di Nicolò Addario
L’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta ha testualmente dichiarato: “non si può prendere una batosta del genere alle elezioni e ripartire come se nulla fosse, insultando gli altri e pensando a regolare vendette interne” (Corriere della Sera, 16/09/18). Solitamente non concordo con le valutazioni di Letta, il cui governo si caratterizzò per un anno e mezzo di sostanziale immobilismo, quasi sicuramente perché accettava i veti che provenivano da questo o quel membro di quella stessa “oligarchia” interna al PD con cui ha dovuto fare i conti anche Renzi.
In questo caso, tuttavia, Letta dice una verità, per quanto ovvia. Sia Renzi che i suoi alleati nulla dicono sul perché di quella batosta.
A sinistra si ripropone il solito ritornello generico sulle disuguaglianze. Qualcuno arriva persino a sentenziare che “il capitalismo ha finito la sua spinta propulsiva” (è dai tempi di Marx che si fanno simili affermazioni: a ogni crisi, piccola o grande, c’è sempre qualcuno che profetizza la fine del capitalismo). Oggi qualcuno vede forse qualche alternativa, a parte il caos? Magari alla Chavez-Maduro?
Ad ogni modo, indipendentemente da come la si pensi, resta il fatto che l’alternativa di “sinistra-sinistra” (Leu), ha anch’essa perso clamorosamente. La cosa, oltretutto si ripete sin dai tempi dei Rifondazione Comunista (in tutte le sue versioni). Cosicché, se il PD ha perso perché con Renzi è diventato di destra, perché perde anche la sinistra-sinistra sino a diventare una formazione politica irrilevante?
La “colpa” di aver intaccato il consociativismo spartitorio
A me dunque pare che per realismo la domanda giusta per il PD dovrebbe essere: perché nel Centro-nord (specie nelle regioni “rosse”) il voto ex-PD si è spostato verso la Lega, che è di destra, mentre nel Sud è andato massicciamente ai 5 Stelle che hanno promesso l’impossibile? Più in generale, come è stato possibile che una fetta importante del “popolo di sinistra” si sia spostato su proposte populiste anche chiaramente di destra?
In altra occasione ho provato ad abbozzare una risposta che rimanda agli esiti culturali – cioè al tipo di aspettative consolidate – di quel consociativismo spartitorio (prima occulto, poi palese) che veniva praticato dalla diarchia comunisti-democristiani e che non è stato mai veramente abbandonato durante la confusa stagione della cosiddetta Seconda Repubblica (nonostante qualche timido tentativo dell’Ulivo).
Solo il governo Renzi, a mio parere, ha provato a spezzare questa traiettoria, responsabile del declino economico in atto da più di dieci anni e di un debito pubblico che non si smuove dal 130% del PIL (è dai primi anni novanta che ha superato il 100%). Ci sono forti indizi che suggeriscono che siano state proprio le riforme Renzi-Gentiloni a mutare molto e di colpo l’orientamento di voto, anche se l’erosione inizia prima.
La crisi della socialdemocrazia europea
Qui vorrei provare ad affrontare una questione più generale riguardante il rapporto tra democrazia e populismo. Essa può illuminare ulteriormente la tesi appena accennata. Come ha infatti brillantemente sostenuto Jan-Werner Müller (2018), il populismo “è l’ombra permanente” della democrazia liberale. Per ragioni che dirò, c’è stata una fase in cui questo non è stato chiaro, né in letteratura né tra i politici. Quella fase oggi si è chiusa e tutti i nodi insoluti stanno venendo al pettine, con grande pericolo per la democrazia stessa.
A volte, sentendo parlare i nostri politici, si ha la sensazione che vengano in realtà dalla stella Vega, che ci raccontino cose che riguardano altri pianeti. In alcuni casi, non in tutti, non dicono cose sbagliate, tutt’altro! Ma si tratta di discorsi che restano astratti, perché nascono staccati dalle ragioni (storiche e contingenti) del declino dei partiti tradizionali. Non vedono (o fanno finta), per esempio, che c’è un grave problema che riguarda la socialdemocrazia europea e che questo problema è l’altra faccia del populismo in Europa.
