di Antonio Preiti
Mi sarei aspettato, senza alcun pregiudizio, grandi novità, idee azzardate, almeno diverse e comunque inedite sul turismo, ma dal documento M5s-Lega del Contratto di governo non si legge niente di tutto questo. A parte qualche proposta specifica condivisibile o ragionevole, l’intero impianto riprende discorsi, linguaggi, convinzioni che abbiamo sentito mille e mille volte e, addirittura, con ritorni all’indietro –questi sì– inattesi.
Andiamo però in ordine, perché il documento merita di essere analizzato molto bene. L’incipit è sull’importanza del turismo, e su questo nulla da eccepire. Il cuore della risposta, però, è ancora e solo sul piano istituzionale.
Qui c’è una vecchissima idea, secondo la quale i destini del turismo italiano dipendano dalla sua collocazione istituzionale. Si ripropone un Ministero del Turismo, attraverso una fase in cui il relativo dipartimento si sposti dal Ministero dei Beni Culturali alla Presidenza del Consiglio.
È qualcosa che abbiamo già visto. Chi si ricorda di Maccanico, appunto delegato al turismo come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo Ciampi? Ma abbiamo visto anche il turismo con un suo Ministero autonomo, Ministro Brambilla, qualcuno la ricorda? Abbiamo visto il turismo anche nel Ministero dello Sviluppo Economico e in ultimo in quello dei Beni Culturali.
Ogni volta che si è cambiata la sua collocazione, si è detto che l’altra era migliore. Forse sarebbe il momento di dire che, quale che sia la collocazione della competenza del turismo, questo fattore non è decisivo, né nel bene, né nel male, per i risultati del settore. Insomma, non succede mai che il contenitore decida per il contenuto.
Il turismo italiano non conosce crisi
Qui però occorre una considerazione. Aleggia in tutto il testo l’idea che il turismo abbia bisogno di interventi perché –anche se non è detto esplicitamente– sarebbe in difficoltà, o comunque avrebbe una qualche situazione critica. Fermo restando che tutto può essere migliorato e che ogni risultato può essere superato, guardando all’economia italiana di questi anni, nessun settore è andato meglio del turismo: il segno negativo non c’è stato da nessuna parte.
Ripeto: ci sono mercati nuovi da scoprire, ci sono segmenti da coltivare meglio, ci sono senz’altro le regioni del Sud che hanno pochi turisti internazionali, ma quel che è certo è che la parola crisi il turismo non la conosce, tanto che, oramai, si parla di over-tourism, cioè di turismo che sarebbe andato oltre le dimensioni ritenute ottimali. Non è questo il mio parere, tuttavia un presunto eccesso è diverso da un presunto deficit.
Dal turismo ai ‘turismi’
Altro punto, si citano i “turismi” come testimonianza del fatto che quello culturale sarebbe solo uno di quelli presenti sul mercato. Ne abbiamo scritto al Censis, del passaggio dal turismo ai turismi, in tempi che si misurano oramai in decenni, non in anni. È un risultato acquisito che le motivazioni del turismo siano varie e che ogni segmento è infedele a sé stesso: i turisti culturali amano anche il mare e quelli balneari anche i musei e quelli dello sport anche le discoteche e così via.
Però non è questo il punto: dire una cosa giusta -anche se già sentita- non è un problema. Bensì il problema è che si continui a parlare del turismo ancora e sempre in termini di domanda, promozione e comunicazione, mentre abbiamo la convinzione che il problema del turismo italiano (cioè la sua ambizione a crescere ancora e meglio) stia dal lato dell’offerta.
Il problema del turismo è l’offerta
Vediamo tre esempi. Il paese europeo più frequentato dai Cinesi è la Germania, mentre i due paesi più “desiderati” sono l’Italia e la Francia. Perché? Semplicemente perché la Germania ha un sacco di voli diretti con la Cina e l’Italia solo un paio. L’Italia è già molto desiderata, ma se non ci sono i voli, il desiderio rimane inappagato.
Secondo esempio: per le vacanze la Sardegna è la regione più desiderata dagli Italiani; ma non è la prima quando si tira la linea delle presenze turistiche. Perché? Perché di fatto è a numero chiuso (trasporti costosi e limitati).
Ultimo esempio. Le nostre regioni del Mezzogiorno sono le prime in assoluto nel movimento turistico in agosto, ma hanno una quota di mercato bassissima tra maggio e luglio. È un problema di domanda? No, sennò non sarebbero scelte per le vacanze più lunghe.
È un problema, invece, di logistica, perché negli altri mesi esiste solo il mercato dei weekend, non delle ferie di due o tre settimane, ma se la logistica è quella che è, molto carente e costosa, la gente non si muove da venerdì a domenica per avere un solo giorno di vacanza e a costi elevati; preferisce le destinazioni con volo diretto e low cost. È un problema di domanda? No, è un problema di offerta.
Conclusione sul punto: l’Italia ha un’immagine turistica fortissima, perciò non ci sono urgenze di conquistare una quota-parte ancora maggiore del desiderio, il problema è fare mercato su questa elevata quota-parte che già esiste. Problema di tutt’altra natura, ovviamente.
