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Ex terroristi in Francia: la giustizia passa dalla ricostruzione della storia

di Giovanni Cominelli

L’arresto e la quasi immediata scarcerazione sotto condizione a Parigi di un gruppo di nove “terroristi” italiani – in realtà Giorgio Pietrostefani non è catalogabile “tecnicamente” come terrorista – in fuga dalla giustizia italiana, ma posti al riparo dai suoi imperativi da una sorta di diritto d’asilo, garantito dalla “dottrina Mitterrand”, ha generato un lampo improvviso, che ha illuminato di luce livida l’italico mare nostrum, perennemente agitato. La suddetta dottrina prevedeva di non concedere l’estradizione a persone imputate o condannate, in particolare italiani, ricercate per “atti di natura violenta, ma d’ispirazione politica”.

I nati dopo il ’65, che non sono stati esistenzialmente coinvolti nelle vicende della storia italiana degli anni ’70, poco ne sanno o ricordano. Il che spiega, tra l’altro, la straordinaria incompetenza e superficialità con cui quelli di loro che lavorano nelle redazioni dei giornali e delle TV hanno trattato – fatta qualche eccezione – queste storie. Dobbiamo ogni volta sconsolatamente prendere atto che, nonostante il ruolo delicatissimo di informazione e formazione dell’opinione pubblica che oggi occupano, immeritatamente, nessuno a scuola gliele ha mai raccontate. È già molto che siano arrivati alla Resistenza. Dopo, è buio pesto. Mescolando analfabetismo di andata e di ritorno con le emozioni eccitate da narrazioni incomplete e perciò false, ciò che si produce sono onde irrazionali dell’opinione pubblica, esposte ad ogni utilizzo da parte di qualche spregiudicato imprenditore politico.

I latitanti arrestati in Francia per essere in seguito estradati in Italia sono molto diversi per biografie politiche, ma sono tutti accomunati dal fatto di essere sfuggiti alla giustizia italiana, che li ha processati nel rispetto di tutti i canoni, salvo errori e incongruenze, tipiche del funzionamento del sistema giudiziario. Se esiste “un diritto di fuga”, esiste, a maggior ragione, anche il diritto/dovere di cattura. Ricondurre il condannato all’esecuzione effettiva della pena non significa affatto praticare “una vendetta tardiva e senza senso”, come opina Massimo Cacciari, ma semplicemente ricucire nell’unico modo possibile le ferite inferte alle vittime, quelle ancora vive, ai familiari, al tessuto civile del Paese. Che, a distanza di 50 anni, la pena per individui che sono forse, nel lungo frattempo, profondamente cambiati, debba essere umana e saggia è certo. Ma deve essere eseguita. Non è questione di vendetta, ma di verità e di giustizia.

Ernesto Galli della Loggia ha fatto ai familiari una richiesta cinica e surreale insieme: che, in nome della pacificazione – di chi con chi? – accettino l’oblio delle loro tragedie.

Come se la lotta armata scatenata nel corso degli anni ’70 avesse avuto la dubbia e crudele “dignità” di una guerra civile, nella quale i torti e le ragioni o, comunque, le buone intenzioni in nome della difesa della Patria fossero stati equamente distribuiti dal Dio che gioca a dadi con la Storia. Insomma, dopo l’amnistia togliattiana del 1946, ne servirebbe un’altra nel 2021. Qualcuno ha riproposto il modello sudafricano The Truth and Reconciliation Commission, istituita nel 1995 e chiusa nel 1998. Ma il patto statuito alla sua base era che i responsabili di crimini politici – membri degli apparati dello Stato e di organizzazioni politiche come l’African National Congress – ottenessero l’amnistia per i propri delitti solo in cambio del racconto della verità.

L’idea sarebbe ottima, se non fosse che non risulta che i nostri fuggiaschi abbiano mai voluto o vogliano raccontare la verità sui fatti di cui sono stati imputati. Al contrario, abbiamo sentito alcuni di loro rivendicare con orgoglio di non essersi mai pentiti. L’unica ammissione di “errore” è stata fatta da quei brigatisti, che hanno dichiarato, sì, di avere sbagliato, ma solo nel senso di essere “colpevoli di sconfitta”.