Peraltro, proprio il fallimento di Leu (ma anche di liste che riproponevano qualcosa di simile all’Ulivo) dovrebbe suggerire la vera domanda: com’è possibile che il “popolo di sinistra” abbia votato i populisti (di destra e di sinistra, ammesso che i 5 Stelle sia di sinistra) quando avrebbero potuto voltare almeno la sinistra-sinistra? La risposta non è (come invece crede il “partito” di Repubblica) perché i 5 Stelle sono di sinistra. I 5 Stelle sono populisti, ne hanno tutte le caratteristiche e il populismo è pericoloso, assai più di quanto il nostro ceto politico non sospetti (a sentire i loro interventi).
Non è peraltro un caso se una certa cultura di sinistra (anche dentro il PD e ben rappresentata da Repubblica) indulge a considerare i 5 Stelle di sinistra o comunque una forma “buona” di populismo. Come ho detto, l’equazione “il PD ha perso perché ha fatto politiche di destra” è sbagliata. Semmai un’equazione più corretta sarebbe “il PD ha perso perché ha cercato di fare delle riforme vere”, riforme che hanno toccato diversi e diffusi interessi (nel mercato del lavoro, nella P. A., nella scuola).
Si dovrebbe aggiungere che ha perso anche perché ha sottovalutato molto gli effetti dell’immigrazione. Sottovalutazione che nasce dal fatto che su questo terreno non ha seguito un approccio pragmatico, ma un approccio valoriale (come ho mostrato altrove, l’approccio valoriale, in quanto ha in mente “fini ultimi” morali, ignora le più generali conseguenze ai diversi livelli sociali). Anche l’equazione più corretta, però, non spiega da sola perché hanno vinto i populisti.
L’avanzata dei populismi accomuna tutto l’Occidente sviluppato
In generale, quello italiano è solo un caso particolare di avanzata dei populismi in tutto l’Occidente sviluppato. Da Trump alla Brexit, dall’Ungheria alla Polonia, dalla Grecia alla Francia, dall’Olanda alla Germania e persino alla Svezia, il populismo avanza in forze, anche se non sempre riesce a governare.
Nell’avanzata del populismo, molti osservatori vedono però qualcosa di molto inquietante. Perciò un intellettuale particolarmente propenso all’ottimismo come Ronald Ingleart (il teorico dell’affermazione dei valori “post-materialisti”) si è chiesto “Can Democracy Save Itself?”.
C’è da chiedersi quanto i partiti tradizionali (specie quelli di sinistra) siano consapevoli di questo pericolo e del fatto che tra le masse, proprio le meno istruite e meno interessate, i principi liberali e la loro importanza per la salvaguardia della stessa democrazia non hanno affatto radici solide.
Per affrontare tale questione occorre però prendere di petto una sorta di tabù (specie a sinistra, dove si dà per scontato che almeno il “suo popolo” sia necessariamente progressista, pluralista se non cosmopolita). Questo tabù riguarda la domanda: quanto è consapevole il popolo del legame tra democrazia e liberalismo? Già questa stessa domanda, in realtà, dà per scontata qualcosa di assai più elementare che riguarda la competenza politica dei cittadini.
È bene perciò precisare subito un punto decisivo. L’analisi che propongo non va vista come una sorta di dichiarazione di resa, che, “se le cose stanno come stanno, allora non c’è niente da fare”. Al contrario. La mia intenzione è piuttosto di suggerire che, se vogliamo evitare di andare a sbattere (e già si vede chiaramente che invece che a una discussione aperta e razionale il congresso servirà solo a una resa dei conti), occorre partire da una comprensione delle ragioni della sconfitta.
Non si avrà però alcuna vera comprensione se non inquadreremo questa analisi, da un lato, nelle eredità sociali, economiche e culturali del consociativismo spartitorio (che riguardano tanto la destra e il centro quanto la sinistra) e, dall’altro lato, in questo contesto di un’avanzata del populismo in tutto l’Occidente. C’è qualcosa di questa fase storica occidentale che ricorda quanto accadde prima e dopo la I guerra mondiale. E questo ghiaccia il sangue.
Il popolo sa quello che fa?
Partiamo da fatti empirici. Da tempo è noto, e ribadito da ricerche recenti, che il grosso dell’elettorato sia in realtà assai poco interessato alla politica e, soprattutto, largamente incompetente e disinformato su questioni politiche anche assai semplici. Persino quanti risultano almeno informati si mostrano, piuttosto di frequente, prevenuti, partigiani a prescindere (sulla letteratura empirica precedente il nuovo millennio si veda Campus; più recentemente: Brennan, 2018; Somin, 2004 e 2015; Elchardus e Spruyt, 2017; sul rapporto tra propensione al populismo e voto socialista, oltre che ai partiti di destra populista, in Olanda si veda Akkerman, Mudde e Zaslove, 2014).
