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Cucchi: la verità contro la banalità del male

di Elisabetta Corasaniti

 

Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009.

Stefano Cucchi ha continuato a morire ogni giorno per nove anni “di fame e di sete” e “per cause ignote alla scienza medica”. È morto ancora, per nove anni, con queste parole vuote, senza significato.

Sì, Stefano Cucchi si è picchiato da solo (era incapace di intendere di volere: cosa può essere altrimenti, un drogato?). O forse è caduto. D’altronde, lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina. Lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì.

 

 

Forse se l’era meritato; quantomeno, se l’era cercato.
Questa è stata la sua prima sentenza. Quella di una parte dell’opinione pubblica che emette le sentenze influenzata da chi, distrattamente, cerca sempre un capro espiatorio cui addebitare le conseguenze della mediocrità propria.
Quella di chi rincorre semplificazioni, banalizzazioni, giudizi tranchant.
Senza ombra di vergogna.

E’ come se tra le pieghe della coscienza si nascondesse, se non la giustificazione, almeno l’accettazione della sua morte. Una ‘’licenza di uccidere’’ plausibile per un predestinato dal suo stesso modo di essere.
Quanto vale la vita altrui, se altrui è tossico, drogato o addirittura, una spacciatore?

Carlo Giovanardi disse a suo tempo: “ il giovane non è morto per le percosse ma a causa “della droga”, in quanto “anoressico, drogato e sieropositivo” (Cucchi non era sieropositivo, ndr). E’ la fine che si merita? Lo si dà per scontato. Non occorre andare oltre.

 

 

Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre 2009 in custodia cautelare: un cittadino preso in consegna dallo stato, restituito morto a sua madre.
Una morte sino ad oggi senza responsabili: tre giudizi di merito, uno di primo grado e due di appello, oltre ad una pronuncia della Cassazione, hanno portato solo ad assoluzioni (per insufficienza di prove, ndr).
Questa non è solo la storia di Stefano, è la storia di coscienze omertose, di silenzi bugiardi, di dovere disonorato da un freddo apparato burocratico. La vita e la dignità di una vita umana, per nove lunghi anni, relegata ad una caduta dalle scale.

“La giustizia non è la verità” ha detto Ilaria Cucchi fra le lacrime per quel fratello massacrato un’altra volta.

E’ difficile trovare parole adeguate a raccontare la fine di quel corpo tormentato. Quel corpo così ostinatamente e dolorosamente esibito in tutta la sua tragedia dalla famiglia di Stefano (cui mai è stato permesso di visitare il ragazzo se non in obitorio).
Eppure il rispetto del corpo dell’arrestato, la sua incolumità personale, è uno dei fondamenti dello stato di diritto.
Uno stato di diritto non può comprendere atti di giustizia al di fuori di quelli emanati da una sentenza. Ed è per questo che lo Stato, senza se e senza ma, ha l’imprescindibile dovere di chiarire le dinamiche, enucleare le cause e punire i colpevoli. Anche nei riguardi di tutti gli uomini e le donne che quotidianamente svolgono il proprio lavoro, onorando la divisa.

 

La banalità del male è la semplicità con cui tutto si è consumato.

Un’intera comunità che ha sottovalutato, senza assumersi responsabilità, semplicemente, voltandosi dall’altra parte. Per sei lunghissimi giorni, dalla notte dell’arresto fino a quel maledetto 22 ottobre.
Una società che si è svegliata quella mattina, e per un attimo si è accorta dell’uomo morto su quel letto al Pertini. Ma indietro non si torna.
Stefano muore nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini dopo sei giorni di agonia tra carcere, visite mediche, trasferimenti e un processo di convalida dell’arresto (il giorno dopo il fermo) in cui già mostra evidenti segni di malessere.

 

Una morte tutt’altro che naturale. Che per nove anni è rimasta impunita.

Per nove anni la verità è stata occultata non da tre o quattro carabinieri, ma da un intero apparato dell’Arma che nella migliore delle ipotesi ha volutamente evitato di fare luce sull’episodio e sulle responsabilità.
Perché, come può accadere che un grave fatto, come quello di cui sarebbe rimasto vittima Stefano Cucchi, possa essere stato nascosto, occultando documenti ufficiali di denuncia, senza avere informato gli organi superiori?

 

 

Due anni fa Matteo Salvini accusava Ilaria Cucchi per aver pubblicato la foto di uno dei carabinieri sospettati dell’omicidio del fratello: “... si deve vergognare … mi sembra difficile pensare che ci siano poliziotti o carabinieri che hanno pestato per il gusto di farlo“.
Così, a quanto pare, l’aggressione scompare, la caduta è accidentale, rimane la morte per fame della quale sono responsabili, in senso colposo, cinque medici distratti. Chi ha interesse nei confronti di quel ragazzo percepito come una “cosa”, come uno “scarto” della società, o peggio: come nient’altro che un “fastidio” ?

La tenacia di Ilaria (e di tutta la famiglia di Stefano) non è mai arretrata dinanzi alle perizie contraddittorie, omissioni, attacchi feroci da parte delle istituzioni, depistaggi, minacce, rischio di prescrizione. Una battaglia per la verità che la famiglia Cucchi non ha mai combattuto per diffamare l’immagine delle forze dell’ordine. Allo stesso modo, non si è mai cercato di santificare Stefano, anzi, fu proprio la sua famiglia a consegnare alla polizia il resto della droga trovata nell’appartamento in cui il ragazzo viveva.

 

 

La confessione di uno dei tre carabinieri imputati nel processo per l’omicidio di Stefano Cucchi, inizia finalmente a rendere chiare le responsabilità.

Non solo di chi ha materialmente commesso il pestaggio ai danni di Stefano, ma soprattutto di chi per nove anni ha occultato e manipolato la verità, oltraggiando e colpendo ripetutamente un padre e una madre in cerca di un perché.
Inizia ora il vero processo sull’omicidio di Stefano Cucchi e sul banco degli imputati dovranno comparire anche tutti quelli che hanno impedito l’accertamento della verità.

 

 

Ritornano dolorosamente in mente le parole di Hannah Arendt: “Il male non è mai così radicale, ma solo estremo, non possiede né profondità né dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, perché quando penetra in profondità non trova nulla. Questa è la banalità. Solo il bene ha la profondità e può essere radicale”.

È la banalità del male di cui possiamo essere capaci tutti. Ne siamo capaci quando, semplicemente, non ci soffermiamo un momento in più del dovuto su quanto ci e’ strettamente richiesto.
Quando, banalmente, volgiamo altrove lo sguardo, preferendo non vedere, non sapere. Fingendo di non capire.

Perché non è ”sulla nostra pelle”.

 

 

 

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