di Alessandro Maran
Solo qualche anno tempo fa, il Medio Oriente appariva completamente diverso. Nel 2023, il pragmatismo e il riavvicinamento erano all’ordine del giorno (
https://www.thecairoreview.com/…/iran-saudi-arabia-a…/). Tre anni prima, Israele aveva normalizzato le relazioni con un piccolo gruppo di stati arabi, l’allora dittatore siriano Bashar al-Assad era sulla buona strada per essere riaccettato dalle potenze regionali e due rivali di lunga data, l’Iran e l’Arabia Saudita, avevano appena ripreso i rapporti. “La prevista ripresa delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran potrebbe ridisegnare le dinamiche del Medio Oriente, ponendo fine alle guerre per procura e creando opportunità di stabilità regionale”, scrivevano infatti Ana Davis e Omar Auf.
Tutto è cambiato con l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023. Da allora, ci sono state guerre devastanti a Gaza e in Libano, la politica araba è insorta bruscamente contro Israele e la Siria si sta aprendo una strada nuova. L’ex “nuovo Medio Oriente” di metà 2023 ha lasciato il posto a qualcosa di molto diverso (
https://www.stimson.org/…/the-new-new-middle-east-and…/). E l’indebolimento dell’Iran è tra i cambiamenti più grandi.
Negli anni passati, l’Iran era visto come un attore regionale formidabile, con missili balistici avanzati, un programma nucleare a pochi passi dalla capacità di costruire armi atomiche e una rete di alleati e proxies regionali che si estendeva dallo Yemen a Gaza, dal Libano alla Siria. Ora, come scrive Abolghasem Bayyenat per la
World Politics Review, quell’ultima componente della potenza dell’Iran – il network regionale del suo “asse di resistenza” – è praticamente evaporata. Israele ha decimato sia Hamas che Hezbollah, quest’ultimo in passato considerato il più potente attore non statale del Medio Oriente. In Siria, il regime di Assad, amico dell’Iran, è crollato, privando Teheran di un vitale corridoio terrestre per Hezbollah in Libano.
Si potrebbe pensare che un Iran indebolito possa rendere il Medio Oriente più pacifico e sicuro, ma Bayyenat sostiene che non è così. In risposta alle nuove difficoltà che l’Iran deve ora affrontare, scrive Bayyenat, i leader di Teheran “potrebbero perseguire due strategie principali per scoraggiare gli attacchi militari da parte di Israele e degli Stati Uniti o costringerli a de-escalation qualora dovessero avviare le ostilità. In primo luogo, l’Iran potrebbe alzare la posta minacciando di attaccare le infrastrutture di petrolio e gas nel Golfo Persico e interrompere la navigazione marittima nella regione, nella speranza di mobilitare gli sforzi di de-escalation da parte degli stakeholder regionali e globali, compresi i paesi arabi esportatori di petrolio e gas, così come Cina, Giappone, India e altri importanti importatori di petrolio e gas del Golfo Persico (…) In secondo luogo, l’Iran potrebbe minacciare di trasformare il suo programma nucleare in un’arma o costruire effettivamente un’ordigno nucleare per ottenere la massima deterrenza” (
https://www.worldpoliticsreview.com/iran-syria-hezbollah…/).
Che cosa dovrebbero fare gli Stati Uniti (dell’Europa, così com’è combinata, non vale la pena parlare)? Mentre il presidente eletto Donald Trump, arci-antagonista dell’Iran, si prepara a rientrare alla Casa Bianca, a Washington gli analisti stanno ovviamente discutendo sul da farsi. Su
Foreign Affairs, Richard Nephew, l’ex vice inviato per l’Iran dell’amministrazione Biden, raccomanda di dare alla diplomazia un’ultima possibilità prima di usare la forza militare contro il programma nucleare iraniano. (
https://www.foreignaffairs.com/iran/last-chance-iran).
Sebbene possa sembrare allettante approfittare della debolezza dell’Iran e tornare all’approccio di “maximum pressure” del primo mandato di Trump, F. Gregory Gause, visiting scholar del
Middle East Institute, sostiene che questa “tentazione dovrebbe essere evitata, o almeno abbinata all’evidente disponibilità di coinvolgere l’Iran nei negoziati. Solo perché Teheran è in ginocchio, non significa che sia finito (…) Meglio che il presidente eletto Trump segua le sue inclinazioni alla negoziazione e presenti alla leadership iraniana un percorso verso un accordo abbinato a pressioni economiche e politiche e a una esplicita dichiarazione che non sta cercando un cambio di regime” (
https://www.mei.edu/…/different-middle-east-how-should…).
Richard Haass è della stessa opinione e, in un altro articolo di Foreign Affairs, sostiene che gli Stati Uniti dovrebbero integrare la diplomazia con la coercizione economica e la pressione militare, e che il ridimensionamento del programma nucleare iraniano dovrebbe avere la precedenza, dato che con Teheran è troppo complicato perseguire molteplici priorità. “Qui c’è l’urgenza”, scrive Haass. “Presto, l’Iran verosimilmente cercherà di raccogliere i cocci e ricostituire i suoi proxy nella regione. E con il suo deterrente convenzionale distrutto, l’Iran potrebbe anche concludere che solo un’arma nucleare può proteggerlo da Israele e dagli Stati Uniti. I diamanti possono anche durare per sempre, ma le opportunità strategiche no. Come sa bene l’autore di The Art of the Deal, devono essere afferrate rapidamente” (https://www.foreignaffairs.com/…/iran-opportunity…).
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.