Questo aspetto della politica democratica (peraltro noto almeno dai tempi di J. S. Mill) nel secondo dopoguerra è sempre rimasto confinato nel dibattito tra esperti (specie di comportamento elettorale). Dopo tutto, sembrava che ciò non avesse effetti negativi, dato che tutte (o quasi) le democrazie mostravano di funzionare abbastanza bene, anche perché i partiti (senza per questo cadere nel leninismo) sembravano sapere, a lume di ragione, cosa fosse necessario fare per salvaguardare il sistema e riuscivano a tenere in pugno la situazione (anche contro i partiti antisistema).
Questo però, sembra sia in realtà dipeso molto da un insieme particolare di circostanze, emerso con la fine della seconda guerra mondiale e che è via via venuto meno, soprattutto dopo il crollo dell’URSS e dei suoi satelliti. A tale nuovo contesto mondiale si è inoltre sommato l’impatto della globalizzazione, che ha certo tirato fuori dalla fame e dal sottosviluppo centinaia di milioni di persone (Roser, 2018), ma in un quadro in cui l’Occidente ha comunque rallentato la sua crescita (dove più, come in Italia, dove meno).
Questo sembra aver avuto una causa endogena nella caduta del tasso di produttività del lavoro (molto forte in Italia rispetto agli altri paesi) e forse anche in un importante spostamento di capitali verso la finanza a scapito degli altri settori con assai più alta occupazione (Antolin-Diaz, Drechsel, Petrella, 2017; Piketty, 2014). E’ soprattutto così che si spiegano le accresciute disuguaglianze (Franzini e Pianta, 2016; Piketty, 2014), le quali, però, di per sé non spiegano il successo così importate, e soprattutto progressivo, dei populismi.
Tutte le spiegazioni che rinviano per esempio a emozioni scatenate dalle difficoltà economiche (come il senso di insicurezza, la “rabbia” o persino l’odio) trascurano infatti che in società esse sono sempre necessariamente introdotte, plasmate e quindi incanalate tramite “antecedenti cognitivi” (Elster, 1999). Cioè propriamente culturali e direi persino storico-strutturali (per esempio, il senso di frustrazione per una condizione di prolungata disoccupazione, quale presupposto per una “mobilitazione” individuale, può nascere soltanto in un contesto in cui il lavoro salariato libero si sia generalizzato e si sia nel contempo affermata l’idea che il lavoro sia un diritto soggettivo, magari interpretato tramite un’idea di “lotta tra le classi”).
Ed infatti queste pulsioni possono essere argomentate, e quasi sempre lo sono (su questo si veda anche Müller, 2018: 23 e ss.) secondo precise modalità culturali e sono queste che orientano i comportamenti. Per esempio, tematiche socialiste o popolari, cosicché, su un tale presupposto dato per scontato, poi “spieghiamo” i risultati elettorali (una sorta di profezia che si autoavvera).
Per gli osservatori, la sorpresa scatta quando si produce un brusco e massiccio spostamento di voti da partiti di massa a nuove, in origine, piccole formazioni radicali, come quando, per esempio elettori cattolici, socialisti e anarcosindacalisti nel giro di assai poco tempo si spostarono in massa sul piccolo ma aggressivo partito fascista. Qualcosa di simile, per restare all’Italia, sta accadendo con la Lega e i 5 Stelle (che per i sondaggi oggi superano il 60% delle preferenze). Come spiegare questi repentini cambiamenti?
La democrazia come “cavallo di troia” del populismo
Cerchiamo di veder se si può dire qualcosa di sensato. Oggi nello spiegare l’affermazione populista molti tendo a privilegiare motivazioni ideologico-valoriali (per il caso della Brexit si veda Kaufmann, 2016) anziché economiche. Anche perché, quantomeno in Europa Occidentale, l’impatto della crisi economica è stato abbastanza mediato dal suo ampio welfare. Forse in questo il successo di Trump ha ragioni in parte differenti per il minor welfare americano. In ogni caso, per alcuni il senso di insicurezza sarebbe cresciuto a causa sì dei cambiamenti economici (robotica e tecnologie informatiche), ma in modo indiretto e non perché la maggioranza delle persone starebbe veramente soffrendo.
Le accresciute disuguaglianze, cioè, avrebbero mutato l’orizzonte temporale percepito rendendolo incerto e ciò a sua volta avrebbe inciso sui valori di riferimento (io parlerei di “frame temporale” con cui si valuta la situazione prospettica). In contesti di forte e accelerato innalzamento dell’immigrazione, questo a sua volta avrebbe indotto a privilegiare nuovamente i valori materialisti (sicurezza e ordine, esclusivismo etnico e nazionale) contro i valori postmaterialisti (cosmopolitismo, multiculturalismo tollerante e pluralista, individualismo progressista) (Ingleart e Norris, 2016), che sono valori in realtà molto legati al liberalismo. Le ricerche mostrano che l’impatto assai negativo dell’immigrazione (in termini di percezione) sia legato a differenze come metropoli/provincia, minore istruzione/più alta istruzione, abitudine o meno a interagire con stranieri e minoranze etniche, coorti d’età, tutte distinzioni concretamente spesso incrociate tra loro.
Peraltro, come ha osservato Somin (2004), con ciò si ampia un circolo vizioso, in passato solo coperto dalle accennate circostanze storiche: da una parte il gap di conoscenza, per lungo tempo privo di importanti conseguenze per il governo, non ha incentivato i politici ad approfondire cosa in realtà i cittadini vogliano, ma, dall’altra parte, la complessità politica va crescendo, inibendo sempre più la possibilità di raggiungere una comprensione accettabile delle politiche di governo e, io direi, più in generale quali conseguenze reali comporti una decisione invece di un’altra, se vi sono cose possibili e altre razionalmente non possibili ecc.
Ora, questi fenomeni di cultural backlash iniziano a divenire importanti a partire dalla crisi del 2007/8, anche se vi sono sommovimenti che datano da assai più lungo tempo. Diciamo allora che mentre le tendenze populiste in precedenza erano state sempre arginate o rese marginali, il recente successo di Trump in America e di vari partiti esplicitamente populisti in Europa ha evidenziato che la stabilità delle liberaldemocrazie era molto dovuta alla fase storica apertasi con gli esiti della guerra. In questa fase, mentre il potere di governo veniva assegnato in base ai risultati del voto popolare liberamente espresso, tale potere era comunque esercitato in modo competente tramite partiti professionali, trovando così un certo equilibrio rispetto alle pretese popolari.
Nei termini di Jason Brennan (2018) potremmo dire che ciò ha impedito che l’elettorato ottenesse proprio tutto ciò che avrebbe voluto, ma non per questo il sistema veniva delegittimato. Questo peraltro sembra assai meno vero per l’Italia, con una forte complicità dei partiti. Quella infatti che Valerio Castronovo (2018) ha chiamato “l’anomalia italiana” va fatta risalire al citato consociativismo spartitorio (ed è per questo che in Europa si diffida di noi).
Diciamo allora (ecco il tabù) che la democrazia può fungere da cavallo di Troia del populismo perché essa dà il poter di voto a tutti i cittadini in modo eguale e, poiché essi sono largamente incompetenti, disinformati e irragionevoli proprio su questioni politiche o su questioni assai importanti su cui la politica decide, cadono facilmente vittime della demagogia populista. Si potrebbe dire che siano naturalmente propensi ad abboccare all’amo populista.
La democrazia liberale impone limitazioni del potere
Prima però di chiarire cosa si debba intendere per populismo, e perché il suo successo è legato all’incompetenza politica, va precisato un punto preliminare. La tesi di Brennan e molti altri sull’incompetenza potrebbe essere così intesa: “questo qui ci sta dicendo che le democrazie liberali sono state fin’ora una finzione, che i realtà hanno governato élites privilegiate, di cui molte neppure elette, e dunque hanno ragione i populisti”.
Questo, per esempio, è ciò che in parte fa propendere Mounk (2018) a ritenere che si stia realizzando una dissociazione tra democrazia e liberalismo e proprio perché i governi competenti hanno sovente non tenuto nel giusto conto la volontà popolare. Non tanto per privilegiare gli interessi particolari di qualcuno (sebbene possa essere accaduto), ma perché molte importante decisioni dipendono da autorità non elette (o non direttamente) e da burocrazie indifferenti alle domande popolari.
