di Dario Parrini
Non cessano le pressioni sul Pd affinché sostenga un governo con il M5S.
Non si tiene però conto di un dato fondamentale: che l’interlocutore con il quale il Pd dovrebbe accordarsi non ha dato fin qui segno di essere minimamente affidabile. E se il tuo interlocutore non è affidabile, come puoi seriamente trattarci? Come puoi andare a vedere le carte di qualcuno che probabilmente sta barando?
Questi sono interrogativi ineludibili in primo luogo per i fautori della linea del “diciamogli tre o quattro punti per noi prioritari e facciamoli partire”. Tesi insostenibile per due ragioni. Perché trascura la non trascurabile questione dell’antidemocraticità dei processi decisionali e della filosofia istituzionale del Movimento 5 Stelle. E perché fa finta di non vedere che siamo di fronte a un partito che pur di impadronirsi del governo è pronto a sostenere tutto e il contrario tutto, anche sui temi più grossi e scottanti, con la sveltezza trasformistica propria di chi è opacamente subalterno a un’impresa privata avente per oggetto sociale la direzione di una forza politica.
Si discetta con leggerezza di “contratto alla tedesca” dimenticando che in Germania a firmare il contratto coalizionale non è stato un partito con un altro che ha denigrato fino a un istante prima del voto, bensì sono stati tre partiti (la Cdu, la Spd e la Csu) che hanno cofondato la Repubblica dopo la sconfitta del nazismo e governato insieme per 9 degli ultimi 13 anni. È un soggetto negoziale affidabile un partito a giudizio del quale un governo con la Lega e un governo col Pd pari sono? È un soggetto negoziale affidabile un partito che muove dalla pretesa integralistica dell’irremovibilità della propria indicazione per la presidenza del consiglio e tarocca il proprio programma elettorale dopo il voto? È da soggetto negoziale affidabile passare in pochi giorni da posizioni anti-Europa e filo-Putin a una linea europeista e pro-Nato? È da soggetto negoziale affidabile avere un capogruppo al Senato che oggi parla di rilevanti similitudini tra i programmi del M5S e del Pd, mentre appena dieci giorni fa, il 9 aprile, aveva invitato il Pd a farsi stampella dei grillini con il sofisticato argomento che ciò avrebbe consentito ai democratici di espiare i propri peccati?
Questi fatti vanno presi per quel che sono: manifestazioni di opportunismo deteriore. Il professor Giacinto della Cananea, incaricato da Di Maio di individuare i punti di incontro tra il programma pentastellato e quelli degli altri partiti, non potrà che prendere atto che i programmi del Pd e del M5S sono incompatibili. Il reddito di inclusione non è il primo passo verso il reddito di cittadinanza. È la sua negazione in termini di politica economica e sociale: la prima è una misura di sostegno attivo alla povertà, fattibile e coerente con la necessità di ridurre il debito pubblico; la seconda è una misura assistenzialistica demagogica e sfascia-conti.
L’assegno universale per le famiglie con figli e la riduzione degli oneri contributivi sulle baste paga, due punti che come il reddito di inclusione sono stati dei pilastri del programma elettorale del Pd, sono misure che costano quindici miliardi di euro e sono del tutto alternative all’abolizione della legge Fornero: da un lato le risorse per fare questa e quelle non ci sono, dall’altro è a tutti noto che la conseguenza a medio termine di un incremento della spesa pensionistica in rapporto al pil è un aumento dei contributi previdenziali gravanti sulle retribuzioni. Mentre la riduzione del costo del lavoro favorisce l’occupazione, il ritorno alle regole previdenziali ante-2011 avrebbe l’effetto di sfavorirla.
È difficile prevedere gli sviluppi dell’attuale crisi di governo. Di sicuro quelli appena ricordati sono problemi non ignorabili. Da questo punto di vista non induce all’ottimismo il fatto che dalle elezioni siano trascorsi 46 giorni senza che i sedicenti vincitori siano stati in grado di far cessare i teatrini e di sbloccare la situazione politica con proposte credibili e nell’interesse del Paese.