intervista a Giorgio Tonini. a cura di Emilia Patta, pubblicata su Il Sole 24 Ore del 21 dicembre 2022
«Attenzione a non buttare giù i pilastri su cui è stato costruito il Pd, ossia la vocazione maggioritaria e riformista e l’unione di diverse culture: la socialdemocratica, la liberaldemocratica e la cattolica democratica».
Dopo gli ex Ppi, in campo la «generazione Lingotto»
Dopo l’aut aut degli ex popolari guidati da una personalità come Pierluigi Castagnetti è ora la “generazione del Lingotto” a muoversi e a incalzare il segretario uscente Enrico Letta. Tanto da organizzare per il 22 dicembre un incontro al Nazareno, nella sala dedicata al compianto David Sassoli, con lo stesso Letta e i tre candidati alle primarie fin qui in campo (Stefano Bonaccini, Elly Schlein e Paola De Micheli) per sottoporre alla loro attenzione il documento sottoscritto da Stefano Ceccanti, Graziano Delrio, Stefano Graziano, Marianna Madia, Roberto Morassut, Pina Picierno, Debora Serracchiani, Giorgio Tonini, e Walter Verini. Tutti dirigenti che pur appoggiando candidature diverse al congresso sono accomunati dall’esigenza di rispettare quel Manifesto dei valori elaborato nel 2007/2008 da personalità come Alfredo Reichlin, Pietro Scoppola, Virginio Rognoni e l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Manifesto che ora il “Comitato costituente” di circa 90 membri nominato da Letta dovrebbe riscrivere prima del congresso.
Le prime sedute del “comitatone”, di cui sono garanti lo stesso segretario del Pd Letta assieme al segretario di Articolo 1 Roberto Speranza, sembrano in effetti andare nella direzione di una riscrittura tutta a sinistra, con critiche nientemeno che al sistema capitalistico e al presunto “ordolibersimo” che avrebbe caratterizzato la politica del Pd degli ultimi anni. Da qui la richiesta della “generazione Lingotto”. «Chiediamo al segretario nazionale, nella sua veste di garante del percorso, di favorire la chiara distinzione tra una dimensione di revisione costituzionale che senza azzerare i principi fondamentali privilegi ciò che unisce e una più propriamente congressuale di confronto e competizione tra piattaforme e candidati alla segreteria – è scritto nel documento che sarà consegnato a segretario e candidati – e chiediamo ai candidati di condividere l’impegno a non trascinare nella legittima e salutare competizione per la leadership i principi identitari del Pd. È in questo spirito che proponiamo ai candidati di distinguere la fase attuale di verifica congressuale e di inizio del dibattito costituente e quella delle decisioni costituenti, da affidare alla prossima Assemblea nazionale».
Giorgio Tonini, lei è stato uno del “costituenti” del Pd. Che cosa non va nel Comitato costituente nominato ora da Letta?
La fase costituente di per sè non è sbagliata, anzi. Ma dobbiamo metterci d’accordo: bisogna fare i conti con la crisi provocata dalla sconfitta politica del 25 settembre, non c’è dubbio, ma la crisi si supera inverando i principi del Pd e non sostituendoli con altro. A cominciare dall’attualità del “pensiero democratico”. Ossia l’idea che esista un’identità democratica, senza aggettivi, che non solo non è meno forte e strutturata delle sue declinazioni novecentesche – vuoi in senso liberale, socialista, cristiano o altro ancora – ma si pone al contrario come più capace e adeguata a cogliere e interpretare le sfide e le speranze del nostro tempo. Un tempo segnato dalla dura competizione per l’egemonia mondiale tra Paesi retti da un compromesso, sempre imperfetto e in perenne evoluzione, tra capitalismo e democrazia, e Paesi che invece considerano la democrazia incompatibile con i loro obiettivi di crescita e sviluppo. In questo mutato contesto storico, l’identità democratica è tutt’altro che debole o remissiva. Al contrario, si colloca al centro della frattura fondamentale che oppone le forze che scommettono sulla democrazia per spingere in alto la crescita economica, coniugandola con la sostenibilità sociale e ambientale, e le forze che invece considerano la democrazia, la libertà e i diritti umani e civili un fattore di debolezza nella competizione globale e scommettono sulla migliore efficienza dei sistemi di stampo autoritario. Una frattura, si badi bene, che la guerra della Russia di Putin all’Ucraina ha portato alla luce e accentuato e che ormai attraversa anche il campo Occidentale. Si pensi a Trump negli Usa o ad Orban in Ungheria, nella stessa Ue.
Lei crede dunque che questo “pensiero democratico” sia sotto attacco da parte del “costituenti” di Letta?
Vedo che si torna a mettere in discussione quello che un tempo si chiamava il sistema di produzione, il capitalismo insomma, che invece ha dimostrato di adattarsi ai diversi sistemi di governo e alle diverse evoluzioni della società di mercato. Si tratta di una risposta novecentesca che non porta da nessuna parte e che trasformerebbe il Pd in un partito a vocazione minoritaria condannato all’opposizione. Il problema è semmai il rapporto tra capitalismo e democrazia, come si diceva prima.
Anche l’accusa di “ordoliberismo” rivolta ai riformisti del Pd della prima ora appare un po’ fuori tempo massimo, vista la risposta keynesiana dell’Occidente alla pandemia prima e alla crisi energetica dopo…
Certamente. Di “ordoliberismo” si è parlato negli anni scorsi soprattutto in relazione alla Germania e alla politica eruopea dell’Austerità. Ma con e dopo l’emergenza Covid la spesa pubblica in Occidente si è espansa come mai negli ultimi decenni. Anzi, la forte politica della domanda pubblica ha da una parte spinto l’economia evitando la recessione ma anche anche prodotto maggiore inflazione. Mi sembra che Keynes sia ben tornato di moda, altro che ordoliberismo. Mi pare che molti dei termini della discussione interna del Pd siano già fuori dalla realtà. Certo, c’è una forte questione sociale come conseguenza della globalizzazione: lo sviluppo dell’Asia, dell’America del Sud e in parte anche dell’Africa ha portato di riflesso a un forte impoverimento del ceto medio dell’Occidente. Non è un problema solo italiano ma riguarda in diversa misura tutta la sinistra occidentale.
Quale risposta alla crisi sociale, allora?
La risposta è welfare delle opportunità, innovazione e transizione ecologica. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza elaborato sotto la forte spinta del Pd dai governi Conte 2 e Draghi ne è un esempio. Il Pd, assieme al M5s che guidava il governo, ha concorso enormemente a elaborare la risposta europea del Next Generation Ue. Dopo essere stati assoluti protagonisti di quella stagione riformista che facciamo, regaliamo il Pnrr a Giorgia Meloni? Da lì occorre riprendere il filo per costruire la nuova stagione di un centrosinistra che torni ad essere competitivo. Ricostruendo le relazioni interrotte sia con il M5s sia con il Terzo polo di Calenda e Renzi. Ma questo può farlo solo un Pd che non perda le sue radici di partito riformista a vocazione maggioritaria. Che poi a voler rifondare il Pd rinnegando le riforme degli anni passati siano personalità come Andrea Orlando, Giuseppe Provenzano o Nicola Zingaretti, che della stagione del Conte 2 e di Draghi sono stati protagonisti nel partito e nel governo, ha davvero dell’incredibile.
Qualcuno azzarda che alla base di questa volontà di cambiare i connotati del Pd, financo il nome, ci sia un patto non scritto con i bersaniani guidati da Speranza per il loro rientro nel partito dopo la scissione anti-renziana del 2017…
Io sono contento se rientrano, sono stato tra quelli che hanno giudicato un grosso errore l’uscita dal partito di un ex segretario come Pierluigi Bersani e di quello che fu il capogruppo di oltre 300 deputati, ossia Speranza. Ma, di certo, non è che per far rientrare loro possiamo cambiare il Pd. Perchè allora sarebbe il Pd ad entrare in Articolo 1! Non possono chiederci di rinnegare noi stessi. E anche questa ossessione anti-renziana deve finire, visto che dalla sconfitta del referendum costituzionale nel 2016 sono passati ormai otto anni. Noi siamo fermamente contrari a mettere in discussione i fondamentali: l’idea democratica è che il Pd deve unire i riformisti, non tornare alle culture novecentesche, è nel suo codice genetico. Su questa base c’è posto per tutti.
Una questione di merito, ma anche di metodo. Voi, così come gli ex popolari riuniti nelle scorse ora da Pierluigi Castagnetti, contestate che siano una segreteria e un’assemblea in scadenza e un gruppo dirigente sconfitto politicamente a cambiare il volto, e forse anche il nome, del Pd.
È così. Le rispondo ricordando il percorso seguito dai costituenti di Romano Prodi e Walter Veltroni: un primo Manifesto per il Pd redatto nel 2007 da un comitato di saggi nominati da Romano Prodi, d’intesa con Piero Fassino e Francesco Rutelli, allora leader di Ds e Margherita, poi votato dai congressi dei due partiti e sottoscritto dai tre milioni di elettori che parteciparono alle primarie per l’Assemblea costituente ed elessero Walter Veltroni primo segretario del nuovo partito; un nuovo Manifesto dei valori, redatto da una commissione presieduta da Alfredo Reichlin, che lavorò in parallelo con la commissione che elaborò lo Statuto e quella che redasse il Codice etico.
E quindi?
Questa assemblea non può avere il mandato di cambiare il codice genetico del Pd. Punto.