Questa peraltro è solo parte di una questione molto più complessa. Non solo la politica è questione di per sé complessa, ma è la democrazia liberale a richiede una particolare e storicamente inusitata complessità. Mi riferisco alle libertà liberali (civili) le quali, tramite le costituzioni, impongono specifiche limitazioni del potere, specie quello di governo. Da un lato, la democrazia prevede la “sovranità popolare”, dall’altro lato, però, le costituzioni legano le mani sia al popolo sia ai suoi rappresentanti. Per esempio, imponendo la separazione tra poteri diversi (alcuni dei quali non elettivi), stabilendo una serie di bilanciamenti e controlli, rendendo possibili e persino necessarie Authorities dai grandi poteri. Soprattutto istituzionalizzando il ruolo delle opposizioni e proteggendole. Ciò proprio per impedire che si stabilizzi una sorta di “dittatura della maggioranza”.
Illiberali “nel nome del popolo”
I diritti soggettivi vanno protetti sempre, e dunque proprio quelli delle minoranze. Perciò populisti come Orban si dicono illiberali, ma nel nome del popolo, e i “vaffa day” di Grillo vanno nella stessa direzione! Come se le minoranze e le opposizioni in genere non fossero parte del popolo. Questa possibilità che la democrazia offre a demagoghi e populisti di ogni sorta di diventare una maggioranza che nel nome del popolo sopprime o limita le le libertà soggettive, come ho accennato poco sopra, non era stata ben compresa anche per le particolarità della fase storica.
Ovviamente, poiché le altre forme storiche di potere, dalla prospettiva peculiare della modernità, hanno rappresentato forme ingiuste, i movimenti democratici sorti intorno alla metà dell’Ottocento hanno costituito un importante fattore di cambiamento nella giusta direzione. Si deve peraltro rammentare che fu proprio col passaggio da regimi liberali a voto ristretto a regimi a suffragio universale che nei primi del Novecento si arrivò al crollo di alcune democrazie liberali. Fascismo e nazismo salirono al potere anche con l’importante concorso del voto popolare. Insomma, la storia insegna che il popolo può darsi la zappa sui piedi! In definitiva era il timore (sebbene forse non del tutto disinteressato) del liberalismo delle origini. Quello che da J. Locke arriva almeno a J. S. Mill e che in fondo, nel secondo dopoguerra, era ancora preferito da intellettuali come Berlin.
Ma è giunto il momento di precisare perché, nelle presenti condizioni, l’ignoranza prevalente negli elettori favorisca i populisti e quindi metta in pericolo la stessa democrazia.
Hobbit, Hooligan e Vulcaniani
Per sintetizzare circa cinquant’anni di ricerche sull’elettorato, Brennan propone una tipologia immaginifica ma assai efficace. I tre tipi sono costrutti ideali definiti da un insieme di caratteristiche che poi vengono confrontati con una serie di dati raccolti mediante indagini (solitamente) campionarie e ripetute. Si tratta di tecniche di ricerca ormai ben consolidate.
Il primo tipo è quello degli Hobbit (tratto dal Signore degli anelli di Tolkien). Sono persone che non si interessano di politica e sanno assai poco del mondo al di fuori di quello ristretto in cui vivono. Badano ai fatti loro e poco altro. Tra questi, molti si astengono dal partecipare.
Gli Hooligan invece sono più informati degli Hobbit e sono propensi a partecipare, ma sono come dei tifosi facinorosi: tengono solo per la loro squadra e spesso odiano tutte le altre. In particolare, tendono a ignorare tutti i fatti che potrebbero contraddire le loro idee e comprovare quelle degli altri. Un fenomeno che era stato individuato sin dagli anni cinquanta del Novecento e chiamato dissonanza cognitiva. Ci sono infine i Vulcaniani che combinano un’ampia conoscenza con una forte propensione ad un’apertura mentale raziocinante. Quantomeno si sforzano, di fronte a fatti e a ragionamenti logici, di tenere a bada emozioni e pregiudizi.
Ora, tutti i dati disponibili mostrano che la maggior parte degli elettori è costituita da un insieme di Hobbit e di Hooligan (o da figure intermedie) quali che siano i partiti per cui votano. Coloro che assomigliano ai Vulcaniani sono piuttosto pochi. Per spiegare questo dato di fatto, Brennan ricorre a un argomento che può farsi risalire a Schumpeter, poi sistematizzato e diffuso da alcuni economisti di politiche pubbliche: l’individuo comune non ha incentivi ad informarsi. Poiché il tempo è scarso ed è improbabile che (dalla prospettiva dell’individuo) un singolo voto faccia una qualche differenza, gli elettori, in modo apparentemente razionale, sono propensi a occuparsi d’altro anche se poi vanno a votare.
