di Stefano Ceccanti*
Mi limiterò a segnalare 3 spunti.
Il primo è il ruolo giocato dalla politica e dalle istituzioni nella polarizzazione estrema esistente oggi negli Usa.
Politica e istituzioni stanno solo riflettendo una polarizzazione che preesiste o la stanno rafforzando? Mi sembra, specie dopo la recente sentenza della Corte, come già spiegava il Presidente Amato, che sia vera la seconda linea interpretativa. Tanto più che la Corte avrebbe potuto risolvere il caso salvando la legge statale restrittiva che era oggetto del ricorso senza sconvolgere i propri precedenti, come aveva proposto nell’opinione concorrente il Presidente Roberts. Si potrebbe obiettare: ma il tema, l’aborto, non porta con sé uno scontro inevitabile?
Le esperienze europee dimostrano il contrario. Anzitutto nella regolazione in sé perché i modelli europei cercano di mettere insieme politiche sociali pro vita e legislazione penale che ammette entro certi margini la scelta della donna: vita e scelta non si oppongono drasticamente come principi non negoziabili che si escludano a vicenda. Lo dimostrano anche rispetto ai sistemi di partito. Basti pensare che in Francia fu la maggioranza di centrodestra, nel settennato di Giscard, col ruolo decisivo di Simone Vel a varare la legge sull’aborto in un quadro consensuale, ma anche in Italia le cose si svilupparono in modo sostanzialmente consensuale. Oggi ricordiamo giustamente Antonio Zorzi Giustiniani, ma vorrei segnalare anche un altro docente di Scienze Politiche di Pisa, don Silvano Burgalassi, che ci segnalava profeticamente a lezione a Sociologia 1 quanto aveva appena scritto nel suo volume “Uno spiraglio sul futuro”: le forze politiche in Parlamento erano state capaci di realizzare un compromesso in cui si riconoscevano due italiani su tre per cui se qualcuno avesse voluto colpire la legge con un referendum abrogativo comunque congegnato non avrebbe potuto comunque raccogliere sul Sì non più di un terzo dei consensi. Come puntualmente accadde l’anno successivo. Certo, a prima vista, come accadeva frequentemente nel primo sistema dei partiti, non tutti i partiti che avevano partecipato attivamente al negoziato alla fine votavano Sì: di solito era il Pci ad astenersi o a votare contro per non scontentare il proprio retroterra più tradizionale, pur avendo ampiamente concordato sui contenuti, quella volta lo fece la Dc. Tanto è che quando furono proposti al voto simultaneamente due quesiti opposti nel 1981, quello liberalizzante dei radicali e quello restrittivo del Movimento per la Vita, larga parte del mondo cattolico democratico fece una campagna più centrata sul No al referendum radicale difendendo la legge che non sul Sì sull’altra scheda. Da rilevare poi che si era a tal punto creato un consenso forte, rafforzato negli anni successivi, che non vi furono mai più tentativi di ampliare di nuovo la sfera della punibilità della donna e che la Corte bocciò nel 1997 l’unico tentativo in senso opposto. Con la sentenza 35/1997 fu dichiarato inammissibile un referendum radicale che era il medesimo su cui si era votato nel 1981. La Corte presidiò quindi con forza l’equilibrio trovato dalla politica nelle istituzioni e confermato dagli elettori.
Il secondo spunto che vorrei proporre è la differenza qualitativa della polarizzazione che colpisce i due grandi partiti americani.
Mi potrebbe forse fare velo la mia posizione politico-ideologica, nel qual caso me ne scuso, però almeno a prima vista mi sembra che la polarizzazione del Pd a sinistra sia squisitamente politica mentre quella dei Repubblicani a destra si saldi a una grave strumentalizzazione delle istituzioni. Di fronte al fatto che la tradizionale componente bianca della società americana si stia riducendo, i Repubblicani, anziché fare come in un’altra fase storica seppero fare i Tories inglesi, non cercano di uscire dal fortino per attrarre le varie minoranze, ma cercando di allontanare queste ultime dalle elezioni, come spiegato dal prof Clementi, e di utilizzare le caratteristiche istituzionali che consentono di sovrarappresentare la propria minoranza (la sovrarappresentazione dei piccoli Stati al Senato e nel collegio elettorale presidenziale, la durata vitalizia dei giudici che consente di dimettersi quando arriva alla Presidenza un Capo dello Stato di analogo orientamento per perpetuare la composizione esistente). Il Partito Repubblicano cambia natura e questo si riverbera pesantemente sulle istituzioni.
Il terzo spunto è relativo alla regressione in materia di diritti.
Tutti gli overruling precedenti potevano forse essere ricondotti a movimenti sociali, culturali, politici della società americana che portavano ad avanzamenti sul terreno dell’interpretazione costituzionale, certo conflittuali con chi continuava a sostenere le posizioni tradizionali, ma sempre in questa logica. Qui invece la motivazione dell’overruling è esplicitamente rivolta a negare diritti precedentemente riconosciuti (non ad affinare, a produrre un diverso equilibrio senza negarli tout court). E’ accettabile? Non siamo forse dentro una di quelle forme di regressione, di svuotamento interno delle democrazie che portano con sé questo nuovi sovranismi, come argomenta Sergio Fabbrini? Con una differenza in peggio rispetto ai sovranismi europei e che si riallaccia al punto precedente: i sovranisti europei cercano di poggiare su effettive maggioranze elettorali, qui invece si tratta di una minoranza elettorale che può diventare maggioranza solo rispetto a vari artifici.
L’insieme dei tre spunti mi sembra ci consegni un ritratto preoccupante dell’odierna democrazia americana.
*Intervento alla tavola rotonda del convegno Zorzi Giustiniani del 27 giugno 2022
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.