In questo bailamme di elucubrazioni e di approfondite interpretazioni, a partire dai numeri delle sette regioni andate al voto ieri, sui destini del governo Renzi, sul sistema politico italiano, laddove non sul socialismo mondiale e sugli equilibri di potere in Europa (!), mi piacerebbe che qualche eretico osservatore anche poco titolato lanciasse due provocazioni.
La prima è che appare piuttosto curioso che tutti coloro che NON partecipano al voto sembrano pensarla esattamente come chi, in questo momento, sta commentando dal vostro televisore i risultati elettorali.
È piuttosto curioso che questi esegeti di presunte maggioranze silenziose si arroghino il diritto di interpretare e di assoldare il più o meno forte “partito dell’astensione” sotto la propria bandiera. È curioso che solitamente nessuno faccia loro notare che: 1. quelli che fanno la scelta di non votare non sono un gruppo coeso od omogeneo, ed è piuttosto difficile pesare le innumerevoli motivazioni alla base dell’astensione (scientificamente parlando); 2. chi sceglie di non pronunciarsi alle elezioni fa una libera scelta, sapendo di rinunciare a una possibilità di partecipazione e di espressione democratica, peregrino quindi che si vogliano attribuire proprio a questa parte della popolazione una profondità di pensiero politico e uno spessore strategico fondamentale per i destini del Paese; 3. in generale un certo livello di astensione è assolutamente fisiologico nei regimi democratici (vi siete mai chiesti da dove derivi l’espressione “maggioranze bulgare”?), tanto che la partecipazione elettorale nella maggior parte dei paesi occidentali è in calo continuo almeno dalla fine degli anni Sessanta (voce Wikipedia su astensione elettorale in Italia) – Obama è stato eletto dal 57.1% degli elettori nel 2008 e riconfermato dal 54.9% nel 2012, per dire – anche laddove si vogliano paragonare (e non si potrebbe) elezioni politiche ed elezioni locali (caratterizzate da fattori indubbiamente diversi e da una partecipazione tradizionalmente più bassa); 4. lo stesso esercizio del voto sta cambiando con il cambiare delle generazioni, un tempo preziosissimo diritto-dovere, ora sempre più diritto e meno dovere, per ragioni storico-culturali che evidentemente non hanno nulla a che fare né con le politiche del governo né con questa singola tornata di elezioni regionali; un fenomeno sul quale appare pure opportuno interrogarsi, ma senza strumentalizzazioni legate alla contingenza.
La seconda provocazione è che le elezioni servano a eleggere Presidenti e Consigli regionali. In questo quadro, chi è del PD potrà rallegrarsi del fatto che in cinque delle sette regioni andate al voto il proprio partito abbia vinto e possa esprimere i prossimi Governatori. Davanti a questo dato “istituzionale” le interpretazioni che profetizzano la fine del PD appaiono anch’esse piuttosto curiose (ferma restando la necessità di continuare a ragionare su capacità “matematica” di unità elettorale e su qualità politica delle candidature).
Come detto si tratta di due semplici provocazioni, beninteso; nulla di cui cotanti scienziati debbano preoccuparsi nelle loro spiegazioni sul vero significato di queste elezioni.
Professor of Politics presso IES Abroad Rome, PhD in Scienze politiche, Fellow della School of Public Affairs all’American University di Washington DC e docente di Metodologia delle Scienze Sociali alla LUISS Guido Carli di Roma. Si occupa di open government, lobbying, public affairs, innovazione politica. Il suo ultimo libro è Lobbying in Europe. Public Affairs and the Lobbying Industry in 28 EU Countries (Palgrave Macmillan 2017). Attivista per diverse organizzazioni che promuovono la trasparenza nel mondo politico. Dirigente locale del PD a Roma e membro della commissione nazionale del PD sulla forma partito. Su Twitter è @albertobit.