D’altra parte non è che la partecipazione, specie quella attiva in partiti, associazioni e gruppi conduca le persone ad assomigliare a dei Vulcaniani. Al contrario, essa tende a produrre degli Hooligan e a dividere la politica tra amici e nemici. Contrariamente a quanto sostiene la retorica democratica – dice Brennan – la partecipazione non produce cittadini modello, aperti al confronto e alla razionalità, ma qualcosa di simile a dei tifosi a volte facinorosi. In gran parte dell’Occidente questa condizione fino a qualche tempo fa era coperta e mediata dai grandi partiti di massa, i cui leader, però, si rispettavano reciprocamente rinviando a una sorta di sacralità del comune quadro istituzionale (le costituzioni liberaldemocratiche), che restava saldo nonostante la reversibilità delle maggioranze.
Per questo, come ha chiarito Dahl, per l’istituzionalizzazione del regime parlamentare e la sua incorporazione stabile nello stato (nell’Inghilterra tra la fine del XVII secolo e quello seguente) fu decisiva la comune accettazione, da parte delle élites (sociali e politiche), dei diritti d’opposizione e di manifestazione del dissenso (e quindi la stabile possibilità di alternanza di governo perché era garantito che l’altro non sarebbe stato soppresso). Questo fa capire l’importanza dei diritti civili (le libertà soggettive tipiche del liberalismo) rispetto allo stesso diritto di voto: essi sono il suo presupposto, il suo vero fondamento. Senza questo vero caposaldo la stessa libertà politica può rovesciarsi nel suo esatto contrario.
Per questo dalla metà circa dell’Ottocento si è associato il liberalismo alla democrazia. Ma sino a che punto il popolo è pervenuto al liberalismo? Sino a che punto vi è la consapevolezza diffusa che le libertà individuali vengano da un tale assetto politico-istituzionale liberale?
Va ricordato (ne ho già accennato) che in realtà le costituzioni e la prassi liberaldemocratica hanno introdotto numerosi elementi di epistocrazia tramite varie istituzioni costituite da esperti e autonome (Banche centrali, Corti costituzionali, Authorities varie, Commissioni parlamentari, burocrazie largamente autonome ecc.). Venuta meno, tuttavia, quella situazione particolare della fase storica di cui ho detto e nel quadro delle nuove difficoltà economiche e dell’emigrazione, proprio questo tipo di assetto, almeno in parte epistocratico e quindi poco influenzato dal voto, è messo seriamente in discussione dall’avanzata neo-populista.
Per Mounk, infatti, sarebbe a partire da questi elementi fuori dal controllo del voto popolare che la demagogia neo-populista può addossare tutta la colpa delle recenti difficoltà al potere della casta.
Il punto vero è che la politica democratica è questione assai complessa. Resta tale anche se, specie in alcuni momenti e in alcuni paesi, in effetti alcune élites (dalla grande finanza a quel 10% di popolazione che si appropria di buona parte della ricchezza prodotta), sembra abbiano utilizzato le loro posizioni per ottenere ulteriori privilegi proprio quando, per così dire, la torta da spartire si faceva (relativamente) più piccola. I politici hanno dunque commesso degli errori, nonostante la loro competenza (questo è più evidente negli USA). Tuttavia questa complessità è in buona parte il prodotto di quell’assetto pluralista e di equilibrio dei poteri che nasce dalle libertà (civili) individuali e le garantisce e che ora il populismo mette in pericolo proprio nel nome del popolo.
Un pizzico di demagogia ha sempre fatto parte della politica democratica, ma in genere, come si diceva, i partiti riuscivano poi a trovare dei giusti equilibri, ribadendo l’assetto pluralista liberale. Si pensi al welfare, specie quello europeo. In questo sono stati facilitati dalla notevole crescita economica fino ad almeno gli anni settanta. Le difficoltà sono iniziate da quando, come dicevo, i tassi di sviluppo del reddito nazionale hanno iniziato a calare (mentre quel 10% ha continuato a diventare sempre più ricco, per non parlare dell’1% arciricco: qui il merito c’entra solo sino a un certo punto).
