di Nicolò Addario
Da qualche mese tutti i media parlano di “stagnazione”. Questo è tuttavia vero solo se ci limitiamo a guardare all’immediato. Sul Corriere della sera Alesina e Giavazzi hanno parlato di “stagnazione ventennale”. Ma se guardiamo ad alcuni dati macroeconomici di medio-lungo periodo, sarebbe forse più corretto (in realtà assai più veritiero) parlare di declino (gli altri vanno infatti avanti e quindi noi arretriamo). Qualche dato su cui i politici, almeno quelli del PD, dovrebbero ragionare, soprattutto nel momento in cui si apprestano ad assumere responsabilità di governo.
I dati su cui riflettere
1) Rapportati a 100 i PIL 2008 dei principali paesi europei, oggi abbiamo l’Italia a 95, la Germania a 114, la Francia a 110, la Spagna a 106 e l’Eurozona a 108 (dati da fonti diverse e sicure).
2) Produttività oraria del lavoro (un dato particolarmente significativo), fatto 100 il 1995 e sino al 2015: USA 145, GB 135, Germania 132, Portogallo 130, Spagna 120, Italia 111.
3) La produttività totale dei fattori (non vi annoio con altri numeri) conferma questo crescente divario italiano dal grosso dei paesi europei e a maggior ragione dagli USA. Va tuttavia sottolineato che questi ultimi dati registrano una situazione che si protrae da quasi venticinque anni.
4) dal 1995 al 2015 l’età dei mezzi di produzione è andata crescendo da 10 anni a quasi 20. Una conferma del dato precedente. L’eliminazione del super-ammortamento del governo Renzi ha certamente contribuito a far ritornare le cose quasi al punto di partenza.
5) una delle spiegazioni offerte dagli studiosi è la dimensione d’impresa: in Italia più dell’80% di tutte le imprese ha meno di 5 dipendenti. I piccoli hanno difficoltà a investire, sia per carenza di capitali sia, spesso, per carenze conoscitive e informative. Ma sovente anche perché operano in settori alquanto maturi se non vecchi (dove sopravvivono sempre più stentatamente e con l’aiuto di “protezioni” di vario tipo, spesso poco o per niente legali, massimamente l’evasione fiscale e persino il nero, bassi salari e precariato)
6) A tutt’oggi l’economia sommersa si aggira tra il 17 e il 20% del PIL. Questo è un dato pressoché costante dal secondo dopoguerra (mentre gli altri paesi sviluppati hanno dati che vanno dal 3 al 7%, una bella differenza).
7)Tra i primi 10 gruppi europei non c’è alcun gruppo italiano.
8) Tra i primi 20 gruppi italiani (per fatturato) solo 9 sono privati, ma il primo privato (FCA) non arriva alla metà dei primi due pubblici (Enel e Eni). Gli altri sono a distanza siderale.
Patrimonialismo senza rischi
Il vero problema, mi sembra, è: di che borghesia stiamo parlando? Qualcuno suggerisce che per l’Italia forse sarebbe meglio parlare di patrimonialismo (forte propensione a evitare il rischio d’impresa, preferendo creare patrimoni familiari). Con la globalizzazione il vero capitalismo deve investire e quindi rischiare, se vuole stare sui mercati aperti alla concorrenza e all’innovazione. Il dato di fondo resta quindi il progressivo declino dell’economia italiana. Declino che va di pari passo con la crescita del debito pubblico, che supera il PIL dai primi anni novanta del secolo scorso.
L’adesione all’Euro ha (giustamente) impedito che si continuasse a fronteggiare le difficoltà competitive come si era fatto dagli anni settanta e seguenti, cioè con l’inflazione (che raggiungeva le due cifre all’anno in alcuni periodi) e con la svalutazione. I dati sull’andamento della produttività globale e del lavoro (vedi sopra) ci dicono che v’è stato e v’è una sorta di sistematico “sciopero degli investimenti”, mentre lo Stato è costretto a limitare (se non ridurre) la spesa per investimenti mentre crescono le spese correnti e il debito. In assenza di una vera revisione della composizione del bilancio l’enorme debito pubblico impedisce sia interventi strutturali sia incisive misure anticicliche. Stiamo lasciando una montagna di debito a figli e nipoti e un confuso agglomerato di istituzioni pubbliche pletoriche e disfunzionali. Sarà la loro rovina e forse già la nostra.
La questione delle diseguaglianze è più complessa
Aggiungo un altro dato tratto dal Corriere della sera del 20/12/2018 per segnalare come la questione delle disuguaglianze, che sta particolarmente al cuore della sinistra, sia in realtà complessa e non sia più affrontabile secondo una tradizione che la storia ha ormai da lungo tempo sorpassato e persino condannato. Anche qui il punto è che se, abbandonate le vecchie e false utopie palingenetiche, si vuol redistribuire, prima si deve produrre, altrimenti si fanno solo debiti (appunto). C’è una sorta di luogo comune, assai diffuso anche nei media, e cioè che le disuguaglianze siano molto cresciute, particolarmente a sfavore delle classi di reddito più basse. Molti giornalisti raccontano persino la favola del progressivo impoverimento della “classe media”. Ma non citano un dato. Tuttavia qualche volta i dati sono citati, ma raccontano un’altra storia. Per esempio, Danilo Taino (sul Corriere della sera del 20/12/2018) cita alcuni dati pubblicati sul Washington Post e provenienti dal Congressional Budget Office.
