LibertàEguale

Ecco perché serve cambiare i regolamenti parlamentari

di Stefano Ceccanti

 

Il nuovo numero della rivista Quaderni Costituzionali, il 3/2021, pubblica cinque ampi articoli che si muovono a cavallo tra la ricostruzione degli intenti originari della riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 e le prospettive di modificazione. È impossibile sintetizzare qui la ricchezza dei contributi. Mi limiterò a fare qualche breve lettura in termini attualizzanti e per il resto rinvio gli interessati a una lettura diretta, estremamente istruttiva.

Ad Andrea Manzella spetta la ricostruzione degli intenti originari del testo organico dei nuovi Regolamenti del 1971. Si era in una fase di forte strutturazione del sistema dei partiti e di una spinta, sia pure lenta, alla riduzione dell’eterogeneità tra le forze politiche. Manzella ricorda il superamento dell’impostazione atomistica della funzione parlamentare e la nuova centralità dei gruppi, il rafforzamento dei poteri del presidente di Assemblea, il tentativo di passare a una programmazione regolata dei lavori e un primo riconoscimento di una soggettività dei governi in Parlamento con la presenza nella conferenza dei capigruppo. In sintesi: «Con la ’ragionevole durata’ del procedimento legislativo si crea un formale legame finalistico dei lavori parlamentari con l’attuazione del programma di governo». Stiamo però parlando di un mondo obiettivamente molto lontano per cui nel frattempo vari fenomeni (come l’indebolimento dei partiti e quindi anche della coincidenza tra gruppi e partiti, la crescita del rilievo del legame europeo) hanno cambiato profondamente il quadro, richiedendo interventi non sempre coordinati sia sui Regolamenti, sia sulle leggi elettorali, sia sulla parte organizzativa della Costituzione. Oltretutto la programmazione dei lavori non funzionò mai fintanto che prevalse il principio unanimistico (cioè fino al 1997). Manzella ci invita nella sostanza a coltivare anche oggi l’idea di un disegno coerente perché altrimenti si rischiano scelte schizofreniche.

È il tema su cui si concentra Michela Manetti che scrive su “Le modifiche tacite al disegno costituzionale del procedimento legislativo attraverso i regolamenti e le prassi di Camera e Senato”, mostrando appunto varie patologie, di cui alcune più note come il ricorso eccessivo alla questione di fiducia e ai decreti-legge e altre meno come gli emendamenti premissivi, il cosiddetto monocameralismo alternato, i maxi-emendamenti, fino a “ipotizzare violazioni della Costituzione” o a parlare “di una vera e propria costituzione parallela”. In generale, secondo Manetti, «sembra stagliarsi una meta-modifica tacita, che consiste nell’abbandono del procedimento di approvazione delle leggi al precedente o alla prassi, facendo sì che esso appaia sempre più imprevedibile ed arbitrario». Impossibile però sostenere un mero ritorno indietro e difficile immaginare interventi repressivi. La Corte ha aperto persino a ricorsi di singoli parlamentari, ma poi ha concretamente adottato un sostanziale self-restraint nei casi concreti.

Per Manetti infatti «la tutela da ultimo accordata ai membri delle Camere in sede di conflitto di attribuzioni appare invero una misura perfettamente conforme alla logica del sistema, dal momento che questo affida oggi le sorti della discussione parlamentare all’iniziativa dei gruppi di minoranza o di singoli parlamentari dissenzienti» ma «l’innovazione recata dalla ordinanza-sentenza n. 17 del 2019 non è stata tuttavia capace di assicurare, almeno sinora, l’esercizio di un sindacato sia pur minimale sugli atti del procedimento legislativo». Pur condividendo questo documentato giudizio aggiungerei personalmente che forse arrivare proprio al singolo parlamentare (e non limitarsi ai gruppi che sono i soggetti chiave dal 1971) non poteva che rivelarsi un’apertura forse eccessiva, destinata a essere portata alle estreme conseguenze con difficoltà, pena conseguenze potenzialmente devastanti sulla funzionalità dei lavori parlamentari.