Le ragioni del successo populista
Il punto vero resta comunque che le ricette populiste sono mera demagogia mentre incrinano il tradizionale assetto dello stato liberale. Ritorna quindi la domanda: come mai i populisti hanno successo, nonostante l’evidenza dell’impraticabilità delle loro “ricette” ultrasemplificate? O, peggio ancora, l’evidente pericolo che esse rappresentano sullo stesso terreno economico oltre che su quello civile e politico? Il cosiddetto sovranismo può innescare guerre commerciali (che in passato sono sboccate in guerre vere e proprie), e comunque crisi economiche e finanziarie ancora più gravi che certamente colpiranno soprattutto le fasce più basse e medio-basse della popolazione.
La più probabile risposta a questa domanda è che i populisti si fanno forza proprio delle caratteristiche di elettori Hobbit e Hooligan e che soprattutto tendono a trasformare i primi nei secondi puntando proprio sulla estrema semplificazione dei problemi e dividendo il mondo in due: da un lato il “vero popolo”, dall’altro lato i suoi nemici (interni: la casta; esterni: gli immigrati, l’Unione europea o qualche altro Stato).
Naturalmente, sono le classiche cure che uccidono il malato, ma il punto è che parte del “popolo” ci crede. Per questo la tesi di Brennan è di forte attualità. Lui non intende affatto sostenere che bisognerebbe dare il potere solo ai competenti. Vuole solo suggerire come provare a ridurre l’impatto di Hobbit e Hooligan. Non è una proposta normativa (valoriale), ma empirica. Anche sulla democrazia argomenta perché debba essere intesa in termini strumentali (un “martello”) e perché tutte le concezioni puramente valoriali siano invece da rigettare (in quanto astratte e/o inconsistenti). Questo peraltro è coerente con quanto sta accadendo: venute meno certe condizioni, è proprio il demos che può essere facilmente indotto a dare il potere a chi, per conservare il proprio potere, tenterà di ridurre o persino eliminare le libertà civili (come con i governi populisti di Polonia e Ungheria).
Molti studi ormai concordano che tutti i populisti hanno le seguenti caratteristiche:
1.
Solo i populisti affermano di essere i “veri” rappresentati del popolo.
2.
Tutti gli altri sono immorali e non sono popolo ma casta.
3.
Il popolo è posto come fosse un sol individuo, un individuo “immaginato” in una chiave mistico-metafisica (Arato 2013; Müller, 2018). Fu il concetto base del nazionalismo aggressivo e xenofobo a cavallo tra Otto e Novecento. A questo proposito va ricordato come in Europa (specie nell’area tedesca), tra fine Ottocento e primi Novecento, si usasse la parola socialismo per indicare l’unità mistica del popolo (Volksgeist) e non per caso il fascismo tedesco si chiamò nazional-socialismo. In Italia Mussolini – che come sappiamo veniva dal partito socialista – preferì strumentalmente usare il termine “fascio” per la stessa idea.
Questo concetto si era diffuso, specie in Italia, sin dall’Ottocento e tra l’altro proprio a sinistra. Poco prima della I guerra mondiale fu proprio il sindacato a dar vita ai Fasci d’azione rivoluzionaria, cui aderì Mussolini poco dopo la sua espulsione dal partito socialista. Il termine fascio si diffuse anche a destra tra nazionalisti, irridentisti, ex-combattenti, futuristi. Finché nel 1919 Mussolini fondò i Fasci italiani di combattimento. Il fascio era insomma il simbolo (ripreso dai fasci littori dell’antica Roma) ad un tempo dell’unità degli associati e del potere che essi esprimevano come un’unica volontà (che si riassumeva, si diceva, nel modo più puro e avanzato nel suo “capo”).
Nella sua semplicità quasi popolaresca, questa idea aveva tuttavia basi apparentemente solide nella filosofia idealista e nello storicismo, che non a caso prese piede proprio in paesi (come Germania e Italia) che arrivarono tardi alla modernità e tramite “rivoluzioni dall’alto” autoritarie e accelerate. Il successo tanto dei movimenti di estrema destra quanto di quelli ispirati dal marxismo in questi paesi è stato dovuto, proprio nei suoi sbocchi tragici, alla carente e affrettata inclusione democratica delle masse nel sistema politico. Masse che si rivelarono molto propense verso quel tipo di populismo antiliberale, anche se poi dovettero pentirsene (assai meno socialisti e comunisti che nel secondo dopoguerra coltivavano ancora il mito della rivoluzione sovietica).
