di Umberto Ranieri
Inizia oggi a Johannesburg, si concluderà il 24 agosto, il vertice dei BRICS, il club formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Le massime potenze al di fuori del G7. Saranno presenti tutti i capi di Stato meno Vladimir Putin inseguito dal mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra in Ucraina.
Tema centrale del vertice sarà l’allargamento dei BRICS. Numerosi sono i Paesi, dall’Argentina all’Arabia Saudita all’Iran, che hanno avanzato formale richiesta di farne parte. Un allargamento accrescerebbe il peso demografico, economico e politico dei BRICS, l’acronimo coniato da un economista di Goldman Sachs nel 2001. Tiene unito un gruppo segnato da profonde diversità, si pensi ai fattori di tensione tra Cina e India, la insoddisfazione per l’asimmetria tra la crescente forza demografica ed economica di Paesi del “Sud Globale” e lo strapotere occidentale nella rappresentanza delle principali organizzazioni internazionali, una insoddisfazione divenuta con il trascorrere degli anni una sorta di “revanscismo antioccidentale”.
L’obiettivo è creare un contrappeso all’Occidente negli affari globali, il più ambizioso è dare vita ad un sistema alternativo a quello fondato sulle istituzioni di Bretton Woods: Fondo monetario internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione mondiale del commercio. L’aspirazione si fonda su un dato della realtà: il mondo è profondamente cambiato dai tempi di Bretton Woods.
I pesi relativi tra l’Occidente e il Sud del mondo si sono modificati. Alcune cifre relative ai Brics sono impressionanti: il 42% della popolazione mondiate, un quarto della superficie terrestre, oltre il 20% del Pil mondiale e del commercio internazionale. La globalizzazione della economia ha favorito la crescita della Cina, dell’India e degli altri Paesi inclusi nell’acronimo BRICS ma è tutto il “Sud globale” che pone il problema di contare maggiormente.
Russia e Cina vorrebbero fare dei BRICS una specie di forum anti Nato e anti Fondo monetario. A partire dalla grande crisi del 2008 i dirigenti cinesi sostengono che il loro modello autoritario sia superiore alle liberaldemocrazie occidentali: la sfida resa esplicita nella dichiarazione russo-cinese del 4 febbraio 2022, dove si dice “il liberalismo è morto. Noi siamo il futuro”. Di qui la costruzione di un blocco politico economico e militare centrato sull’Asia la cui pericolosità è confermata dalla aggressione russa alla Ucraina, dalle minacce di una Cina decisa ad affermare anche con la forza la propria sovranità su Taiwan.
Ma il mondo dell’autocrazia è realmente in grado di indicare una alternativa alla leadership dell’Occidente nella governante globale? Regimi che controllano la magistratura, gettano in prigione chi si oppone o solleva dubbi e critiche, sarebbero in grado di forgiare un nuovo ordine internazionale? Di fronte alla complessità del mondo, alla realtà del “Sud globale” che chiede di contare, si accrescono le responsabilità dell’Occidente. Vanno costruite convergenze con i Paesi oggi scettici sulla credibilità degli Usa e dell’Europa ma alleati indispensabili per limitare l’espansionismo cinese e l’avventurismo russo. La questione di fondo è concordare un nuovo sistema di regole che coinvolga i temi monetari, finanziari e del commercio internazionale. Si impone una collaborazione internazionale per limitare lo strapotere del capitale finanziario, per definire politiche fiscali che contribuiscano a invertire il trend decennale di aumento delle diseguaglianze. Muovere in questa direzione è una via obbligata per l’Occidente per riconquistare credito, credibilità, accrescere fiducia tra gli alleati, suscitare fiducia e interesse tra i paesi emergenti soprattutto asiatici e africani, gli stessi che si astennero sulla mozione di condanna della invasione russa alle Nazioni Unite e di cui la Cina prova a farsi portavoce. Indispensabile tuttavia è una ripresa di coscienza dell’Occidente.
Contrastare quella smobilitazione culturale, quel processo di autodistruzione del proprio passato che lascia un immenso spazio vuoto nel quale, scrive Biagio de Giovanni, “si avventano le grandi realtà illiberali e dispotiche, Cina e Russia in testa”. Cosa ben diversa da una coscienza dell’Occidente capace di distinguere, di guardare criticamente alla propria storia ma di non dimenticare i meriti straordinari dell’idea democratica: stato di diritto, suffragio universale, sovranità popolare, separazione dei poteri, delega, rappresentanza, partiti.
Presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa. Docente a contratto, insegna Storia dell’Europa all’Università La Sapienza di Roma, dove, Economia dei paesi in via di sviluppo all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Politica estera dell’Unione europea all’Orientale di Napoli. È stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature (XII, XIII, XIV, XV) eletto nelle liste Pds, Ds e, infine, Pd. È stato anche Presidente della Commissione “Affari esteri e comunitari” della Camera dei deputati. Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri dal 1998 al 2001 nei governi D’Alema I, D’Alema II e Amato II.