La web tax per i grandi server della promozione turistica
Arriviamo alla web tax. L’argomento non è molto chiaro. Se significa che i grandi server della promozione turistica debbano pagare in Italia le tasse sul reddito prodotto in Italia (perché le pagano, ma in altri paesi), mi pare una cosa sacrosanta, se invece significa che debbano pagare una tassa suppletiva solo perché la prenotazione e il pagamento sono fatti online, mi pare abbastanza incomprensibile e finirebbe semplicemente per ritorcersi sui clienti, cioè sui turisti, perciò sarebbe una norma anti-turistica, non pro-turistica. Ma forse non s’intende questo. Vedremo.
In altra parte si afferma che bisognerebbe che l’Italia si dotasse di una sua piattaforma di prenotazione online. Questione molto importante. Ma prima una nota, e poi un ragionamento economico. Nel mondo globale una piattaforma nazionale non è proprio concepibile.
Una piattaforma nazionale è inconcepibile
Le piattaforme esistenti (Booking, Expedia, ecc.) hanno successo perché si prenota una camera d’albergo in qualunque posto del mondo rivolgendosi appunto a una sola piattaforma. Nel nostro caso la piattaforma sarebbe solo italiana, e avrebbe grandi difficoltà a affermarsi vendendo un paese solo. A meno che s’impedisca alle piattaforme globali di vendere camere italiane, ma la cosa sarebbe terribilmente negativa per le prospettive dell’industria alberghiera italiana. E tuttavia, l’impedimento più importante per affermare una piattaforma italiana è di natura economica. Vediamo meglio.
Priceline, proprietaria di “booking.com”, è al mondo il maggior inserzionista pubblicitario su Google. L’ultimo anno ha speso 3,5 miliardi di dollari. Al secondo posto Expedia. In sostanza, quando digitiamo il nome di un qualunque albergo, il primo risultato che vediamo non è il sito dell’albergo, ma il nome dell’albergo sulla piattaforma Bookings (o Expedia).
In sostanza, se vuoi che il tuo albergo sia visibile, e perciò acquistabile, devi comparire su Google al primo posto, o almeno nei primi posti, altrimenti non esisti. E questo costa. Potrebbe una piattaforma pubblica italiana, anche superando i problemi tecnici non banali, spendere decine e decine di milioni di euro sui motori di ricerca e nel resto del web? Difficile. È questo il problema, probabilmente insormontabile.
Verso la “statalizzazione” dell’Enit?
Veniamo a un altro punto che riguarda l’Enit. Non è detto chiaramente, ma si intuisce che l’obiettivo sarebbe una sua “statalizzazione”, cioè un ritorno all’indietro. In tre anni l’Enit ha cambiato pelle. Ha la forma giuridica dell’ente economico, proprio per poter realizzare quella che il documento evoca come l’esigenza di avere una piattaforma che “venda”, oltre che a promuovere e che possa creare accordi pubblico-privati. Se questo è l’obiettivo, non si dovrebbe pensare a una sua statalizzazione: se torna nella pubblica amministrazione, come fa l’Enit a vendere o a fare accordi di partenariato con imprese private? Semplicemente la legge lo impedisce.
Quel che nel documento è condivisibile è l’abolizione della tassa di soggiorno. È una tassa di fatto contro il turismo, visto che i suoi introiti vengono utilizzati per tutt’altri scopi. Però sono i comuni che decidono se adottarla e in quale misura. Roma ha la più alta tassa di soggiorno al mondo, potrebbe ridurla; idem Firenze, potrebbe ridurla. Perciò è il frutto di decisioni autonome dei comuni. Comunque è un tipo di tassa che c’è in (quasi) ogni paese del mondo, non è perciò uno specifico svantaggio competitivo dell’Italia.
Abbiamo bisogno di idee nuove
Siamo alla conclusione. Il turismo italiano sta bene. Ha problemi di ipertrofia per alcune città e di sotto-utilizzazione in altre, ma se il resto della nostra economia stesse come il turismo, non saremmo preoccupati.
Naturalmente esiste una distanza tra la realtà e le potenzialità del paese e bisognerà pur colmarla, in qualche misura. Tanto può esser fatto meglio, ma in maniera più rigorosa, a cominciare proprio da come si descrivono i problemi e come si impostano le soluzioni. Abbiamo bisogno di idee nuove, piuttosto.
Economista, docente all’Università di Firenze. È cresciuto al Censis, ha insegnato alla Luiss Management, Università di Bolzano, ha diretto l’Agenzia del turismo di Firenze, ha lavorato per Banca Imi e altre imprese. Ha ricoperto la carica di Consigliere d’Amministrazione di Enit e Vice Presidente di ETC (European Travel Commission). Collaboratore del Corriere della Sera. Svolge professionalmente studi e ricerche per Sociometrica, di cui è Direttore. Twitter @apreiti web www.antoniopreiti.it