Naturalmente riguardano gli USA, che è unanimemente considerato il paese con maggiori e diffuse disuguaglianze (economiche). “Tra il 2000 e il 2015, il reddito post tasse e post sussidi del 20% (quintile) più povero è cresciuto del 32%, quello del secondo quintile più povero del 17%, il reddito del quintile intermedio del 15%, quello del secondo quintile più ricco del 16% e quello del 20% più ricco è cresciuto del 15%”. Altri dati che non cito confermano questo andamento, tanto che Taino conclude così: “probabilmente, nessun americano vorrebbe tornare al 1979 o al 2000, quando non c’erano neppure gli smartphone che in queste statistiche non compaiono”.
Vorrei solo aggiungere che per quanto riguarda l’Europa, che in ogni caso ha disuguaglianze meno marcate dell’America, bisognerebbe poi tener conto delle spese di welfare che, come è noto, vanno a beneficio soprattutto dei settori popolari. Siamo così abituati a dare questo per scontato da non tenerne quasi più conto. Ma il debito che abbiamo (e che altri paesi europei non hanno) sta appunto mettendo in crisi proprio il welfare (pensioni, assistenza sanitaria e sociale, istruzione).
Le diseguaglianze di opportunità
Sarebbe assai utile aprire un vero dibattito su questo argomento, evitando la retorica e il pregiudizio che invece dilagano (anche se resta che l’1% più ricco tende a diventare sempre più ricco, ma questa è altra questione che qui non posso affrontare). Il punto vero delle disuguaglianze è che in un mondo complesso e interdipendente come quello di oggi le disuguaglianze che veramente incidono sui destini delle persone riguardano principalmente quelle di opportunità, quelle cioè che vanno eguagliate per portare il maggior numero possibile di individui ad avere le stesse opportunità di ascesa (quindi prima ancora a conseguire gli stessi talenti e opportunità di qualsiasi altro).
Per esempio, tramite scuola, di cui i giornali di questi ultimi giorni hanno denunciato la crisi sistematica, e che sotto questo profilo è fondamentale. Anche questa una crisi profonda che ha una ventina e probabilmente persino una trentina di anni alle spalle e di cui la politica ha a lungo sottovalutato la gravità. La cosa è particolarmente evidente nel Mezzogiorno (i risultati INVALSI sono solo lì da meditare) e forse non è un caso se si è tornati a parlare di Questione Meridionale. In questo senso proporre, come hanno fatto anche in questi giorni alcuni esponenti dei fuoriusciti dal PD, di azzerare ogni tassa scolastica sino all’ università compresa, significa fare della pura demagogia, senza aver capito nulla di come funzionano oggi il sistema d’istruzione e il mercato del lavoro (escluso il pubblico impiego, che non a caso da anni è diventato una sorta di “refugium peccatorum”).
Esprimere governi capaci di governo
Un ultimo punto. L’altra faccia di questo declino è il contesto istituzionale e politico che non consente reali processi di governabilità. Quindi, uno degli obiettivi prioritari di un governo consapevole delle questioni cruciali di questo paese (e dato che tutti dicono che il governo si fa per il “bene del paese”) dovrebbe essere una riforma costituzionale ed elettorale che porti finalmente l’Italia ad un assetto che sia in grado di esprimere governi capaci di vero governo (ovviamente sempre nel quadro di una democrazia liberale), dando così voce effettiva alla “volontà popolare”.
Con l’attuale quadro istituzionale e l’attuale legge elettorale (ancor più se questa diverrà del tutto proporzionale) un sistema tripolare come l’attuale è destinato a produrre governi di coalizione assai disomogenei e quindi per natura portati a far prevalere la demagogia sulla responsabilità (il “contratto” di governo era infatti una mera spartizione di obbiettivi tra loro incompatibili, oltretutto chiaramente demagogici e di mera spesa). Governi che inoltre il popolo non vota affatto come tali (perché i tre poli si contrappongono), cosicché proprio coloro che si appellano al popolo poi in realtà fanno il governo con chi capita o con chi possono. Fanno cioè quello che vogliono. E’ un ritorno a quella che nella fase pre-tangentopoli si chiamava partitocrazia. Insomma, gira e rigira è come se fossimo tornati al punto di partenza!
Il populismo (italiano) viene da lontano
Personalmente dubito fortemente che queste osservazioni saranno prese in considerazione. Ma non si sa mai. Segnalare con forza che è ormai da troppo tempo che questo paese non affronta veramente i gravi problemi di fondo che lo affliggono credo sia comunque un dovere. Con qualche eccezione e in ogni caso sempre per un tempo insufficiente (qualsiasi governo dura comunque sempre troppo poco), i vari governi hanno avuto una spiccata propensione a correre dietro al più facile consenso popolare evitando accuratamente di dire come stiano veramente le cose. In questo c’è stato un mix di ideologia e di irresponsabile “populismo” (specie le ultime due misure del cosiddetto reddito di cittadinanza e di quota cento). Il “populismo” in questo paese viene da lontano e non per caso ha una sua versione tanto a destra quanto a sinistra. In ogni caso, ciò che difetta alle culture politiche più diffuse d’Italia è l’insegnamento storico che viene dal liberalismo, che, là dove si è invece affermato, consente anche oggi di mitigare quelle spinte populiste che erano in nuce nella idea di democrazia (la famosa “sovranità popolare”).
Full Professor presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dell’Economia. Ha insegnato presso l’Università L. Bocconi di Milano, l’Università Statale di Milano, l’Università Statale di Pavia. Ha studiato presso il Dipartimento di Sociologia della Temple University di Filadelfia (USA) con una borsa NATO. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche.