di Vittorio Ferla
“L’anno che sta arrivando, tra un anno passerà”, cantava Lucio Dalla nel suo capolavoro ‘L’anno che verrà’. Ma per la politica italiana il modo in cui quest’anno passerà – fino alle elezioni politiche del 2023, quando si concluderà la legislatura più pazza della storia repubblicana – non è affatto indifferente. L’agenda politica è già scritta. Riguarda la collocazione politico-strategica del nostro paese nel mondo e in Europa. Mica poco, insomma. Si tratta dunque di capire lungo quale crinale sceglieranno di collocarsi le forze in campo.
Quali sono le questioni iscritte nell’agenda? Ridotte all’osso, due.
La prima concerne la posizione del nostro paese rispetto alla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina. Finora la linea condotta dal governo di Mario Draghi – in perfetta sintonia con il presidente Sergio Mattarella che lo ha incaricato – è apparsa ineccepibile. Condanna senza se e senza ma dell’attacco del Cremlino e delle atrocità inferte alla popolazione civile. Difesa dell’Ucraina con aiuti economici e militari al fine di riequilibrare la bilancia delle forze in campo, ineludibile fondamento di qualsiasi negoziato di pace. Sanzioni economiche per provocare la depressione dell’economia russa e limitare la sua capacità di alimentare il conflitto. Promessa di un rapido ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea. Ricerca dell’indipendenza energetica per tagliare il cordone ombelicale che ancora lega il nostro sistema paese al gas russo. Impulso alla costruzione di una difesa europea e di una politica estera comune. Fedeltà all’alleanza atlantica e capacità di leadership dell’Unione europea nel solco di una linea neo-degasperiana e liberaldemocratica.
A questo, a dire il vero, bisognerebbe ormai aggiungere un punto ‘uno-bis’. Joe Biden ha lanciato una iniziativa diplomatica che raccoglie una serie di alleati nel Pacifico a difesa dell’autonomia di Taiwan, l’isola che la Cina considera nient’altro che una propria provincia. Proprio come la Russia con l’Ucraina. Vista la caduta nell’inferno autoritario cinese di Hong Kong, è bene non ripetere lo stesso copione con Taipei. Anche perché Taiwan è lo stato più importante nel mondo nella produzione e distribuzione di semiconduttori, essenziali per il funzionamento della tecnologia globale. E dopo l’impegno degli Usa in Europa a difesa di Kiev è normale che Washington si aspetti collaborazione nel caso in cui Pechino dovesse assumere una postura aggressiva contro Taipei.
La seconda questione già iscritta nell’agenda è l’attuazione del Pnrr. Lo abbiamo ripetuto in tutte le salse. L’Italia è il paese maggiormente privilegiato dai finanziamenti del Next Generation Eu. I motivi sono due. Uno esplicito: l’Italia è il paese colpito per primo e con maggiore virulenza dall’ondata pandemica del 2020. L’altro implicito: la traballante tenuta dei nostri conti pubblici fa, del nostro, un paese a rischio, ma l’Ue non può permettersi il tracollo di una delle economie più forti del continente. Il Recovery Fund pertanto attribuisce all’Italia, dal 2021 al 2026, ben 200 miliardi di euro (parte in forma di sovvenzioni e parte in forma di prestiti) che servono per ristrutturare la nostra economia. Entro la fine di quest’anno l’Italia deve centrare 102 obiettivi per un totale di 40 miliardi. Non proprio una passeggiata, visti gli standard di efficienza della nostra politica e della nostra amministrazione. Lo sa bene l’Europa che, proprio l’altro ieri, ci ha fatto sapere che, sì, va bene, il patto di stabilità sarà sospeso per un altro anno, proprio in considerazione dell’imprevista emergenza guerra, ma ciò non vuol dire che l’Italia possa rilassarsi. Come Cipro e la Grecia, il nostro paese soffre di squilibri macroeconomici eccessivi. La conseguenza è che Roma deve limitare la spesa corrente e impegnarsi per la discesa del debito pubblico. E, soprattutto, non deve rallentare il percorso delle riforme segnato dal Pnrr: fisco, lavoro, pensioni, giustizia, pubblica amministrazione, concorrenza.
Rispetto a questi due punti dell’agenda come si collocano i partiti italiani? Quale tipo di consenso cercheranno in vista del 2023? E, di conseguenza, che cosa possiamo aspettarci da loro nel corso della campagna elettorale appena cominciata?
La differenza è ormai sotto gli occhi di tutti. Da una parte, ci sono quelli che seguono la linea ‘Mattarella’, ordinati e coesi a sostegno dell’impegno euroatlantico in Ucraina e dell’impegno riformatore per l’attuazione del Pnrr. Dall’altra, ci sono quelli che seguono una linea da imprevedibili mattacchioni, in ordine sparso verso un futuro incerto e rischioso. Quelli che vorrebbero i soldi dell’Europa, ma continuano a difendere le rendite dell’elettorato di riferimento, dai balneari ai sommersi del catasto. Quelli che si sono convertiti alla pace e regalerebbero volentieri Kiev a Putin pur di non avere altre scocciature dopo le rogne della pandemia. Quelli che vorrebbero cacciare gli Usa dalla Nato e cianciano di autonomia dell’Europa, ma non vogliono spendere soldi per le armi necessarie alla difesa fino ad oggi garantita dall’America. Quelli che promettono mance e auspicano scostamenti di bilancio, tanto poi chiederemo alla Ue di tappare le voragini dei conti pubblici. Quelli che, dopo aver detto di no a tutto nel nome della decrescita felice, oggi sbattono il muso contro le fragilità del nostro sistema di produzione e di approvvigionamento energetico.
Variamente assortite, queste tendenze autolesionistiche che si mettono al disperato inseguimento dell’elettorato, a volte per difenderne il portafoglio a volte per assecondarne l’ideologia, si ritrovano soprattutto in alcune formazioni. Ma – ammettiamolo – sono ben distribuite su tutto l’arco parlamentare, in una sorta di bipolarismo sommerso e obliquo. Il governo non è a rischio perché nessuno ha in mano una carta alternativa. Ma sarà molto complicato assemblare coalizioni coerenti se queste spinte centrifughe e sgangherate saranno – come sono – trasversali. Nemmeno una legge elettorale di stampo proporzionale (del tutto ipotetica oggi) potrebbe risolvere questi problemi: semmai moltiplicherebbe la frammentazione dei partiti a scapito del potere di scelta dei cittadini sul governo e farebbe del prossimo parlamento una nuova maionese impazzita.
In questo momento i partiti che, per una questione di numeri, sembrano destinati a fare da perno al bipolarismo futuro possibile sono il Pd e Fratelli d’Italia. I loro leader, Enrico Letta e Giorgia Meloni, pur provenendo da due universi paralleli, sembrano condividere lo schema di gioco. Il che non è affatto poco, vista l’aria che tira. Il tempo ci dirà se saranno in grado di chiudere la partita a loro vantaggio. E soprattutto a vantaggio dell’Italia. Se dovessero fallire, c’è sempre un inquilino al Quirinale, appena riconfermato, forte di un mandato pieno e durevole. Che, stavolta, non dovrebbe inventarsi nulla: l’usato sicuro c’è già.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).