di Giovanni Cominelli
Il messaggio di solitudine, di silenzio e di “fitte tenebre” arrivato da Piazza San Pietro la sera del 27 marzo ha generato uno choc potente e positivo nel mondo intero. Tutto merito della millenaria sapienza liturgico-teatrale della Chiesa? E’ innegabile. Ma si basa sulla capacità della fede religiosa cristiana di costruire dentro di noi un ponte tra la nostra finitezza individuale, la finitudine della specie, la storia del mondo e la nostalgia di Altro.
Il virus e la “teologia del virus”
Insomma: qual è il significato di quanto stiamo vivendo? Ogni fede religiosa pone questa domanda e ha questa vocazione. Ma il Cristianesimo vi risponde in modo singolare con la sua teologia dell’Incarnazione e della Resurrezione. Nel suo quadro concettuale, la storia del mondo non è un incidente, di cui il singolo debba liberarsi, in vista della propria individuale salvezza, né, d’altronde, l’Oltre e l’Altro sono una proiezione fantastica della nostra finitudine. Né spiritualismo individualistico assoluto né assoluto immanentismo spinoziano. Il Cristianesimo ti colloca nella storia del mondo come storia integralmente e propriamente umana, ma per nulla autosufficiente e perciò agganciata ad una dimensione altra. La natura di questa dimensione è da sempre oggetto di speculazione teologica e di ermeneutica biblica. Soprattutto se arriva un’epidemia globale. L’avvento di Covid-19 ha fatto nascere, in effetti, “una teologia del virus”, che di nuovo si arrabatta attorno ai nodi di sempre.
Mentre papa Francesco ha invitato le colonne del Bernini ad abbracciare il dolore dell’umanità intera, nel nome di un Dio misericordioso e benefico, hanno ripreso slancio vecchi apocalittici e nuovi influencer fondamentalisti di Youtube, che stanno da sempre in attesa di una qualche fine del mondo. Essi interpretano l’epidemia come frutto di ira e castigo di Dio. Rimproverano alla Chiesa di Bergoglio di annacquare il drammatico rapporto che Dio, Padre burbero e Giudice spietato, intrattiene con il mondo. Covid-19 è solo l’ultima delle piaghe d’Egitto che Dio invia periodicamente agli uomini, quale punizione contro la specie umana che si è macchiata del peccato originale. Dio ha la vendetta lunga.
L’”ira di Dio”
Il Padre della Chiesa Lattanzio aveva pubblicato nel 313 – sì, proprio nell’anno dell’Editto di Costantino – il saggio “De ira Dei”, nel quale volle mostrare tutta la differenza tra l’impassibilità stoica e platonica degli Dei pagani di fronte ai dolori del mondo e la partecipazione di Dio in Cristo alla storia. Scrive: “…dal momento che Dio ha stabilito una legge santissima e ha voluto che tutti gli uomini fossero innocenti e benevolenti, è forse possibile che non monti in collera allorquando vede denigrare i suoi comandamenti, rigettare la virtù e ricercare il piacere?”. Nel successivo “De mortibus persecutorum” si diffonderà, anche con particolari sanguinolenti, sui castighi e sulla fine tragica che il “Dio dell’ira” ha riservato a tutti i persecutori del Cristianesimo, da Nerone a Massimino Daia, ai Tetrarchi.
Gli apocalittici rimproverano a Papa Francesco il suo pacifismo, il sentimentalismo, il buonismo, l’Amazonia felix e la Pacha Mama! Altro e più virile messaggio è quello dei profeti biblici, da Isaia a Geremia a Ezechiele, in cui annunciano un Dio “ardente di ira”, le cui labbra “traboccano di furore”, “uragano di pioggia e di tempesta”. E, del resto, anche il mitissimo Gesù, ha avuto i suoi begli scoppi d’ira. Arriva persino a maledire l’incolpevole fico sterile. L’apostolo Giovanni non è da meno: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui” (Gv. 3, 36). Il fatto è che Covid-19 è un castigo di Dio “per i milioni di aborti, per la dittatura del gender, per il meccanismo perverso della Rivoluzione (francese, si intende!), per la Chiesa che introna Lutero e elogia la Bonino”. Sic!
Le processioni, i morti
Se il virus è una punizione divina, la terapia più efficace del vaccino è quella di tenere aperte le chiese e organizzare delle processioni di penitenza. Non ha forse fatto così san Gregorio Magno nel 590, quando l’Italia era sconvolta da malattie, carestie, disordini sociali e orde devastatrici di Longobardi?
Tra il 589 e il 590, la lues inguinaria, dopo aver devastato il territorio bizantino ad Oriente e quello dei Franchi ad Occidente, aveva seminato morte e terrore nella penisola e si era abbattuta sulla città di Roma. Ne fu vittima anche Papa Pelagio. Il nuovo Papa ordinò una “litania settiforme”, cioè una processione dell’intera popolazione romana, divisa in sette cortei. Mentre la moltitudine percorreva la città, immersa in un silenzio sepolcrale, analogo a quello delle nostre città oggi, la pestilenza arrivò all’acme: i fedeli cadevano per strada come birilli.
Stesso esito lo avranno le processioni organizzate contro la peste bubbonica da Federigo Borromeo nel 1630. La Legenda aurea di Jacopo da Varagine offre però un’altra versione della processione settiforme: man mano che la sacra immagine del Crocifisso avanzava, l’aria diventava più sana e limpida ed i miasmi della peste si dissolvevano…
Rinchiusi in casa. Gesù a Cafarnao, tra casa e deserto
C’è un altro modo di vivere l’evento presente del virus senza fare ricorso alla “teologia della collera”, che evoca il flagello di Dio e la nostalgia dell’Inferno?
Nel Vangelo di Marco, 1, 30-39, Gesù dedica tutta la giornata a guarire malati, a partire dalla suocera di Simone, non ancora diventato Pietro. Aveva la febbre, probabilmente non da Covid-19. La mattina dopo, “molto presto, alzatosi uscì e si ritirò in un luogo solitario, ove rimase a pregare”.
Ecco, in questa strana primavera della nostra vita, confinati, senza volerlo, in case solitarie, su questa terra che non è un paradiso e non è un inferno, dovremmo riempire il nostro silenzio, se non con la preghiera – non tutti sono credenti – almeno con qualche domanda circa i fondamentali. Che cos’è “l’essenziale” nella vicenda personale e storica? Forse la fioritura umana, l’eudaimonia aristotelica? Forse la riscoperta del valore d’uso delle cose, prima del valore di scambio? Ma, poiché lo scambio è la base delle società umane, forse lo scambio dovrebbe essere giusto? E che dire della sequenza che trasforma automaticamente il desiderio in bisogno e il bisogno in diritto? Si pongono, insomma, nel mezzo del nostro silenzio, le questioni classiche liberté, egalité, fraternité, sullo sfondo di una radicale fragilità umana. La specie non è onnipotente, il tempo non ci appartiene: “il tempo si è fatto breve”, scrive Paolo ai Corinti.
Ben lungi da qui la pretesa di indicare ad altri una strada. Qui non si confezionano omelie. Tuttavia, almeno una cosa è certa: finisce con il Covid-19 la fatua ebbrezza del nichilismo senza abisso del nostro Occidente, del nichilismo gaio che abbiamo sparso a piene mani sulle generazioni più giovani.
Non c’è resurrezione senza passione, senza sacrificio, senza presa in carico degli altri, cioè del mondo intero.
(Pubblicato su www.santalessandro.org il 4 aprile 2020)
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.