Pubblichiamo un articolo apparso sulla Gazzetta di Parma il 22 gennaio scorso
Il dramma delle migliaia di risparmiatori-investitori in obbligazioni subordinate emesse dalle quattro note banche in dissesto finanziario ha occupato nelle settimane scorse il dibattito e le cronache politiche. Il problema è serio, anche se spesso trattato con colpevole leggerezza. Si va dall’aperto sciacallaggio di quanti (e sono tanti) sperano di trarre un dividendo politico dalla triste vicenda a quanti tirano in ballo niente di meno che la Costituzione (che promuove il risparmio e ne invoca la tutela) per rivendicare il rimborso, a spese del contribuente, di un investimento di natura – ahinoi – speculativa, per sua stessa natura portatore di un più o meno elevato rischio, commisurato alla solidità dell’ente ricettore del prestito.
Vero è che in buona parte gli investitori sono persone di modeste possibilità, lavoratori che, tratti in inganno dalle proprie banche oppure attratti dai buoni rendimenti e ignari delle implicazioni, hanno messo in quei titoli parte cospicua o la totalità del proprio patrimonio liquido. Al governo, slealmente indicato come co-autore della presente situazione, va il merito di avere salvato il salvabile di quelle banche, e segnatamente i posti di lavoro, gli affidamenti e i mutui alle famiglie e alle imprese, i depositi in conto corrente della clientela. Si appresta ora a ricercare, nel rispetto della legge e delle norme europee, un modo per mitigare il danno. Quanto alle responsabilità di dirigenti e operatori delle banche, spetta alla magistratura fare luce e trarre – ci si augura con celerità e severità – le dovute conseguenze.
Quello che risulta incomprensibile è l’inefficacia dei controlli e l’inesistenza di comunicazioni sui loro esiti che pervengano ad una reale e compiuta informazione degli investitori non professionali. Risulta altresì incomprensibile come non si sia data attuazione al più volte invocato divieto di vendita “al dettaglio” (cioè a piccoli investitori privati spesso sprovveduti o coercibili) di titoli di partecipazione al rischio d’impresa, quali sono di fatto e di diritto le obbligazioni subordinate. Il grande dramma cui stiamo assistendo richiama l’attenzione su più piccoli drammi costituiti dalla perdita del prestito da soci in presenza di crisi di aziende cooperative. Il prestito da soci costituisce una importante fonte di finanziamento per le cooperative; comprensibilmente queste tengono moltissimo al mantenimento di questo strumento finanziario fondato sulla fiducia che la base sociale nutre verso la “propria” cooperativa.
In un passato ormai lontano, quando una cooperativa entrava in crisi, il sistema cooperativo si faceva carico di sanare le esposizioni verso i soci prestatori, difendendo così il patrimonio di fiducia che la larga base dei soci di cooperativa nutriva verso di esso, oltre che verso la cooperativa di appartenenza. Da diversi anni, data l’entità dei fallimenti cui sono incorse cooperative sempre più grandi e strutturate, tale forma di protezione si è rivelata impraticabile. In Emilia come a Roma, nel Triveneto e altrove, le crisi aziendali di medie e grandi coop hanno recato gravissimi danni a famiglie che vi avevano depositato i loro risparmi. Nella provincia di Parma, è ancora aperto il caso della coop di abitazione “Di Vittorio” di Fidenza, entrata in crisi con una esposizione verso i soci prestatori di circa 13 milioni di Euro.
Anche per le coop sussistono problemi non dissimili a quelli che constatiamo esservi nel rapporto banche – investitori privati. Anzitutto un problema di controlli. Quelli sull’ attività delle cooperative vengono effettuati dai sindaci e revisori contabili e dal Ministero che delega alla bisogna le organizzazioni cooperative. Ora, i sindaci e i revisori sono spesso altri soci della stessa cooperativa, non preparati per un effettivo esercizio tecnico della verifica dello stato dell’azienda; e, comunque, essi vengono nominati su proposta di quegli stessi consigli di amministrazione soggetti al loro controllo. Ne risulta una evidente scarsa “terzietà” di questi organi. Altrettanto dicasi delle c.d. revisioni effettuate dalle organizzazioni di appartenenza, le quali dipendono per la loro sussistenza dai contributi associativi delle società da controllare, trovandosi quindi in imbarazzo quando si tratta di rilevare stati di disagio non ancora sfociati in vere e proprie crisi. Posto che i controlli vengano correttamente effettuati, le conseguenti comunicazioni alla base sociale sono affidate nei fatti alla discrezionalità dei consigli di amministrazione, che possono serenamente occultare le informazioni nelle pieghe di relazioni ai bilanci che spesso nessuno si perita di leggere e approfondire. A quanto detto si aggiunga il fatto che l’accesso ai consigli di amministrazione è aperto a tutti, senza che sia necessaria la dimostrazione di una effettiva competenza sull’oggetto di attività della cooperativa e sui meccanismi economici, finanziari e normativi che regolano la vita delle società. Si perviene al ruolo di consiglieri di amministrazione spesso per vie improprie, con il risultato che, accanto a veri competenti ed esperti, non è raro trovare amministratori assolutamente inconsapevoli delle conseguenze delle decisioni adottate.
Il mondo cooperativo dovrebbe con serietà e impegno, porsi questi problemi e prospettare soluzioni credibili e rassicuranti. E’ la condizione per la continuità di un rapporto fiduciario con una larga platea di soci e di “aventi interesse” (stakeholders) che ha costituito nei decenni la forza della cooperazione ed ha contribuito al benessere dei territori nei quali la cooperazione si è affermata.