di Ranieri Bizzarri
E così questo governo tra M5S e PD (+Leu) è nato. Doveva essere un governo di discontinuità; Zingaretti lo chiama “pomposamente governo di svolta”; il Prof. Conte lo chiama in un modo che nemmeno ricordo più. Troppe definizioni e aspettative servono a poco, quello che c’è sul banco si vede eccome.
Un governo della Prima Repubblica?
E’ un governo che scimmiotta quelli della Prima Repubblica, nelle affettazioni correntizie, nell’eleganza stucchevole degli interpreti della trattativa, nei piccoli litigi per ottenere un posto, nella quasi totale discrasia tra competenze (quando ci sono) e ruoli che si va ad assumere. Soprattutto è un governo che, al di là dei 26 punti, nasce senza un’idea che non sia la necessità di mantenere una dialettica politica civile ed evitare lo scontro con l’Europa. Non è poco, certo. Ma ti lascia la stessa insoddisfazione di quando, per nebbia, non atterri all’aeroporto della tua città ma a diverse centinaia di chilometri, anche se poi torni a casa grazie ad un pullman di cortesia.
In queste settimane di trattative e dibattiti ho avuto modo di osservare e cogliere un paio di questioni molto significative, almeno per me.
Il contrattacco europeo al sovranismo. Ma l’onda populista resiste
La prima è l’idea consolante del “contrattacco” europeo e europeista al sovranismo. E’ bastato che i partiti sovranisti non sfondassero elettoralmente nelle Elezioni Europee di Giugno perché molti commentatori e politici si lasciassero andare a commenti di grande soddisfazione se non di euforia per lo scampato pericolo. L’elezione di Ursula von der Leyen a capo della commissione europea, con un margine strettissimo pur partendo da una maggioranza assai composita, è stata salutata come il ripristino delle condizioni “corrette” di logica politica nei confronti di una barbarie che non è arrivata sino a Bruxelles. La ragionevolezza della Storia, per citare faziosamente un Hegel da rivista illustrata, è stata salvaguardata.
Sarà che non ho una conoscenza adeguata dei meccanismi di politica europea, ma a me questa ipotesi autoconsolatoria sembra abbastanza surreale. Il sovranismo populista, o meglio la tendenza politica moderna a voler svuotare la sostanza della democrazia liberale mantenendone alcune forme, mi sembra sempre vivo e vegeto, anche se magari non lotta insieme a noi. Ed è vivo e vegeto perché vive e vegete sono rimaste le ragioni che ne hanno permesso la diffusione. La crescita economica è bassa e tende ad un’ulteriore diminuzione in quasi tutti i paesi. Le contraddizioni sociali sono facilmente manipolabili da capipopolo di ogni sorta in un’ottica di gioco a somma zero: la ricchezza che tu, cittadino, non hai, è appannaggio di europa/immigrati/elite/ecc, perchè le risorse di un paese sono finite. Una balla certo, ma in un contesto di bassa crescita tutto questo appare verosimile.
E poi, il risentimento sociale, la “rabbia” di cui parla Giuliano Da Empoli nei suoi ultimi libri, trovano facile sfogo nel vittimismo e la polarizzazione faziosa dei singoli, che cresce nel fantastico terreno di coltura rappresentato dall’uso disinformativo dei social La società “liquida” basata sull’immagine e la velocità ha poco tempo per concetti astratti quali: libertà, suddivisione dei poteri, garantismo, cooperazione, sussidiarietà. Parallelamente, la politica “pensante”, il pragmatismo delle forze popolari, socialiste e liberali, vedono –lentamente- erodere il proprio consenso. Certo, l’Afd non è ancora maggioranza in Germania. Certo, Macron è riuscito a bloccare la Le Pen. Ma ancora per quanto? E soprattutto, cosa stiamo facendo realmente per bloccare l’ondata populista? Non molto, mi sembra. A occhio ci stiamo rilassando dopo la paura. E’ umano; ed è molto pericoloso.
Bene la tattica, ma qual è la strategia?
La seconda considerazione riguarda l’Italia.
