di Giovanni Cominelli
Il rischio che il sottosegretario Giorgetti ha segnalato al Meeting di Rimini – che la domanda di un governo forte e di istituzioni forti si trasformi, in assenza di modifiche profonde dell’assetto istituzionale e amministrativo della democrazia italiana, in domanda di uomo forte e in una crisi della democrazia rappresentativa – non è in realtà il risultato di una geniale illuminazione.
Il discorso di Giorgetti al Meeting di Rimini
Perché l’alternativa tra queste due domande è stata esattamente al centro della campagna referendaria del 2016, conclusa con la risposta negativa alla prima. Ma, prima ancora, del referendum del 2006 e, ancor prima, della Commissione bicamerale del 1997. E ancor prima…
Si può solo osservare maliziosamente che Forza Italia e la Lega del 2016, di cui Giancarlo Giorgetti era capogruppo in Parlamento, bocciarono la prima, perché avrebbe spianato la strada appunto all’”uomo solo al comando”. Appunto!
E’ positivo che l’assunzione di responsabilità di governo da parte della Lega abbia fatto ora toccare con mano che è impossibile governare il Paese con uno Stato amministrativo inefficiente e uno Stato politico, nel quale il Parlamento è sì “inconcludente”, ma il governo lo è doppiamente, essendo ostaggio di un Parlamento inconcludente e di uno Stato amministrativo paralizzante.
Non era difficile prevedere che la vittoria del No avrebbe alimentato l’insorgenza della seconda domanda, quella di un uomo forte e sbrigativo, presunto capace di risolvere i problemi antichi e nuovi del Paese.
L’uomo forte e la democrazia diretta
Il quale uomo non è affatto incompatibile con l’ipotesi della cosiddetta democrazia diretta. Proprio l’aumento esponenziale del pulviscolo di domande–risposte–proposte che emergono dalla società e dall’oceano della Rete richiede una forte capacità di sintesi e di decisione: o la fanno nuove istituzioni o la fa “un uomo solo al comando”.
La “democrazia diretta”, così come quella rappresentativa, si trova dinnanzi al bivio: istituzioni forti o uomo forte. Dietro al domandare sta una necessità estrema di governo da parte della società civile, oppressa da irrisolte questioni storiche – di cui il debito pubblico costituisce la sedimentazione visibile – e da urgenti sfide, che provengono dal contesto europeo e planetario della globalizzazione.
In effetti, il cittadino non si sente poco e male rappresentato; si sente poco e male governato. Invece che di crisi della “democrazia rappresentativa” sarebbe più esatto parlare di crisi della “democrazia decidente”.
Le proposte di Giorgetti circolano da tempo: si tratta dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica e di quanto consegue in termini di rapporti tra Parlamento e Governo. Sostanzialmente, gli elettori scelgono direttamente il capo del governo, che si adotti il modello americano o, piuttosto, quello francese. Al Parlamento tocca il compito decisivo di controllare l’operato del governo.
Le proposte di legge non mancano. Stefano Ceccanti per il PD ne ha già presentato una appena all’inizio della legislatura. Tuttavia, occorre prendere atto che almeno dal 2006 sono stati gli elettori, chiamati a referendum, a bocciare le proposte di governo forte. Forse che la cosiddetta società civile preferisce “l’uomo forte”? Il No delle forze politiche – nel 2006 furono i DS a fare campagna per il No, nel 2016 furono Forza Italia, Lega e M5S – rispecchia e rappresenta il No della società civile.
I cittadini hanno detto NO alle riforme. Le ragioni profonde
Un intreccio di motivazioni sta alle spalle del NO dei cittadini alle riforme istituzionali. La prima è la mancanza del “senso della patria”, della comunità nazionale coinvolta nel medesimo destino. Dal sottosuolo carsico della storia del Paese emergono fiotti di guerra civile e di “reciproco assedio”, di cui parlò e fu vittima Aldo Moro. Che si riflettono nel sistema politico come rifiuto della legittimazione dell’avversario politico. Se la mancata legittimazione politico-istituzionale del PCI a governare aveva una cogente e realistica ragione internazionale, dopo la caduta del muro di Berlino e della Prima repubblica la delegittimazione dell’avversario ha attinto a ragioni morali. Giovanni Orsina segnala, a ragione, in Mani pulite l’inizio di questo trend. Scattò tra il PCI-PDS e Berlusconi nel 1994, è durata fino al 2011.
Poi sono arrivati i Cinque stelle, che hanno raccolto le bandiere dell’antiberlusconismo lasciate cadere dalla sinistra. Nel M5S l’antiberlusconismo ideologico e morale continua a funzionare quale cemento per tenere insieme i detriti di molto elettorato di sinistra, ferocemente antiberlusconiano. E così il PD di Renzi– quello del Patto del Nazareno – è divenuto il nuovo bersaglio della delegittimazione morale, in base alla quale l’avversario non deve essere sconfitto, ma semplicemente annientato.
La seconda causa nasce dalla debole consapevolezza della società civile italiana delle sfide che provengono dal contesto internazionale. A che cosa serve un governo capace di decisioni rapide, se non si intravedono le sfide mondiali? Se una gran parte della classe dirigente e del Paese si è pigramente adagiata all’ombra protettiva dell’Europa e della Nato? Se solo una parte minoritaria dell’economia del Paese è proiettata sul piano dei mercati mondiali, mentre la maggioranza campa di Stato e di debito pubblico? Se l’idea è quella della piccola patria, nella quale i cittadini votano e poi tutti si mettono d’accordo per formare un governo – secondo il quadro idilliaco che Zagrebelsky opponeva ai fautori del Si al referendum del 2016 – che bisogno c’è di governo forte? La società civile italiana e le sue classi dirigenti hanno introiettato da tempo la dipendenza e il vittimismo. Se il problema è quello della costruzione di un nuovo ordine mondiale, lasciateci fuori!
Naturalmente, non è solo questione di una cultura di lunga durata. Sotto stanno robusti interessi di piccole e grandi corporazioni – una giungla che ha infestato il Paese – che temono un governo istituzionalmente forte, che sia in grado di selezionare e premiare/punire gli interessi particolari, secondo la logica del Bene comune. Non è solo la psicologia del particolare, ma “il particolare” stesso, che il sistema istituzionale ed elettorale della Prima repubblica ha lasciato crescere a dismisura, fino al punto che qualcosa come il Bene comune non riesce più a costituirsi, neppure come kantiana idea regolativa.
Libertà contro totalitarismo
Si comprende bene che, a questo punto, la democrazia rappresentativa, priva di uno sbocco decidente, entri in crisi, rispecchiando passivamente l’Italia ripiegata su di sé così come si è venuta configurando nell’ultimo trentennio, un’Italia paralizzata dalla fobia dell’avvenire e del mondo.
La democrazia rappresentativa, quale conosciamo, è un vestito troppo leggero per l’attuale stagione fredda del mondo. Resta la politica che si crede “forte”, che tenta la scorciatoia di sottomettere lo Stato politico e lo Stato amministrativo ai propri capricci di potenza e che usa un linguaggio truce e impotente. Una politica in realtà debolissima, che ci espone senza difese al vento dell’autunno che ci sta arrivando addosso.
Già negli anni dell’ascesa dei movimenti totalitari e della sindrome dell’uomo forte in Europa, Karl Jaspers scrisse di “liberali apatici”. Come allora, il crinale si sta spostando: non destra/sinistra, ma totalitarismo/libertà. Nel 1935 se ne accorse, non senza ritardo, persino Stalin – che di totalitarismo capiva – al VII Congresso del Comintern.
La sinistra italiana ancora non vede il pericolo, che arriva, prima che dalla politica, dalla maggioranza degli elettori.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.