o semplicemente incompetenti e sbagliate del governo, ma anche critiche altrettanto sbagliate dell’opposizione, la presenza di questo partito, credo, sarebbe molto utile. Dovrebbe però trattarsi di un partito i cui leader fossero fatti della stessa stoffa dei La Malfa e dei Visentini di un tempo, capaci però di tener conto e degli umori e delle preoccupazioni dei loro ceti di riferimento senza cedere a tentazioni populiste: un compito certo non facile, e ne do un esempio alla fine di questo articolo.

Con l’augurio e la speranza che questo sia il caso, mi limito a segnalare due esempi che mi hanno un poco preoccupato. Il primo riguarda un politico di lungo corso che avrebbe rafforzato la leadership del nuovo partito, Renato Brunetta. Domanda: Calenda e Renzi, hanno fatto pressioni su di lui affinché partecipasse a una esperienza politica e parlamentare che l’avrebbe riportato in posizione apicale nell’ambito del centrosinistra, da cui proviene? O è stato Brunetta a rifiutare la scelta di Gelmini e Carfagna, anche loro ministre del governo Draghi? In tal caso, se è stato Brunetta a rifiutare, nessun problema. Da quanto ha scritto – non dice però se la proposta gli è stata fatta – sembra che il Parlamento e una politica di opposizione non gli interessi, e si manifesta disposto a collaborare con il nuovo governo, se richiesto. Di questo sono contento per il paese perché è stato un bravo ministro, anche se temo che si accorgerà presto che lavorare con Meloni non è lo stesso che lavorare con Draghi.

Il secondo esempio è l’assenza di riferimenti nel programma del nuovo partito a imposte patrimoniali, e in particolar a un’imposta di successione sui grandi patrimoni che è presente in tutti o quasi gli ordinamenti fiscali di paesi liberaldemocratici avanzati. Non c’è un economista degno di questo nome, di destra o di sinistra che sia, il quale non sia convinto che l’imposta di successione sia uno dei modi meno distorsivi che esistano per finanziare servizi pubblici: basta consultare qualsiasi manuale elementare di scienza delle finanze per rendersene conto.

Poi, naturalmente, economisti liberisti sosterranno senza contraddizione che i servizi forniti dallo stato possono essere forniti meglio e più efficientemente da imprese private (dalla scuola alle carceri, dalla sanità alla ricerca scientifica). Resta il fatto che anche negli Stati Uniti, il paese più influenzato da questa visione economica, la spesa pubblica, statale e federale, sul Pil supera il 40 per cento. E come può essere finanziata questa spesa? In un paese moderno, “non mettere le mani nelle tasche dei cittadini” è impossibile, salvo che nei vaneggiamenti dei libertarians più fanatici (diverso e legittimo è poi discuterei su quanto è possibile ricavare da queste imposte, sulle loro conseguenze inique in caso di evasione e su altri argomenti. Ma sul problema di principio, la discussione è chiusa. Il punto è che essa è aperta in Italia, e proprio sul problema di principio. L’ostilità alle imposte patrimoniali e in particolare a quelle di successione è così forte e sostenuta dal rozzo populismo che ha imperversato negli ultimi trent’anni che anche in alcune dichiarazioni dei centristi, soprattutto di Renzi, riecheggia in forme nuove: gli italiani pagano già tante tasse da vivi, che fagliele pagare in occasione della morte è inaccettabile. E’ una affermazione populista, che rivela solo mancanza di coraggio, la paura di sfidare il senso comune e trasformarlo in buon senso. E non credo sia accettabile nel partito che i moderati e i competenti si attendono.

 

*Il Foglio, 17 agosto 2022

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