di Michele Nicoletti
La discussione sul ritorno al sistema proporzionale ha dello stupefacente. Nessuno nega la necessità di tenere conto degli effetti della eventuale riduzione del numero dei parlamentari sulla possibilità di tutti i territori e di tutte le forze politiche di essere equamente rappresentate sulla base della loro consistenza. Ma per fare questo non occorre buttare a mare 40 anni di tentativi di rinnovamento delle istituzioni politiche italiane volti a dare più potere ai cittadini.
Questo è il punto. La vera distinzione non è tra un sistema elettorale e l’altro, ma tra chi vuole riconoscere ai cittadini il potere di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (così dice l’art. 49 Cost) e chi vuole invece lasciare ai cittadini solo il potere di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento. Saranno poi i parlamentari a fare, dopo le elezioni e con le “mani libere”, le alleanze e i programmi di governo, come è avvenuto per due volte in questa legislatura. Ciò che è avvenuto è del tutto conforme alla Costituzione, ma ha evidente natura emergenziale.
La pratica del trasformismo parlamentare ha estenuato la Prima Repubblica ed è quella che aveva portato la Commissione Bozzi nel 1983 a convergere sull’idea che sia necessario «un rapporto fiduciario diretto tra corpo elettorale, maggioranza e governo anche al di là della funzione mediatrice dei partiti». Si diceva allora che occorreva restituire “lo scettro al Principe” (Pasquino) o almeno rispettare “il cittadino come arbitro” (Ruffilli) per evitare che la partitocrazia scavasse una insopportabile frattura tra i cittadini e le istituzioni. Così allora – contro l’idea e la pratica trasformistica – nacque l’idea di «un patto di coalizione pre-elettorale che consentisse agli elettori di scegliere non solo il partito preferito, ma anche governo e programma» (Commissione Bozzi). E quest’idea si basava su un sistema proporzionale – come quello di allora -, che prevedeva però un premio di maggioranza capace di conferire alla coalizione più forte il potere di tradurre in realtà l’indirizzo risultato maggioritario tra i cittadini. Magari associato a un sistema a doppio turno. Così nacque l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione e la legge Mattarella – con impianto a prevalenza maggioritario – che introduceva di fatto l’idea di coalizioni in competizione tra loro con programmi e leader chiaramente presentati ai cittadini prima delle elezioni.
L’idea era che i cittadini italiani fossero sufficientemente maturi per poter decidere autonomamente, senza dover venire espropriati di questo potere per via di un qualche stato di emergenza dovuto a forze antisistema. Nessuno sottovaluta il potenziale anche “eversivo” di certa propaganda salviniana, ma guai a noi se entriamo nella retorica paternalista dello stato di eccezione che perdura nel nostro Paese, per una ragione o per l’altra, dal 1948, come fossimo – o forse lo siamo? – uno Stato post-coloniale.
La Commissione Bozzi – prima della caduta del muro di Berlino – riteneva che i cittadini italiani potessero determinare liberamente e direttamente il loro destino politico. Lo stesso ha fatto la legge Mattarella. E così l’Ulivo e il PD che addirittura nel proprio Statuto aveva scritto che il Segretario è il candidato premier accettando l’idea di una democrazia competitiva.
Sappiamo tutti quello che è avvenuto con il referendum del 2016. Ma è tutto da dimostrare che i cittadini respingendo quella riforma abbiano invocato il ritorno alla palude della partitocrazia proporzionalista. In quella palude non si rafforza la democrazia italiana né sul versante interno, né sul versante europeo che è diventato – come si è visto – l’orizzonte decisivo. La debolezza della democrazia italiana – che affonda le sue radici nella sua natura perennemente incompiuta – è uno dei maggiori fattori di debolezza del nostro Paese a livello internazionale.
Il Partito Democratico, che nasce dentro la grande aspirazione di portare a compimento in Italia una democrazia matura, non può trasformarsi in una o più zattere per galleggiare nella palude di una partitocrazia autoreferenziale e inconcludente. Sarebbe un tradimento di se stesso, dell’eredità dell’Ulivo, di tante stagioni riformatrici a partire dalla Commissione Bozzi.
Se si vuole mettere mano a una nuova stagione di riforme elettorali e istituzionali, si pensi piuttosto, con coraggio, a riprendere l’ispirazione di allora e a rafforzare il potere dei cittadini di determinare con il proprio voto l’indirizzo politico del governo.
Insegna Filosofia Politica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia e la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento. Deputato Pd dal 2013 al 2018, è stato membro della Commissione Affari Esteri della Camera e Presidente della Delegazione Italiana presso l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE). Al Consiglio d’Europa è stato Capogruppo dei Socialisti, Verdi e Democratici (gennaio 2016-dicembre 2017) e poi Presidente dell’Assemblea Parlamentare (gennaio-giugno 2018). È stato Condirettore della rivista Ricerca, mensile della FUCI, e della rivista Il Margine. Già presidente nazionale della Rosa Bianca, è stato tra i fondatori dell’Associazione per il Partito Democratico di Trento e poi membro dell’Assemblea Costituente Nazionale del Partito Democratico. Oggi è membro del Comitato Scientifico della FEPS (Foundation for European Progressive Studies) e Coordinatore del Gruppo sui Diritti umani del CESPI (Centro Studi di Politica Internazionale). Colla bora con il Consiglio d’Europa nell’ambito del progetto CEAN (Council of Europe Academic Networking).