LibertàEguale

Il mondo rurale, un’antica questione

di Danilo Di Matteo

 

Le capitali d’Europa attraversate dai trattori suscitano un’impressione forte. Dell’agricoltura continuiamo, infatti, ad avere un’idea distorta, come se fosse un’attività marginale. Un paradosso: il settore primario considerato come l’ultimo per importanza. E ancora si tende ad associare l’idea della campagna con l’arretratezza (del resto il divario fra il livello di benessere raggiunto in città e quello del mondo rurale è un tradizionale indice economico). Quando pure dovremmo sapere, ad esempio, che il capitalismo agrario precede e contribuisce in maniera decisiva a creare le condizioni per quello industriale. Errori “percettivi”, i nostri, legati senz’altro anche a modelli di sviluppo abnormi e disarmonici.

Ecco, non conoscendo a fondo le ragioni degli agricoltori in rivolta, non mi addentro nel merito. Provo, però, a farne un motivo di riflessione sul complesso e problematico rapporto tra le sinistre e la realtà contadina. Sullo sfondo permane il ricordo, per così dire, dei fenomeni vandeani: la Vandea come simbolo e metafora di una funzione politica e sociale quanto meno conservatrice della campagna, paragonabile forse, nell’immaginario di parte della sinistra, fin dal XIX secolo (si guardi ad esempio al Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels), a quella dei “bottegai” della città.

E, al cospetto di autori come Ignazio Silone, pronti a cogliere le peculiarità della plebe meridionale, comprendente, tra i “cafoni”, anche i piccolissimi proprietari di terra, ve ne sono altri – si guardi a un gigante come Giuseppe Di Vittorio, espressione della realtà dei braccianti – più inclini ad “assimilare” i contadini nullatenenti al proletariato industriale e urbano. Del resto, l’effige della “falce e martello” è proprio l’icona dell’alleanza tra operai e “contadini poveri”. E, come è noto, Gaetano Salvemini rimproverava a Filippo Turati di esprimere quasi solo le istanze dell’“aristocrazia operaia” del triangolo industriale: pagine mirabili del meridionalismo più acuto e lungimirante. Paragonabili alle sagaci e profonde riflessioni gramsciane sulla “questione meridionale”.

È tuttavia nell’Italia centrosettentrionale che certe aspirazioni si traducono in fatti, in situazioni concrete, in pratiche. E, accanto a quella del “contadino povero”, si impone la figura del ceto medio rurale. Era soprattutto al mondo agricolo, alla composita realtà dei coltivatori diretti, dei fittavoli, dei mezzadri e simili che si riferiva Palmiro Togliatti nella celebre conferenza del 1946 sul Ceto medio e Emilia rossa. Un discorso decisivo e talora trascurato; se si fosse seguito quel solco, non sarebbero stati sottovalutati, decenni dopo, i ceti medi urbani. Fu quella, tra l’altro, una delle basi per il rilancio quantitativo e qualitativo dell’esperienza delle cooperative.

E oggi? Dovremmo considerare la “rivolta” delle campagne come uno stimolo fecondo a comprendere ciò che lì si muove, provando ad attualizzare l’esempio formidabile di dirigenti politici e sindacali come Giuseppe Avolio, veri maestri di una sinistra degna di tal nome.

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