di Enrico Morando
Se la sfida del futuro, anche sul terreno economico, ha a che fare con le tre C – COVID, Cambiamento climatico e Cina -, è ragionevole ritenere che la sconfitta di Trump e la vittoria di Biden creino le condizioni per una cooperazione tra grandi democrazie che faciliti la costruzione di più efficaci strumenti (e soluzioni) di governo globale.
Per rendercene conto, basterà tornare alle ore immediatamente successive all’annuncio dell’esito del referendum sulla Brexit, nel giugno del 2016. Immediatamente, Trump su Twitter: “Qual è il prossimo?“. La ricerca del famoso “unico” numero telefonico per l’interlocuzione con l’Unione Europea viene bruscamente sostituita da una esplicita intenzione di rottura. Non dei rapporti USA-Unione. Quella desiderata e ricercata da Trump è la rottura della UE in quanto tale, al fine di instaurare più “facili“ relazioni con ogni singolo Paese europeo. Un mutamento dell’orientamento di fondo delle amministrazioni americane che, con accenti diversi, si era mantenuto stabile dalla fine della seconda guerra mondiale in poi ed era sopravvissuto sia alla crisi del bipolarismo, sia al progressivo esaurirsi del successivo unipolarismo statunitense.
Le conseguenze politiche ed economiche di quella dichiarata e attivamente praticata ostilità dell’Amministrazione Trump verso il processo di integrazione sono state di enorme portata. Prima tra tutte, il sostegno alla crescita delle forze nazionaliste e populiste, che ha gonfiato le vele del loro già significativo consenso elettorale e conferito credibilità internazionale alle loro ambizioni di governo: noi nazionalpopulisti al governo dei grandi Paesi europei, riducendo l’Unione al mercato unico e poco più? Si può fare. Lo hanno già deciso gli inglesi e l’alleato americano sta dalla nostra parte.
È difficile sopravvalutare il rilievo di una simile offensiva, se si considera che contemporaneamente lo stesso scopo – arrestare e far regredire il processo di integrazione europea, per poter disporre di interlocutori più deboli – veniva perseguito dall’altro attore economico e politico globale, la Cina. Che, a sua volta, poteva contare sull’appoggio (ingenuo?) di importanti forze populiste europee: “La Cina è solo un Paese in espansione economica e finanziaria”, ha detto il capogruppo al Senato del M5S.
In Europa c’è chi si rende conto della minaccia e cerca una via di uscita attraverso un ambizioso rilancio del processo di integrazione: nel giugno del 2018, nella dichiarazione di Meseberg, Macron e Merkel propongono di creare un bilancio dell’Euroarea, fornendo finalmente alla BCE – la cui politica monetaria ultraespansiva ha salvato l’euro e sostenuto la timida crescita dell’area – l’interlocutore di politica fiscale che le è mancato. Bisognerà però aspettare il tremendo shock simmetrico della pandemia perché, col Next Generation EU, cominci a prendere corpo. Ma il tempo perso ha provocato seri danni.
Ora, se non è ragionevole ritenere che l’arrivo di Biden alla Casa Bianca faccia tornare le cose come stavano prima del ciclone Trump, è certamente ragionevole attendersi che il nuovo Presidente – nel contesto di un rilancio dell’approccio multilaterale ai problemi del mondo – cancelli l’ostilità al processo di integrazione europea, per sostituirlo con il tentativo di costruire una rete di relazioni positive con le grandi democrazie mondiali, che possa risultare efficace nel gestire la più complessa e impegnativa delle tre C da cui siamo partiti: quella di Cina, cruciale per affrontare anche le altre due.
Come ha detto qualche giorno fa Henry Kissinger, “il problema dei rapporti con la Cina ha due sfaccettature: la prima è la crescita della Cina….La seconda è la differenza ideologica”. Su entrambi i terreni (ma, forse, più sul secondo che sul primo) un’Europa che sia davvero Unione è, per Biden, un alleato utile e necessario.
Il nuovo Presidente, quando afferma di voler riportare gli USA dentro l’accordo sul cambiamento climatico e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sembra muoversi esattamente in questa direzione. Ma molto dipenderà dall’Europa. La pandemia ha finalmente avviato l’unione fiscale: entrate europee (non solo contributi degli Stati membri) e uscite europee (non solo PAC e Erasmus). Ora dobbiamo rispondere alla chiamata di Obama (sì, questo non ce lo ha chiesto per primo Trump) sulla corresponsabilità nel finanziare la nostra sicurezza (come ha scritto Wolfang Ishinger: spendere il 3% del PIL per difesa, diplomazia e sviluppo). E fare della cooperazione internazionale nella gestione dei vaccini anti COVID la più grande operazione di cooperazione e solidarietà internazionale che mai si sia vista.
Sulle politiche di contrasto al cambiamento climatico l’Unione Europea ha conseguito risultati migliori di quelli raggiunti dagli altri attori globali, ma l’assenza di una agenda di governo effettivamente europea – per il presente e per il futuro prevedibile – le ha impedito di acquisire quella egemonia (in termini di soft power e di ricadute economiche), che pur sarebbe stata alla sua portata. L’occasione del piano Next Generation EU e il ritorno degli USA al tavolo del confronto tra le grandi potenze possono consentirle di affermare su questo terreno uno spicchio di leadership globale. Perché a quel tavolo Biden – un po’ perché non può, e molto perché non vuole – non starà sempre seduto a capotavola.
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)