Il Bene consiste nel vincere, quali che siano i mezzi, il Male nel perdere. Mario Moretti lo ha teorizzato cinicamente. È questa, d’altronde, la morale rivoluzionaria hegelo-leninista. Se il fine supremo è il comunismo, ogni mezzo è lecito per realizzarlo. Colpevole è chi non lo realizza. Non si sa, forse, che l’Assoluto calpesta necessariamente i fiori – non importa quanti – sul suo cammino trionfale e destinale?

La riconciliazione possibile non poggia sull’oblio, ma sul riconoscimento della verità e delle colpe. E’ ciò che chiedono, tra gli altri, Gemma Calabresi, vedova di Luigi, Benedetta Tobagi, figlia di Walter, Adriano Sabbadin, figlio di Lino, il macellaio assassinato: “perdoniamo, ma diteci la verità!”.

La saggezza civile millenaria della Chiesa ha codificato questa procedura nel Confiteor della Messa, adottato dal Terzo Concilio di Ravenna del 1314, dopo le prime formulazioni di Codregango di Metz e di Egberto di York del 700: “Confiteor Deo omnipotenti et vobis, fratres, quia peccavi nimis cogitatione, verbo, opere, et omissione, mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa – Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho peccato molto in pensiero, in parola, in azione e in omissione, mia colpa, mia colpa, mia massima colpa”.

Alle vittime e ai loro familiari interessa il riconoscimento delle responsabilità. Solo a partire da questo si può ipotizzare che la fredda giustizia dello Stato allenti la sua presa, che prenda atto della “conversione” degli imputati e che adotti modalità più leggere di sconto della pena.

Tutto ciò continua a sfuggire a quel gruppo di intellettuali francesi, che hanno rivolto in questi giorni un appello a Macron per un ritorno immediato alla dottrina Mitterrand. Dandogli del “Tu”, gli suggeriscono di “citare ai tuoi interlocutori transalpini – che sarebbero appunto Draghi e Cartabia – questo verso che Eschilo una volta mise in bocca ad Atena: ‘Vuoi passare per giusto piuttosto che agire giustamente’ “.

È, a quanto pare, un vecchio vezzo della “gauche” francese, che si rifà al famoso appello rivolto il 5 luglio 1977 alla Seconda Conferenza Est-Ovest di Belgrado, firmato da J .P. Sartre, M. Foucault, F. Guattari, G. Deleuze, R. Barthes ed altri, nel quale si denunciava l’alleanza DC-PCI, “le socialisme à visage humain”, che voleva sviluppare “un système de contrôle répressif” contro il quale si rivoltavano i giovani proletari e gli intellettuali dissidenti in Italia. L’Appello fu ripetuto in occasione del Convegno di Bologna contro la repressione del 23 settembre dello stesso anno. Fa parte del nazionalismo francese l’idea dell’Italia come Repubblica Cisalpina, verso la quale continuare ad esportare le “libertà francesi” non più sulle ali della cavalleria napoleonica, ma su quelle di una sofisticata retorica.

Il fatto è che, grazie all’intelligente politica di Pompidou, l’élite francese ha prontamente integrato nella classe dirigente il movimento del Maggio ’68: prima il bastone e poi la carota. Perciò la Francia non ha conosciuto il lungo tumulto italiano, durato un decennio, e, soprattutto, non ha avuto centinaia di morti e migliaia di feriti per terrorismo rosso e nero. Né, tampoco, ha sperimentato il feroce terrorismo tedesco di matrice DDR.

Se c’è, come è evidente, un calcolo elettorale e geo-politico europeo dietro la scelta di Macron, alle prese con ricorrenti fenomeni di terrorismo islamista e all’uso politico-elettorale che ne fa Marine Le Pen, essa permette tuttavia di procedere alla costruzione di uno spazio giuridico europeo, nel quale i latitanti non siano considerati altrettanti Mazzini esuli.

Pubblicato su santalessandro.org il 1 maggio 2021

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