di Giovanni Cominelli
Varato dal Consiglio dei Ministri il DDL Calderoli sull’autonomia differenziata, una muta di costituzionalisti, di opinionisti e di politici è entrata in campo e ha incominciato a darle – al Ministro Calderoli – e a darsele di santa ragione. La causa più immediata di questo pulviscolo polemico è l’eterno ritorno del gioco dei quattro cantoni, che si svolge sul terreno delle eventuali modifiche della Costituzione. Vero è che, nel caso del PDL Calderoli, non si tratta di operare modifiche costituzionali, ma di rendere operative con legge ordinaria le modifiche costituzionali già decise nel 2001. Tuttavia le incongruenze interne al Disegno – relative alla determinazione dei LEP, al numero di materie delegabili e al ruolo del Parlamento – sono tali da provocare smottamenti del terreno propriamente costituzionale, quello dell’eguale fruizione dei cittadini dei diritti civili e sociali.
Così, anche questa volta, si intravede uno scenario fatto di conflitti ideologici e politici e di paralisi pratica. L’effetto più probabile è quello della progettazione di assetti istituzionali pasticciati, improbabili, contraddittori, che aggiungono impotenza ad impotenza.
Il rischio di fare l’ennesimo buco nell’acqua nasce da due cause.
La prima: non si riesce a fare riforme costituzionali/istituzionali per ragioni… costituzionali. A norma di Costituzione materiale, il sistema dei partiti ha innervato in modo talmente invasivo il sistema istituzionale che, non appena si sfiori, anche indirettamente, un assetto istituzionale, immediatamente si tocca il nervo sensibile del sistema dei partiti, cioè gli interessi politico-elettorali contingenti di uno o più partiti. Le istituzioni – lo Stato – non svettano come universali nella coscienza del Paese e nella realtà quotidiana: sono sempre traguardate attraverso la lente deformante dei partiti. Nonostante l’azione meritoria, culturale e politica, dei Presidenti della Repubblica, impegnati a sostenere le ragioni fondative della Patria comune, continua a scorrere nelle vene nascoste del Paese il veleno dello spirito di scissione: continuiamo a oscillare tra l’organicismo illiberale e il fazionismo pre-liberale.
La seconda: a più di cinquant’anni dalle prime elezioni regionali del 7-8 giugno 1970, manca un bilancio di verità sull’esperienza politico-istituzionale regionale. Previste nel 1948 con Titolo V, Artt. 114-133, le Regioni furono effettivamente varate solo con la legge n. 108 del 17 febbraio 1968. Le ragioni storiche del ritardo ventennale sono appunto partitiche. La DC, favorevole nel dibattito costituente, per antica ispirazione “popolare-sturziana”, al decentramento regionale, puntò sul centralismo statale, per la paura post-quarattontesca delle “repubbliche rosse”. Il PCI, ostile al decentramento, nel nome dell’unicità sovietica del potere statale, sposò invece il regionalismo per ragioni opposte. La piattaforma comune fu la riduzione reale della Repubblica allo Stato. Nella formulazione dell’art. 114 – La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni – lo Stato amministrativo non veniva neppure nominato, tanto era onnipervasivo. Le Regioni sono nate e si sono sviluppate istituzionalmente su questa piattaforma. Quando nel 2001 l’art. 114 fu riformulato, “sottomettendo” lo Stato alla Repubblica – La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato – era troppo tardi: le gambe delle Regioni erano già cresciute storte.
Il fatto è che il regionalismo è fallito. Se le Regioni dovevano, grazie anche agli Statuti speciali delle meridionali Sicilia e Sardegna, contribuire a ricomporre la frattura storica tra Nord e Sud, occorre constatare che si è allargata. Se le Regioni dovevano finalizzare più precisamente la spesa pubblica alle necessità locali, responsabilizzando le popolazioni e i loro rappresentanti politici, occorre constatare che si sono trasformate in centri di spesa e di debito pubblico, finanziati a piè di lista dallo Stato centrale, secondo criteri politico-elettorali. Se le Regioni dovevano portare lo Stato amministrativo vicino ai cittadini, rendendolo più efficiente, occorre constatare che vi si sono sovrapposte, trasformandosi a loro volta in grandi, costosi e inefficienti apparati burocratici. A tal punto che in Lombardia i “governatori” sono stati “costretti” a creare una filiera burocratico-decisionale parallela, dipendente direttamente dal “Governatore”, per by-passare quella ordinaria, lenta e inefficiente. Da Enti legislativi a Enti amministrativi: questa la parabola delle Regioni. E benché le Province siano state ridotte a Enti elettivi di secondo grado, esse continuano ad essere, più delle Regioni, un punto di riferimento identitario per i cittadini, che si autodefiniscono a tutt’oggi per l’appartenenza ad un Comune e ad una Provincia.
Questi i fatti.
L’autonomia differenziata di Calderoli sarà in grado, alla fine del suo iter barocco, di rimediare al fallimento storico del regionalismo? Non pare proprio.
Quanto alla definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione, che sono il nucleo strategico della proposta, le Regioni del Sud sostengono che i loro bassi livelli dipendono dalla troppo bassa spesa storica: più soldi uguale più qualità. E’ un’equazione falsa. Per trasformare la quantità dei finanziamenti in qualità dei servizi, servono responsabilità, etica pubblica, legalità, competenze. Tutte “virtù” che non arrivano a cavallo dei soldi. Serve un cambiamento di mentalità degli elettori e degli eletti. Che si può generare in due modi. Il primo è quello della pedagogia politica, dell’educazione alla cittadinanza, della crescita di una società civile più moderna ed esigente. Tempi lunghi!
Il secondo: quello della responsabilità fiscale. La Regione deve diventare soggetto responsabile delle tasse e delle spese. La chiave è il federalismo fiscale, di cui all’Art. 119 della Costituzione. Finora inattuato. A partire da questo, si devono ripensare le dimensioni geografiche delle Regioni (quelle troppe piccole non hanno basi fiscali sufficienti) e la quantità delle competenze da loro esercitabili, che devono essere a geometria variabile (non tutte le Regioni possono esercitare tutte le deleghe delle ventitrè troppo generosamente previste dal Nuovo Titolo V). Ed é solo in un quadro di responsabilità fiscale di ogni Regione e di valutazione rigorosa esterna della qualità dei LEP – questo il compito dello Stato – ha senso e può funzionare un necessario Fondo perequativo. Si veda alla voce “Länder”! Sennò le Regioni più efficienti finiranno sempre per pagare, come è accaduto finora, le inefficienze colpevoli delle altre. E’ da questo fatto sempre meno sopportato, che si è insorto il leghismo storico.
E il PDL Calderoli? Non si annuncia come un nuovo inizio, ma come un omaggio postumo ai tic ideologici e alla propaganda elettorale della Lega “fu Nord”. Si limita ad accompagnare il declino politico-culturale di un movimento politico, nato per fare il federalismo e defunto nel centralismo.
Editoriale da santalessandro.org
Sabato, 11 febbraio 2023
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.