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Daspo ai corrotti: il M5S fa giustizia sommaria

di Gianluigi Leto

 

Inconsapevolmente, pare, ogni provvedimento a firma 5S si pone nella direzione di comprimere le prerogative dello Stato di diritto: in apparenza, i ministri stellati si pongono a difesa del cittadino, mentre, in realtà, ne comprimono i diritti fondamentali, attraverso misure prive di proporzione che prescindono dalla fattispecie concreta e dalle sue mille sfumature (che in penale, vogliono dire tanto), per arrivare a colpire direttamente il presunto reo, senza che vi sia – come, oggi, per il DASPO – una valutazione caso per caso, da parte del Magistrato chiamato a decidere del reato.

 

Difesa del cittadino o compressione dei diritti?

Il secondo provvedimento a Cinque Stelle, a quanto pare, quindi, riguarderà la giustizia: tra le misure, si prevede il c.d. DASPO ai corrotti che da indiscrezioni di stampa dovrebbe consistere nel divieto di accesso alle gare, per tutti coloro che hanno avuto condanne superiori ai due anni di reclusione per reati contro la pubblica amministrazione. AL DASPO dovrebbe aggiungersi l’interdizione agli incarichi pubblici.

Il divieto sarebbe perpetuo: un condannato in via definitiva per corruzione non potrà avere a che fare per tutta la vita con la pubblica amministrazione. L’imprenditore o il politico o il funzionario che verrà condannato, sarà soggetto a DASPO anche dopo aver scontato positivamente la pena, con l’affidamento ai servizi sociali ed anche dopo aver ottenuto la riabilitazione. Persino, chi ha ottenuto la sospensione condizionale della pena oppure ha scelto la via del patteggiamento potrà ricevere il DASPO, il che indurrà gli imputati a scegliere la via processuale ordinaria, con allungamento dei tempi dei processi e conseguente sovraccarico dei tribunali, tutti in speranzosa attesa della prescrizione del reato, vista la durezza della sanzione che supera di certo, senza alcuna proporzione, la misura prevista per il reato.

 

Una riforma rivoluzionaria? Sì, ma in negativo

Si legge sui giornali che il Ministro della Giustizia avrebbe dichiarato che “il disegno di legge farà dell’Italia, che ora è il fanalino di coda, il Paese capofila nella lotta alla corruzione a livello internazionale” e che siamo di fronte ad “una riforma rivoluzionaria“.

Per quel che si apprende, il testo riprenderebbe un emendamento del senatore M5S Cappelletti al ddl anticorruzione, in discussione alla Commissione Giustizia del Senato, nel mese di marzo del 2015: l’emendamento prevedeva l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e la incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione a tutti i condannati definitivi per corruzione, peculato, concussione. Il senatore 5 Stelle lo proponeva, dichiarando che andava esattamente nella direzione indicata da Renzi che dopo gli scandali EXPO e MOSE si domandava come potessero essere coinvolti nomi di persone già condannate in precedenza. Vero, ma Renzi non poteva, di certo, pensare ad una sanzione così sproporzionata rispetto al reato commesso.

 

La violazione del principio di proporzionalità

Qui, quel di cui si deve discutere è il rispetto del principio di proporzionalità tra reato e sanzione: il principio di proporzionalità nella comminazione delle sanzioni costituisce un principio da definirsi sovracostituzionale, poiché costituisce un limite cui è soggetto lo stesso esercizio del pubblico potere: e se alla fine dell’ottocento veniva ad essere un canone di moderazione al potere monarchico (!), oggi, rappresenta un canone di controllo sulle limitazioni dei diritti fondamentali. Basti leggere la Treccani…

E’ poi di tutta evidenza come una pena non commisurata alla gravità del reato verrebbe ad essere ingiusta, perché “non meritata”, violando il principio di eguaglianza che l’art. 3 della Costituzione richiama a salvaguardia della stessa dignità delle persone.

Oltre al rispetto del principio di proporzionalità, è necessario che sia il Giudice chiamato a decidere del reato – e non il Legislatore, quasi fosse un Monarca – a decidere la “giusta” condanna, “giustamente” valutando i fatti e la condotta della persona chiamata a risponderne.

La legge, oggi, diventa editto, come quando la giustizia era concessione del sovrano: in apparenza si colpiscono i corrotti ma tutto questo, nel concreto, comporterà un piccolo smottamento dello Stato di diritto, se nella norma continuerà a permanere il divieto perpetuo all’accesso alle gare ed ai pubblici uffici, senza proporzione tra gravità del reato e pena inflitta.

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