Sulle difficoltà degli interventi repressivi si concentra anche Marco Ruotolo che scrive su “I controlli esterni sul giusto procedimento legislativo: Presidente della Repubblica e Corte costituzionale”. Ruotolo sul Quirinale si sofferma giustamente sulla maggiore utilizzazione recente, dopo l’approvazione delle leggi, della cosiddetta promulgazione ‘perplessa’ o addirittura ‘dissenziente’ che talora ha dato qualche esito positivo in caso di cambiamento di Governo (basti pensare alla riscrittura dei decreti sicurezza nel passaggio tra i Governi Conte 1 e 2). Ruotolo pensa che gli interventi di Corte e Quirinale potrebbero rafforzarsi a vicenda: «ove la Corte aprisse ad una rilevazione rigorosa del vizio formale per violazione dei parametri costituzionali – sia pure contenuta attraverso la possibilità di modulare gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità – il Presidente della Repubblica finirebbe per avere maggiori spazi per ‘prevenire’ il contenzioso. In particolare, il potere di rinvio dovrebbe propriamente essere impiegato per riattivare quel dibattito parlamentare che sia stato indebitamente conculcato». Tuttavia questa “auspicata convergenza tra i controllori” che aggiorna la logica repressiva ex post potrebbe forse essere prevenuta anche grazie a una significativa riforma dei Regolamenti.

Già, ma a che punto siamo un anno dopo la riduzione dei parlamentari che la rende comunque necessaria?
Qui interviene Giacomo Lasorella che scrive di “Le garanzie interne al giusto procedimento legislativo, tra evoluzione (temperata) in senso maggioritario e mancata manutenzione dei regolamenti”. Lasorella si muove in sostanza tra ottimismo della volontà e pessimismo della ragione. Sul primo aspetto segnala una trasformazione strisciante in senso maggioritario delle regole parlamentari che andrebbe meglio regolata. Non ha aiutato in particolare la frammentazione sia della maggioranza (cosa che ha imposto “mediazioni e sintesi tra i diversi gruppi, avvenute tuttavia spesso a livello di Governo, con l’effetto di giungere in Parlamento in modo sostanzialmente preconfezionato») sia dei gruppi di opposizione (che hanno cercato di «negoziare, ove possibile, l’inserimento nei testi di singole proposte emendative»). Egli segnala anche alcune innovazioni nella prassi, anche in tempi di pandemia, tra cui quelle fatte valere dal Comitato per la legislazione della Camera, creato nel 1997: «recentemente le dinamiche prodotte dall’emergenza della pandemia appaiono suscettibili di determinare anche una rivitalizzazione del ruolo dei pareri del Comitato – così come di quelli della I Commissione Affari costituzionali – nell’ambito dell’istruttoria legislativa. Nel corso dell’emergenza hanno infatti assunto un indubbio rilievo i profili attinenti al rispetto degli equilibri delle fonti». Tuttavia, sul secondo aspetto, Lasorella osserva con realismo che al momento «l’orientamento prevalente sembra, al momento, ancora una volta, nel senso di interventi apparentemente ‘minimali’, di puro e semplice adeguamento (in chiave proporzionale) ai nuovi numeri delle assemblee».

Infine Cristina Fasone che scrive su “Pubblicità, trasparenza, apertura: quale impatto sul giusto procedimento legislativo?” affronta un tema che è stato reso ancora più attuale dal dibattito di queste ultime settimane sulla firma elettronica per i referendum. Il nodo che affronta Fasone è quello dell’ “affermazione di un modello di Parlamento per la riconnessione con la società civile” che «richiede procedure legislative aperte ai cittadini, ovvero dotate di pubblicità e caratterizzate dall’uso di strumenti di partecipazione tramite cui gli interessi diffusi nella società possano essere rappresentati alle Camere». Si parla qui in particolare della modernizzazione dell’istituto delle petizioni e dell’iniziativa legislativa popolare evitando però di cadere in derive estremistiche alternative alla rappresentanza politica: «occorre contemperare le spinte favorevoli ad un più attivo coinvolgimento della cittadinanza nelle procedure parlamentari con la garanzia che il procedimento legislativo sia intellegibile e gli interessi in rilievo opportunamente tenuti in conto nella ricerca del compromesso parlamentare».

Forse nel quadro di insieme non sarebbe male per il futuro anche qualche ulteriore riflessione comparatistica (oltre a quelle già ben presenti) sul rafforzamento del legame tra gruppi parlamentari e partiti presentatisi alle elezioni (come nel caso spagnolo) e soprattutto sulle modalità per garantire al Governo tempi certi per l’attuazione del programma attraverso lo strumento fisiologico dei disegni di legge anziché con quello patologico dei decreti (come nel caso francese). Occorre darsi da fare perché il pessimismo della ragione di Lasorella non finisca col prevalere: e perché non ci si accontenti di una semplice operazione di lifting che si limiti a cambiare qualche numero nei Regolamenti come conseguenza della riduzione dei parlamentari. In effetti, il numero di Quaderni Costituzionali può essere un aiuto prezioso perché dall’insieme di questi saggi emerge chiaro l’invito, che dovremmo saper raccogliere, ad evitare un eccessivo minimalismo.

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