di Alessandro Maran*
In un mondo in cui le minacce al sistema liberale non sono morte con Trump, il Quirinale assume un valore ancora maggiore. Appunti per Pd e centrodestra
Da Pertini in poi, la presidenza della Repubblica è l’unica istituzione davvero popolare, resta la più longeva e gode di poteri (molto dilatati negli ultimi decenni) in grado di sovrastare ogni altro potere, al punto che il presidente, come nella Costituzione della Quinta Repubblica francese, emerge ormai come “giudice supremo dell’interesse nazionale”. Da quella posizione, inoltre, come nel gioco degli scacchi, è possibile controllare il ritmo e la direzione della partita. Non per caso, il controllo della più importante casella della scacchiera è un punto fondamentale della strategia del Pd per romanizzare i barbari (“il metodo Franceschini” di cui ho parlato qualche tempo fa: “Ecco i barbari romanizzati”, il Foglio del 12 luglio 2020).
Non c’è da stupirsi che il Quirinale sia, perciò, la preda più ambita: in ballo ci sono parecchie cose. Proviamo a ricapitolare. Tre anni fa (tre anni fa, non trent’anni fa) la stragrande maggioranza degli italiani ha votato formazioni politiche che volevano mettere in discussione la permanenza dell’Italia nell’euro e nella Nato. Secondo Steve Bannon, lo stratega che aveva portato Donald Trump alla Casa Bianca, le elezioni del 4 marzo 2018 avevano addirittura trasformato l’Italia nel “centro del mondo in rivolta”. Oggi quelle stesse formazioni politiche (e, a quanto pare, la stragrande maggioranza degli italiani) sostengono un governo esplicitamente europeista e atlantico. La spettacolare conversione liberale ed europeista di Di Maio è forse il simbolo più eloquente della giravolta compiuta dai peronisti di casa nostra. Che cosa è successo? In tanti, come d’abitudine, ripeteranno le solite sciocchezze anti casta: anche i nuovi arrivati non vogliono mollare le poltrone, le auto blu, ecc. Ma la verità è che i professionisti della ribellione contro i “vincoli” del governare si sono scontrati con la realtà. E non si tratta solo dei vincoli europei, dello stato di diritto, del bilancio pubblico. Il fatto è che abbandonare quell’ordine mondiale che ci ha consentito lo straordinario sviluppo del Dopoguerra non è possibile. O meglio, si può ma il prezzo da pagare sarebbe altissimo. Per dirla terra terra, per cambiare le alleanze che derivano dalla Seconda Guerra Mondiale bisogna fare una guerra. Certo, Trump aveva offerto una sponda ai populisti. Bannon ha spinto addirittura per la formazione di una sorta di internazionale nazional-sovranista (con la benedizione e i fondi dei russi) che doveva difendere i valori “autentici” dell’occidente e dunque scardinare l’Europa, restituire sovranità agli stati, tornare ai confini, sbarrare la strada all’immigrazione e sconfiggere l’islam radicale. Ma il suo piano è andato in fumo e Trump (per ora) ce lo siamo levato dai piedi.
Il fatto è che rovesciare l’ordine liberale non è così facile. Certo, grazie agli incredibili progressi che abbiamo registrato da quando quell’ordine si è imposto, siamo arrivati a considerare la pace, la sicurezza, la democrazia, il benessere come se fossero cose normali: la mera conseguenza dell’evoluzione del genere umano. E abbiamo perso di vista quanto quest’ordine internazionale sia costato, i mali a cui ci ha sottratto e ci sottrae e, come ricordava Bob Kagan, “quale atto di sfida alla storia e persino alla natura umana” abbia rappresentato. Eppure, non sarebbe male ricordare che l’antifascismo (come hanno rimarcato, ad esempio, Beppe Vacca e Franco De Felice) non ha riguardato solo la storia d’Italia ma, appunto, i caratteri del nuovo ordine mondiale generato dalla guerra. Ciò che rese possibile la formazione della coalizione antifascista (con l’iniziativa di Roosevelt di gettare tutto il peso dell’America nel conflitto, di allacciare una alleanza con l’Urss, di tracciare nella Carta atlantica una prospettiva nuova, una volta eliminati nazismo e fascismo, per i paesi europei e per il mondo nel Dopoguerra) non fu solo la minaccia del dominio hitleriano, ma anche la convinzione che, con la sconfitta del fascismo, si potesse instaurare un ordine internazionale fondato sull’interdipendenza economica e su relazioni politiche multilaterali; la convinzione che questo avrebbe consentito di diffondere la crescita economica, ma anche di favorire, a livello nazionale, la combinazione di sviluppo e democrazia. Il programma dell’antifascismo mirava, insomma, a generalizzare le esperienze riformistiche degli anni 30 (il New Deal negli Stati Uniti, i primi governi socialdemocratici in Inghilterra, Svezia, Belgio, ecc.) e a ridisegnare gli assetti mondiali secondo il principio dell’interdipendenza; e questo programma in occidente favorì l’intreccio fra sviluppo dei consumi e crescita della democrazia e generò la costruzione dell’Unione europea, un disegno e una strategia alternativi a quella di Versailles, il trattato che pose ufficialmente fine alla Prima Guerra Mondiale. La filosofia di Versailles era semplice: se metti il nemico di ieri ai tuoi piedi e gli impedisci di svilupparsi militarmente (col disarmo forzato) ed economicamente (con le sanzioni punitive), questo non sarà più una minaccia. Ma quel disegno fallì e aiutò, in Germania, il nazionalsocialismo a mobilitare l’opinione pubblica in suo favore. Lo spirito del progetto di integrazione europea non è perciò quello di mettere il nemico di ieri (i tedeschi e poi, dopo il crollo del Muro di Berlino, i paesi ex comunisti) ai nostri piedi, ma quello di stringerlo a noi con tanto calore che ogni guerra diventi “non solo impensabile, ma di fatto impossibile”. E in questo disegno, la guerra sarebbe stata impensabile e impossibile non perché Francia e Germania avrebbero sottoposto la produzione di carbone e acciaio a un’Alta autorità; la guerra sarebbe stata impensabile e impossibile a causa del livello di interdipendenza che si sarebbe creato tra gli stati della nascente comunità.
In un passaggio della bella “biografia politica” che Tonia Mastrobuoni ha dedicato ad Angela Merkel, la giornalista racconta delle pressioni sempre più forti che, nella fase più difficile del negoziato europeo sui piani di rilancio post pandemia, arrivarono dalle fabbriche di automobili, il cuore del motore industriale tedesco (uno dei motivi per cui Merkel cederà sul Recovery Fund e sui bond comuni per finanziarlo). “Herbert Diess, il potente capo di Volkswagen, e i suoi colleghi di Bmw e Daimler sono costretti – racconta Mastrobuoni – a spiegare alla cancelliera, ad aprile, che le fabbriche tedesche ‘non possono riaprire’ finché non verrà sospesa la chiusura amministrativa di quelle italiane. Senza la componentistica che arriva dal Piemonte, dall’Emilia o dalla Lombardia, nessuna Mercedes può completare il suo percorso nella catena di montaggio. E Diess si dice pubblicamente favorevole agli eurobond, i titoli comuni per finanziare una ripartenza che altrimenti rischia di morire in culla”. La pandemia, in altre parole, si è rivelata “una salvifica lezione su quanto l’Europa sia ormai connessa e interdipendente”.
Va da sé che gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo centrale nella creazione di questo ordine. La loro posizione geografica, la loro ricchezza, il fatto di non doversi preoccupare degli attacchi dei vicini gli hanno permesso di dispiegare in modo permanente le loro truppe all’estero, mettendo fine ai conflitti nelle due zone più critiche del mondo: l’Europa e l’Asia orientale. E’ stato questo sforzo a creare le condizioni che hanno permesso si realizzasse quell’ordine “anomalo” nel quale siamo vissuti. E la trasformazione del Giappone e della Germania, che da potenze militari e dispotiche sono diventate potenze economiche pacifiche e democratiche, ha rappresentato forse la rivoluzione più significativa nelle relazioni internazionali (più ancora del confronto tra Stati Uniti e Unione sovietica nel corso della Guerra Fredda).
Sfortunatamente, come sappiamo, gli Stati Uniti si stanno allontanando da quello che finora era stato l’obiettivo tradizionale della loro politica estera. E’ da tempo che, una dopo l’altra, le amministrazioni Usa fanno a gara per rassicurare gli americani che baderanno alla politica interna, occupandosi di politica estera il meno possibile. Il che significa che, per dirla con Angela Merkel, “noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani”. E non sarà facile. Ma siamo ancora in grado di ricacciare indietro le spinte illiberali. Finché l’interdipendenza (economica, legata alla sicurezza, alla salute, all’ambiente) continuerà a crescere, le persone e i governi saranno spinti a lavorare insieme per risolvere i problemi e per evitare guai seri. Insomma, per essere decente, l’ordine mondiale deve essere liberale. Questa è la realtà di oggi, le condizioni storiche con le quali dobbiamo fare i conti. E l’Italia è forse il sismografo più sensibile ai cambiamenti del quadro internazionale. Fateci caso: Conte rassegna le dimissioni pochi giorni dopo il giuramento di Joe Biden.
In questo contesto, se il Pd resta il perno del sistema politico italiano, un partito “obbligato” a governare non solo quando vince le elezioni, ma anche quando le perde, non è perché la cultura politica liberaldemocratica e liberalsocialista sia “naturalmente” quella a cui si ispira la maggioranza dei dem (anzi, a ben guardare, è da un pezzo che lì dentro domina la “linea Piketty”). Se il Pd è il “partito indispensabile”, lo si deve al fatto che, tra le formazioni di un certo peso, (incredibilmente) è l’unico partito occidentale ed euro-atlantico senza se e senza ma. Grazie al Pd (e, va detto, a Renzi), restiamo agganciati (con Gentiloni, Amendola, ecc.) all’Europa, non siamo ancora diventati vassalli della Cina o della Russia e abbiamo allontanato l’incubo venezuelano di Di Battista. Ma la garanzia dell’ancoraggio dell’Italia all’occidente, all’Europa e a quell’ordine mondiale che nel Dopoguerra ha permesso, come ha ricordato Mattarella, di aprire la porta della modernità non solo alle classi dirigenti ma anche ai ceti popolari, è rappresentata (e addirittura incarnata) proprio dal presidente della Repubblica (che, non per caso, ha il comando delle Forze Armate e presiede il Consiglio supremo di difesa). Ed è sul Quirinale che poggia il ruolo del Pd, quella “funzione” che lo rende “indispensabile”.
Specie se si considera che la destra italiana, priva di un forte partito liberal-democratico, è “estranea” a questo legame essenziale. Non per caso, si sta delineando un nuovo “fattore K”, una nuova conventio ad excludendum contro il partito (anti europeo e filo russo) di Salvini. Per colpa sua, ovviamente. Come allora, non si tratta di una invenzione discriminatoria. Si tratta di un impedimento reale. E non basta l’ingresso della Lega nel governo Draghi per traghettare Salvini da Perón a Pera, per dargli, cioè, quella credibilità e quell’affidabilità che ancora non ha. Certo, se la Lega di Matteo Salvini, che ha strappato a Silvio Berlusconi la leadership della destra, dovesse proseguire la marcia di avvicinamento al Ppe, potrebbe diventare il perno di un centrodestra moderato, pienamente legittimato come coalizione di governo. Ma la Lega resiste a questa prospettiva proprio perché il suo appeal si è diffuso più a sud, via via che Salvini, messa la sordina ai temi “nordisti” delle origini, ha puntato (emulando altri nazional-populisti) sulle questioni “culturali”, enfatizzando cioè la minaccia che viene dall’islam e che molti collegano alla crisi dei rifugiati. Per questo, come molti nazionalisti e populisti conservatori, sia negli Stati Uniti sia in Europa, la Lega considera Putin un potenziale alleato proprio per le sue priorità internazionali: smantellare l’integrazione economica globale, combattere la secolarizzazione delle società occidentale, ecc. Ma Putin punta a indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale. Sta, insomma, dall’altra parte della barricata e converrebbe tenerlo presente.
Va da sé che non c’è ragione di festeggiare: dato il nuovo fattore K la democrazia dell’alternanza resterà una chimera. Ma è proprio “l’abbandono dell’occidente” da parte della destra (per citare il titolo di un bel libro di Michael Kimmage, secondo il quale Trump è il primo presidente non-occidentale degli Stati Uniti) che spiega la sua debolezza e il “commissariamento” del paese. Salvini può prendere tutti i voti che vuole ma, nell’èra della crescente interdipendenza tra stati, economie e società, non basta. Il che spiega perché, nonostante i populisti abbiano, sulla carta, il pieno controllo del Parlamento, da un anno il paese è governato da un premier senza partito e senza parte politica, sostenuto da una maggioranza pressoché unanime.
In questo contesto, la presidenza della Repubblica resta il legame dell’Italia con il mondo al tempo dell’interdipendenza globale, la garanzia che il nostro paese rimanga un pilastro dell’Alleanza atlantica e dell’Unione europea. E messe così le cose, il centrodestra non ha molte scelte: deve votare Draghi alla presidenza della Repubblica. Visto che non potrà scegliere da solo il nuovo inquilino del Quirinale, deve concorrere all’elezione di un presidente che non gli sia ostile e che non sia esclusivamente espressione degli “altri”, di quel che rimane dell’“arco costituzionale” della prima Repubblica. Il Pd, invece, potrebbe essere tentato di eleggere un proprio candidato (o un democristiano moderato), proprio per perpetuare la sua funzione “indispensabile”. Ma per non esporsi a rischi inutili ed evitare un massacro generale, è probabile (se Mattarella conferma il suo no) che finisca a sua volta per convergere su Mario Draghi. Specie se si considera che per il Pd l’elezione di un “estraneo” sarebbe esiziale: senza il controllo della più importante casella della scacchiera, la sua strategia e la sua funzione non possono reggere a lungo. Fosse per me, manterrei Mario Draghi alla guida del governo per i prossimi dieci anni. Ma mi rendo conto che, alla fine, la sua elezione è una garanzia per tutti. E i progetti (e i finanziamenti) del Pnrr? E le riforme? Si vedrà. Primum vivere, no?
*Il Foglio, 18 dicembre 2021