di Giorgio Tonini
Dunque domenica si vota. E (salvo imprevisti clamorosi) domenica sera avremo un parlamento a larga maggioranza di destra.
Un risultato tanto scontato quanto paradossale. Perché in tutti i sondaggi, Giorgia Meloni, la leader della destra che è anche il capo dell’opposizione, ha un livello di consenso 20 punti sotto quello del capo del governo, Mario Draghi. Secondo YouTrend, Draghi ha il 55% di giudizi positivi e il 41% di negativi, mentre Giorgia Meloni si ferma al 32 di positivi contro ben il 64 si negativi. Se fossimo un Paese normale, con sondaggi così, il risultato elettorale atteso sarebbe una conferma, tranquilla e pacifica, del governo in carica. E invece, la previsione scontata è che tra qualche settimana, a Palazzo Chigi, ci sarà il passaggio di consegne tra Draghi e la Meloni. L’attuale capo dell’opposizione prenderà il posto dell’attuale capo del governo, pur avendo un livello di consenso incomparabilmente più basso.
Come è possibile che possa verificarsi un’assurdità del genere? Semplice: l’opposizione è destinata a vincere le elezioni, perché la maggioranza ha deciso di non presentarsi. Quel 55 per cento di italiani che esprimono fiducia in Draghi e nel suo governo nei sondaggi, non possono confermare questo giudizio sulla scheda elettorale. Sulla scheda elettorale Draghi non c’è, perché gli statisti, che in tutti gli altri paesi democratici sono i grandi leader politici, che vincono ripetutamente le elezioni e governano per un ciclo politico che abbraccia più legislature, da noi devono essere apolitici o almeno apartitici, guai solo pensare che possano presentarsi alle elezioni.
E infatti lui non ci ha mai pensato e men che meno ci hanno pensato quelli che lo hanno sostenuto in parlamento. I Cinquestelle, dopo aver passato tutta la legislatura al governo, pochi mesi prima della fine del quinquennio, hanno riscoperto la loro vocazione di opposizione. Lega e Forza Italia hanno abbandonato il governo per raggiungere Fratelli d’Italia all’opposizione. E le forze che hanno sostenuto il governo fino alla fine non sono riuscite nemmeno loro a restare unite e presentarsi al voto con Mario Draghi leader, come sarebbe stato normale in qualunque paese normale. Sono riuscite a dividersi tra centrosinistra e terzo polo, col risultato di rendere certa la vittoria dell’opposizione, per abbandono del campo da parte della maggioranza. Un suicidio in piena regola, con l’aggravante dei futili motivi.
Dinanzi a questo spettacolo, insieme tragicamente triste e buffo, malamente e goffamente comico, la voglia di non andare a votare è comprensibilmente forte e non a caso assai diffusa. Ma non votare è sempre sbagliato. Dunque andrò a votare domani. E voterò per chi di questa situazione ha meno responsabilità di altri: il Pd di Enrico Letta, che ha commesso la sua quota di errori, ma ha comunque cercato di tenere insieme quel campo, che invece Conte da una parte e Calenda e Renzi dall’altra hanno allegramente e irresponsabilmente diviso.
Il mio voto sarà più facile e convinto al Senato, perché in Trentino, facendo leva su una legge elettorale diversa (maggioritaria secca) abbiamo tenuto insieme almeno centrosinistra e terzo polo rendendo competitivi i nostri tre candidati: Pietro Patton a Trento, Donatella Conzatti a Rovereto e Michele Sartori a Pergine Valsugana. Una vittoria di questi tre candidati, insieme ad una buona affermazione del Pd, è l’obiettivo realistico al quale puntare per ripartire e ricostruire una prospettiva per il futuro.
Consigliere provinciale a Trento e presidente del gruppo del Partito Democratico del Trentino. Componente della Presidenza di Libertà Eguale.
Senatore dal 2001 al 2018, è stato vicepresidente del gruppo del Partito democratico in Senato, presidente della Commissione Bilancio e membro della segreteria nazionale del Pd.
E’ stato presidente nazionale della Fuci, sindacalista della Cisl, coordinatore politico dei Cristiano sociali e dirigente dei Democratici di Sinistra.
Tra gli estensori del “Manifesto per il Pd”, durante la segreteria di Walter Veltroni è stato responsabile economico e poi della formazione del partito.