Era ovviamente un populismo anche antidemocratico. Ma quella era ancora un’epoca in cui i due termini (democrazia e liberalismo) apparivano indissociabili agli stessi populisti. Cosicché il rifiuto del liberalismo coincise con il rifiuto della democrazia (anche a sinistra). Poiché tutti si richiamavano al popolo, seppur ideologicamente nella chiave mistico-metafisica che si è detto, forse sarebbe giusto chiamarle dittature cesaristiche-popolari (uno slogan tipico del nazismo era “ein Volk, ein Reich, ein Führer”). Il punto chiave, dunque, è che senza le libertà liberali la “volontà popolare” in concreto si svuota, diventa plebiscito, a iniziare dalla negazione della libertà di opposizione (perché non è “vero popolo”, ma il suo nemico).
I populisti di oggi, però, tendono astutamente a contrapporre democrazia a liberalismo. Dopo le evidenti catastrofi di tutti i totalitarismi (a iniziare dalla varie “rivoluzioni”) e più di settanta anni di stabilità democratica è assai più accattivante inneggiare alla democrazia, opponendo il “popolo” alla “casta” e aggredendo quelle istituzioni peculiari del liberalismo che – affermano i populisti – proteggono e danno potere alla casta.
4.
Sono appunto i populisti, anche quelli d’oggi, che definiscono “chi” è popolo e “chi” è invece membro o sodale della casta. Sono sempre loro, dunque, che definiscono volta per volta cosa sia il “bene” del popolo. Poiché il popolo non può sbagliare ed essi si dicono gli esecutori della volontà popolare, non possono essere mai smentiti (neppure sul piano dei fatti, fatta salva una catastrofe immane). Inizialmente, anzi, sono proprio i loro fallimenti che li “autorizzano” a chiedere sempre maggior potere contro la casta che complotta e sabota.
5.
Nel frattempo i populisti occupano con i loro fedeli lo stato in tutte le sue diramazioni, comprese quelle epistocratiche (per l’Italia, dove siamo solo al principio, si veda Cassese, Corriere della Sera del 17/09/18). In questo modo, sempre nel nome del “vero” popolo iniziano a svuotare le istituzioni liberali. Senza autonomia e indipendenza, infatti, esse in sostanza ubbidiscono al governo. Ovviamente essi dicono di ubbidire al popolo (quello “vero”) e quindi nessuno può veramente smentirli. L’unica verità ammessa è quella che loro dicono essere la verità, e questa è l’anticamera del totalitarismo.
Ribadiamo che non stiamo contrapponendo il comune cittadino a chi sa. Ma la competenza politica (sottolineo politica, da distinguere da quella tecnico-scientifica) è assai rilevante per la stessa democrazia, e competenza significa soltanto che, da un lato, occorre avere la consapevolezza dei limiti che tanto la società nel suo insieme quanto la politica (liberale) pongono alla politica (la quale può dunque fare solo alcune cose). Dall’altro lato, dovremmo ricordarci che la storia ha già conosciuto la distruzione di liberaldemocrazie in passato col consenso popolare tramite forme di populismo.
Ovviamente, ogni epoca ha un suo tipo di populismo, ma come abbiamo appena visto, gli aspetti di fondo del populismo di allora si ritrova in quello di oggi. Allora fu largamente sottovalutato. Proviamo a non cadere in un errore analogo. Per cercare d’individuare cosa sia meglio fare oggi ed evitare gli errori del passato si dovrebbe partire da questi dati di fatto.
BIBLIOGRAFIA
Addario N. (2018) Perché il PD ha perso
Akkerman A., Mudde C. e Zaslove A. (2014) How populist are the people? Measuring populist attitudes in voters, in “Comparative Political Studies”, 47, 9, pp. 1325-53
Antolin-Diaz J., Drechsel T. e Petrella I. ((2017) Traking the slowdown in long-run GDP growth, in “The Review of Economics and Statistics”, 99, 2, pp. 343-356
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Full Professor presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dell’Economia. Ha insegnato presso l’Università L. Bocconi di Milano, l’Università Statale di Milano, l’Università Statale di Pavia. Ha studiato presso il Dipartimento di Sociologia della Temple University di Filadelfia (USA) con una borsa NATO. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche.