di Alessandro Maran
“Dopo aver condotto una campagna elettorale basata su una politica per porre fine alle guerre, promuovere la pace, mettere al primo posto l’America e svincolarla dal mondo, il presidente eletto Donald Trump questa settimana ha deciso di far rivivere l’imperialismo del XIX secolo”, si è rammaricato
Fareed Zakaria analizzando, nel corso dell’ultima puntata di Global Public Square sulla
CNN, i recenti commenti di Trump sulla riconquista del Canale di Panama, l’annessione del Canada e l’acquisizione della Groenlandia dalla Danimarca. “In una singola conferenza stampa, ha meditato di fare del Canada uno stato e di acquisire la Groenlandia e il Canale di Panama con la coercizione economica, e ha rifiutato di escludere l’uso della forza militare negli ultimi due casi (…) Dove andrà a finire tutto questo?”
(https://edition.cnn.com/2025/01/12/world/video/gps0112-trumps-imperialist-rhetoric).
Il discorso sul Canada “sembra essere per lo più un trolling”, osserva Fareed, come quando cioè qualcuno pubblica o commenta online per “adescare” le persone, ovvero per provocare deliberatamente una discussione o una reazione emotiva. La Groenlandia e il Canale di Panama conferiscono invece notevoli vantaggi strategici. Detto questo, “l’America è stata così autorevole e influente in tutto il mondo perché è riuscita a convincere gli altri che cerca di agire non solo nel suo ristretto interesse egoistico, ma per interessi più ampi – che vuole pace, stabilità, regole e norme che aiutino tutti”. L’etica “neo-imperialista” di Trump non fa che indebolire tutto questo.
Fareed Zakaria conclude: “Nella conferenza stampa, Trump ha proposto di sbarazzarsi della ‘linea tracciata artificialmente’ tra Canada e Stati Uniti. Ovviamente, questo è esattamente quel che il presidente Vladimir Putin dice sul confine tra Russia e Ucraina. O Xi Jinping sulla divisione tra Cina e Taiwan”. Ma questo, sottolinea il conduttore di GPS, è un mondo “that makes Russia and China great again”.
Sono in molti a ripetere che bisogna accettare il mondo “così com’è” e sono in molti a fraintendere il ruolo fondamentale che ha avuto e ha, da decenni, l’America nell’impedire che il mondo ritorni al suo passato sanguinoso e violento e che “ricresca la giungla”. Ma i più non hanno idea di quanto il mondo possa essere pericoloso e di quanto velocemente le cose possano andare a catafascio. Specie se gli Stati Uniti si allontanano, com’era nei propositi di Trump, da quello che finora era stato l’obiettivo tradizionale della loro politica estera. Non c’è dunque da stupirsi se ora Trump riporta in auge l’imperialismo del XIX secolo. Non è un mistero per nessuno che quella di Putin non è una guerra (solo) all’Ucraina che vuole diventare una democrazia europea integrata nelle istituzioni occidentali: è una guerra contro l’ordine mondiale creato nel secondo dopoguerra. “Nello specchio dell’Ucraina”, scrivevo, ormai qualche anno fa: “… la guerra ha evidenziato che l’Ue e la Russia rappresentano modelli di integrazione politica ed economica – di più: due universi – che collidono. La Russia persegue una politica neo‑hobbesiana nutrita da una narrazione conservatrice: cerca di accreditarsi come custode dei valori della tradizione in contrasto con l’Occidente che si erge a baluardo dei diritti individuali. Ma ciò significa il ritorno alla politica di potenza, alla condizione precedente alla seconda guerra mondiale, in cui, come ha scritto il Wall Street Journal, “il più forte si impone sul più debole e i despoti conquistano terreno”. Come si fa a non vedere che se il principio che ha mosso Putin – la supposta necessità di proteggere i diritti e l’incolumità della popolazione russofona – dovesse affermarsi come “normale”, la giostra è destinata a ripartire? Kaliningrad si chiamava Königsberg (la patria di Immanuel Kant), Pola è italiana. Dal nostro confine orientale a Mosca cambia lingua ogni venti chilometri. Ricominciamo daccapo? Il ritorno della vecchia storia nel cuore del continente preannuncia, come abbiamo già visto nella ex Jugoslavia, il ritorno della guerra come strumento ordinario della politica. Putin non è un attore tra i tanti, è uno spettro del passato” (
https://www.mondadoristore.it/specchio…/eai978886958046/). Perciò, “Hold my beer”. Posso fare di meglio (la vignetta è di Bill Bramhall).
Torniamo alle recenti dichiarazioni di Trump. Se le tariffe commerciali per il passaggio attraverso il Canale di Panama “sono generalmente basse e la marina americana ha già un accesso preferenziale e a buon mercato, perché Trump minaccia di prendere il canale?” si chiede
The Economist. Come osserva Fareed Zakaria, la risposta potrebbe avere a che fare con la Cina.
L’Economist continua: “La risposta più semplice potrebbe essere che il presidente eletto sta manifestando machismo geopolitico, come ha fatto con la sua proposta di impossessarsi della Groenlandia. Potrebbe anche voler fare pressione su Panama affinché riduca l’influenza cinese nel paese. Contrariamente a quanto afferma Trump, i soldati cinesi non gestiscono il canale, ma i diplomatici e gli uomini d’affari cinesi hanno influenza a Panama. Durante il primo mandato presidenziale di Trump, Panama ha interrotto le relazioni diplomatiche con Taiwan e le ha stabilite con il governo di Pechino. Ciò ha portato a un’accelerazione degli investimenti cinesi in grandi progetti infrastrutturali nel paese. I piani per un’enorme ambasciata cinese alla foce del canale sono stati affossati dalla pressione americana. Ma nel 2021 Panama ha rinnovato per 25 anni un’importante concessione portuale detenuta da una filiale di una società con sede a Hong Kong” (
https://www.economist.com/…/what-would-donald-trump…).
Più in generale, che cosa comporterà il secondo mandato di Trump per le relazioni tese (e importanti a livello globale) tra Stati Uniti e Cina?
Nel 2017, Trump è entrato in carica dopo aver attaccato duramente la Cina durante la campagna elettorale, accusandola di pratiche commerciali sleali e di aver causato la perdita posti di lavoro americani, che secondo Trump erano soprattutto colpa dei decenni di politiche di libero scambio di Washington. “Non biasimo la Cina”, ha detto Trump a novembre del suo primo anno in carica, mentre firmava una serie di accordi commerciali tra Stati Uniti e Cina insieme a Xi. “Dopotutto, chi può biasimare un paese per essere in grado di trarre vantaggio da un altro paese per il bene dei propri cittadini?” Il primo mandato di Trump è stato caratterizzato da dure restrizioni tecnologiche e da una guerra commerciale e tariffaria, quest’ultima sempre sul punto di essere annullata se le due superpotenze avessero raggiunto un accordo globale (non l’hanno fatto).
Nell’ultimo numero di
Foreign Affairs, due articoli cercano di far luce sulla traiettoria attuale delle relazioni tra i due paesi. In primo luogo, Jude Blanchette e Ryan Hass argomentano contro il timore della Cina. Nonostante la sua crescita tecnologica e militare, scrivono, la Cina non ha la potente rete di alleanze americana e ha una serie di debolezze, tra cui un debito elevato, una crescita economica lenta e una popolazione in età lavorativa in calo. “La Cina ottiene spesso il primato in aree in cui gli Stati Uniti hanno investito somme drammaticamente insufficienti”, come con la tecnologia 5G negli anni 2010, scrivono. Il loro punto di vista si può riassumere così: non fatevi prendere dal panico per l’ascesa della Cina (
https://www.foreignaffairs.com/…/know-your-rival-know…).
Nello stesso numero di
Foreign Affairs, lo storico Niall Ferguson scrive: “Oggi, gli Stati Uniti si trovano almeno nel sesto anno di una seconda guerra fredda, questa volta con la Cina”. Ferguson paragona Trump a Ronald Reagan, che ha affrontato l’Unione Sovietica in modo aggressivo e fermo, ma poi è passato alla negoziazione quando l’URSS era stata indebolita. Nonostante tutte le loro differenze personali, scrive Ferguson, Trump sembra condividere gli istinti di Reagan al riguardo: aggressività iniziale, seguita da flessibilità e accordi. “Trump vive per contrattare”, scrive Ferguson, sperando che, con Pechino, il presidente eletto lo faccia in modo grandioso, su tutta una serie di punti di attrito tra Stati Uniti e Cina, compresi quelli che potrebbero portare alla guerra (
https://www.foreignaffairs.com/…/win-new-cold-war-china…).
Nell’attuale numero di Global Asia, John Delury concorda sulle inclinazioni di Trump, prevedendo che Trump si concentrerà sul commercio mentre cercherà un grande accordo diplomatico: “un grande accordo clamoroso con Xi, da leader a leader” (https://www.globalasia.org/…/expect-trump-to-go-it…). Sempre su Global Asia, Wu Xinbo prevede tre potenziali scenari: Trump che adotta un approccio “duro ma misurato” nei confronti della Cina e le tensioni rimangono “gestibili”; la nuova amministrazione che mette a dura prova l’intera relazione e “innesca una grande guerra economica”; e Trump che non riesce a ottenere concessioni da Pechino e che, di conseguenza, dà “mano libera ai falchi ideologici e geopolitici” presenti nella della Cina sua amministrazione “per fare ciò che desiderano”. “Se dovessero lanciare attacchi contro il sistema politico cinese (…) una grave crisi militare e persino una sorta di conflitto tra le due parti potrebbero verificarsi nel Pacifico occidentale, con conseguenze negative significative” (https://www.globalasia.org/v19no4/cover/ trump-and-china-deal-or-no-deal_wu-xinbo).
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.