Armillei su queste pagine ha acutamente osservato che stiamo assistendo ad un dramma di politics, in cui sono assenti le policies. Parafrasando, vediamo politici innamorati della tattica, ma sfugge la comprensione della strategia.
Il PD ha approfittato del gigantesco autogol di Salvini per estromettere un grottesco villano (nell’accezione anglosassone e italiana insieme) dal governo del Paese e dal Ministero dell’Interno. Non sono sicuro che una vittoria di Salvini e delle destre alle elezioni ci avrebbe trasformato nell’Ungheria di Orban, perché ho l’impressione che la golden share delle regioni produttive del Nord sia ben oltre quello che lo stesso Salvini sarebbe disposto ad ammettere. E nel Nord perdere l’ancoraggio all’Europa produttiva e (per ora) liberale sarebbe letale.
Ma di sicuro avrebbe ancor di più incanaglito la politica italiana, turbando la dimensione economica, rischiando di far scattare l’aumento delle aliquote IVA e allontanando ulteriormente i cittadini dall’idea che la politica possa risolvere qualcosa. Penso si sarebbe affermato un modello molto italiano di capetto che urla e direttori dei ministeri ed altri tecnocrati che decidono.
Bisogna crescere prima di redistribuire
Ho avuto dei dubbi sulla scelta del PD, ma ormai è il passato. Ora c’è da domandarsi cosa fare nel presente. A leggere i proclami fumosi proposti in queste ore, si fa largo l’idea che in fondo Conte e Gualtieri siano in grado di ottenere un po’ di flessibiltà dall’Europa, accompagnando senza scosse l’Italia nel suo tipico tran-tran di bassa produzione/bassi stipendi/stato sociale costoso in relazione ai servizi che eroga. Forse sono prevenuto, ma come si dice a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. Non rassicura che la composizione del Governo sia sbilanciata dal Po in giù e che i due partiti di governo abbiano costantemente usato il verbo redistribuire nel verboso programma di governo. Mio figlio è in terza elementare, e quando faccio matematica con lui sottolineo sempre scherzosamente che la moltiplicazione è la mamma della divisione, e che bisogna crescere prima di redistribuire.
Il rischio vero è che le contraddizioni che hanno portato alla crescita populista rimangano tutte, ed anzi accrescano la forza dei Salvini grazie alla propaganda sul governo delle elites, la congiura di palazzo, la guerra al Nord produttivo, il presunto allentamento dei vincoli sulle frontiere.
Che fine fa la battaglia per il maggioritario?
Parallelamente, aver creato lo spauracchio dell’uomo forte antidemocratico rischia di mandare in sordina la battaglia riformista sulla modifica in senso maggioritario della legge elettorale per rafforzare il potere esecutivo e la stabilità di governo. Agitare lo spettro del piccolo Mussolini equivale a dare ragione a tutti quelli che, ANPI in testa, fomentavano le paure che hanno contribuito alla vittoria del NO al referendum del 4 Dicembre. Si, col maggioritario potrebbe anche vincere la destra salviniana, certo. Ma dobbiamo forse rinunciare, in nome del qui ed ora, alla trasformazione a medio-lungo termine della politica italiana in senso europeo e liberale? Salvini non lo si sconfigge con i ribaltoni parlamentari o con le leggi elettorali ad hoc per evitare arrogantemente la presunta barbarie degli elettori ignoranti. Il populismo va sconfitto colpendo la radice della sua genesi: l’assenza di un sistema di ascensori sociali che diano a tutti una chance per la ricerca della propria felicità in un quadro di crescita generale. Sta all’elaborazione politica riformista proporre soluzioni in questo senso. E per far questo occorre guardare e vigilare la realtà per quella che è, senza rilassarsi.
Verum scire est scire per causas, ha detto molto tempo fa uno che probabilmente non avrebbe fatto il Ministro nell’Italia di oggi.
Laureato e dottorato in Chimica, è Professore associato di Biochimica all’Università di Pisa. E’ stato Research Fellow in USA, Francia e Olanda. Si occupa di processi biochimici alla base dello sviluppo dei tumori. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale