di Giorgio Armillei
1. Sgombrare il campo
Cerchiamo innanzi tutto di sgombrare il campo degli equivoci. Il 4 marzo non ha vinto la destra: ha vinto il nazionalpopulismo che è una cosa diversa dalla destra, ne include tracce come include tracce di sinistra, ma è una cosa diversa. È populismo politico, il che significa fastidio per la democrazia rappresentativa e per la rule of law, chiusura identitaria e nazionalista. È populismo economico, il che significa fastidio per le compatibilità, fastidio per i conti pubblici in ordine, ricorso alle degenerazioni statalistiche del keynesismo. È populismo giudiziario, il che significa adozione del paradigma accusatorio nella lettura e nella prassi di funzionamento del sistema politico. Ma non è destra.
Dopo il 4 marzo e dopo la formazione del governo le istituzioni democratiche, pur subendo il medesimo stress cui sono sottoposte da anni tutte le democrazie avanzate, non sono affatto prossime a cedere. Le pulsioni autenticamente autoritarie restano una minoranza, i contrappesi costituzionali sono pienamente funzionanti, i vincoli sovranazionali frutto del quadro delle interdipendenze sono in continua evoluzione, il ruolo stabilizzatore delle élite liberali è pienamente giocabile. Nulla di deterministico è in atto e nulla è ovviamente garantito per sempre. È per tutto questo che liquidare questa fase come in preda a una sindrome di latente autoritarismo che mette in crisi il quadro costituzionale appare equivoco, sbagliato e pericoloso.
2. La doppia spinta
La drammatizzazione autoritaria è tanto poco plausibile quanto viceversa essenziale appare una rapida costruzione di un’offerta politica alternativa a quella nazional populista. Dopo il 4 marzo, dopo i porti chiusi, dopo il decreto dignità, dopo Alitalia, dopo ILVA, come provare a riorganizzarla? Questo è il punto. Al netto delle dinamiche di Forza Italia, stretta tra continui annunci di big bang e più concreti slittamenti leghisti dei suoi colonnelli – ché l’elettorato è già andato – le cose si muovono a stento anche nel PD che resta al momento l’unica cosa somigliante a un’organizzazione politica.
Anche qui segnali fumosi di big bang certo, ma anche movimenti visibili. Il lungo articolo di Michele Salvati su il Foglio del 12 giugno, l’articolo di Calenda su il Foglio del 27 giugno, l’intervista di Zingaretti al Corriere della Sera del 1° luglio, il convegno sulla nuova sovranità europea di Libertà Eguale del 2 luglio e l’assemblea conclusa il 15 luglio a Orvieto, il saggio di Mario Ricciardi sul n-3/2018 de il Mulino, i ripetuti interventi di Marco Bentivogli: molti frammenti sufficienti però per abbozzare una prima ricognizione politica. In questo contesto l’elezione di Martina, con la coda velenosa della nuova segreteria, appare del tutto sovrastrutturale ed esprime un compromesso privo di vere novità politiche.
È utile allora provare a trasformare l’elenco dei posizionamenti in una vera mappa, dando coordinate e punti di riferimento. Lo spazio politico dell’opposizione al governo nazionalpopulista sembra suddividersi secondo due spinte incrociate. Da un lato quella che riguarda il tema del modello di partito, il PD come organizzazione. Dall’altro quella che riguarda gli strumenti e le politiche alternative al nazionalpopulismo. Due spinte significano due assi di posizionamento, due assi che incrociati danno origine a quattro quadranti. Proviamo ad analizzarli.
Il primo asse riguarda il modello di partito. Il rilancio alternativo al nazionalpopulismo si può immaginare dentro, oltre o fuori il PD? Il PD in altri termini è qualcosa di ancora utilizzabile per costruire una proposta politica? Questo in sintesi il punto. La preparazione di un’alternativa al governo nazional-populista si colloca dentro i confini del PD e della sinistra oppure va oltre quei confini, li supera, cercando di rispondere al nuovo allineamento dell’elettorato lungo la frattura “gerarchicamente dominante” tra chiusura e speranza, populismo e liberalismo, nazionalismo e interdipendenza? Una frattura che sembra aver dato vita a due nuovi cluster, fatti di chi si vuole prevalentemente difendere chiudendosi e di chi vuole scommettere e rischiare aprendosi. E come in tutti i cluster non tutti coloro che vi appartengono sono uguali: c’è un fattore aggregante e molte differenze, ma il primo prevale sulle seconde. Una prospettiva che serve naturalmente non per tornare indietro verso vecchie “alleanze di emergenza” ma per sviluppare in avanti l’intuizione del partito a vocazione maggioritaria.
Insomma, tracce di destra e di sinistra permangono ma al momento la gerarchia delle fratture genera nuovi allineamenti. Lo ha detto bene Francesco Occhetta su Civiltà cattolica del 19 maggio e lo ha ripetuto qualche giorno dopo su Vita pastorale: c’è una polarizzazione secondo due macro aree, una rappresentata dal governo lega stellato e l’altra che “aspetta di essere colmata da una sorta di lista civica progressista e europeista”. Un giudizio che sembra trovare conferma nell’analisi dei politologi. “Di fronte all’immobilismo dei partiti sulla dimensione tradizionale sinistra-destra, le forze politiche si sono adoperate per riposizionarsi lungo altre linee di divisione, soprattutto attorno a quella che divide gli europeisti degli euroscettici” scrive Marco Valbruzzi nell’ultima ricerca dell’Istituto Cattaneo sulle elezioni del 4 marzo.
Detto in altri termini, lo sviluppo della storia del PD si orienta in direzione di un passo indietro, sia o no compresa in questo passo indietro una nuova aggregazione di coalizione che va dal vecchio centro alla vecchia sinistra, o in direzione di un passo avanti, sia oppure no compreso in questo passo avanti l’uso di una ricetta di scomposizione e ricomposizione, analoga anche se necessariamente diversa da quella adottata da Macron, per condizioni e vincoli del quadro istituzionale (le regole) e per contenuti e obiettivi della ricetta (le politiche)?
Non si tratta di geometrie politiche astratte. Al contrario si tratta di leggere e interpretare collocazioni che hanno immediati effetti politici. Ad esempio, come ci si comporta in vista delle elezioni del 2019 per il Parlamento europeo? Restando dentro i confini del PSE – sedotto dalla fascinazione corbyniana, della serie a populismo un populismo e mezzo – oppure strutturando un’offerta di tipo schiettamente “sovranazionale ed europeista” che elabora una risposta alla frattura tra sostenitori di rafforzate autorità europee di governo, adeguate a quel livello di interdipendenza, e sostenitori della rinazionalizzazione statale delle politiche pubbliche?
Il secondo asse riguarda gli strumenti e le istituzioni delle nuove politiche. Qui il punto è: la preparazione dell’alternativa al governo nazional populista usa la cassetta degli attrezzi keynesiana “all inclusive”, alla ricerca di uno stato forte anche se non nazionalista? Una specie di protezionismo ben inteso che mixa con intelligenza apertura sovranazionale e chiusura statalista, convinto che anche a livello sovranazionale ci voglia qualcosa che funzioni come uno stato e che come uno stato pretenda il primato e la sovranità. Dimenticando però i fallimenti dello stato, gli effetti dell’interdipendenza che rendono spuntate le armi keynesiane e risvegliando una specie di nostalgia per i monopoli, come la chiamano Carlo Scarpa e Alessia Savoldi nel Rapporto 2017 sulla finanza pubblica italiana pubblicato per il Mulino, fossero anche monopoli ben intesi.
Oppure conferma il superamento del paradigma statalista, così come hanno fatto i padri fondatori prima della Comunità e poi dell’Unione europea, immaginando e realizzando non uno stato europeo e neppure gli stati uniti d’Europa ma un più ingegnoso e sofisticato meccanismo di governo non statale, fatto di una logica negoziale, policentrica e incrementale? Un meccanismo funzionalista e non ideologico, interventista sì ma di un interventismo pragmatico e liberale. Non sarebbe affatto l’Unione a misura della Germania, come molti si ostinano a dire: sarebbe l’Unione possibile in un quadro di interdipendenza post statale. L’Unione che ha (aveva) messo a tacere le “forze primordiali del nazionalismo”, come diceva Ernst Haas, uno dei teorici dell’integrazione europea incrementale sovranazionale.
In questo contesto non è completamente convincente – anche se certamente suggestivo – rappresentare la situazione di questi ultimi anni come ripresa nel XXI secolo dell’alternativa tra sovranismo hobbesiano e federalismo kantiano. La via dell’Unione (e prima della CECA e della CEE) è infatti una terza via. Non richiede un popolo, un territorio, una sovranità. È (stata) una via mista, multilivello e multiagente, che non vuol dire meno potere pubblico, meno interventismo economico, meno solidarietà, meno identità collettiva. L’errore da evitare è immaginare un’Unione come “uno stato federale, parlamentare o intergovernativo che sia. E’ invece possibile dividere la sovranità attraverso un sistema di separazione multipla di poteri. L’europeismo deve elaborare un nuovo paradigma politico” come dice Sergio Fabbrini.
Ma interventismo liberale significa anche smontare i miti del welfare e costruire una risposta efficace e diversa da quella che i nazional populisti hanno confezionato a partire da una sorta di caricatura del liberismo, dei poteri finanziari e della globalizzazione. Bisognerà, ad esempio, trovare il modo di dire – pensando al futuro e quindi facendo proposte e non solo prendendo atto dei fatti – che l’idea di un’Italia in preda al neoliberismo è priva di fondamento; che un conto aumentare è la spesa pensionistica un conto aumentare il sostegno alle famiglie per la crescita del tasso di occupazione delle donne; che a fronte di una media OCSE del 8,2% l’Italia spende il 16% del PIL in pensioni; che oggi e da decenni paghiamo non il conto imposto dalla globalizzazione e dall’austerità europea ma quello imposto dalle scelte pensionistiche di fine anni sessanta, da una spesa corrente finanziata a debito fino al 34% del nuovo debito alla fine degli anni settanta, da un disavanzo che viaggiava intorno al 12% del PI e che veniva coperto per il 75% con la creazione di base monetaria.
Cose da dire non per replicare un approccio da occhiuti commissari ma per costruire seriamente proposte per il futuro. Con una specifica: il welfare all’italiana – quello che abbiamo descritto – dipende dalle caratteristiche delle istituzioni politiche all’italiana, istituzioni che sono “alle origini delle debolezze italiane” e della “estrattività della sua classe politica”, come dice Alfredo Macchiati. Dal che cambiare le istituzioni è essenziale per riformare il welfare e riprendere a crescere.
3. Ritorno al futuro
Proviamo ora a vedere con un più alto livello di definizione la nostra mappa. Coloro che vogliono restare nel recinto del PD – per se corredato di un sistema neoulivista di alleanze – e nel recinto dello stato, facendo ricorso al vecchio canone keynesiano, hanno il loro campione. Nicola Zingaretti ha messo in movimento tutta un’area interna e esterna al PD che coltiva questo progetto. Anche se occorre dire con qualche non piccola contraddizione: è un po’ difficile per esempio dichiararsi apertamente europeisti, sostenere l’irreversibilità delle politiche sovranazionali, chiedere – questo sì un po’ populisticamente – l’elezione diretta del Presidente degli stati uniti d’Europa e poi predicare il deficit spending nazionale al posto dell’austerità ordoliberale. Corbynismo all’italiana e posizionamento europeista non vanno d’accordo insomma. Se ci si attesta sulle posizioni per cui il capitalismo e la diseguaglianza crescente sono inscindibili, il populismo è una “buzzword” che è meglio abbandonare, il ceto medio soffre delle politiche della sinistra liberista, il reddito di cittadinanza racconta una storia che non va demonizzata, la sinistra italiana soffre di troppo mercato, meritocrazia, competizione, il gioco è fatto. Il nazional populismo ha imposto il suo frame e ogni tentativo di inseguirlo diventerà un’inevitabile frana verso le sue posizioni.
4. Stato forte, nazione forte
Anche chi vuole andare oltre il recinto del PD ma portandosi dietro ben stretto il menù delle politiche dirigiste ha il suo front runner. Calenda lo dice chiaramente: l’Unione e l’euro non si toccano ma contro la paura è necessario accettare il terreno di gioco della paura, usare più stato, fare più nazione. Uno stato forte che sia la fonte della garanzia per tutti i cittadini di poter capire cosa gli sta succedendo e di poter trovare la propria strada. Uno stato che protegge gli sconfitti e difende le imprese dall’apertura indiscriminata ai mercati internazionali, mettendo anche sotto controllo il gioco dell’economia finanziaria resa troppo libera dalla visione semplificata e ideologica della storia che la sinistra riformista ha fatto sua dopo l’89.
Un ritorno statocentrico insomma che probabilmente risulterebbe stonato anche rispetto al tutt’altro che liberista recente documento della Congregazione per la dottrina e la fede della Chiesa cattolica dedicato alle questioni economico-finanziarie internazionali. Insomma a statalismo (nazional populista) uno statalismo e mezzo. Una specie di “tremontismo” di centrosinistra. Per farlo, cioè per contrapporre statalismo riformista a nazional populismo, occorre andare oltre il PD e mettere in piedi una “alleanza repubblicana” che dica qualcosa di più del semplice no al sovranismo del governo nazional populista. Insomma uno statalismo nazionalista ben temperato dentro il quadro euro.
5. Fuori dal PD non c’è salvezza
Statalisti di sinistra e statalisti del “fronte repubblicano” hanno tutte le carte in regola: politiche e leadership già confezionate e pronte a giocare la partita. Due quadranti sono sistemati. E gli altri due? Qui le cose sono ancora incerte ed è necessario mettere a fuoco più di un problema. Non tanto a proposito dei confini quanto a proposito degli attori. Tanto per cominciare, andare oltre lo stato – rifuggendo dalla strategia dello statalismo riformista – ma restando dentro i confini del PD, cioè negando la prevalenza del nuovo allineamento post ideologico lungo l’asse apertura chiusura, vuol dire prima o poi fare i conti con la pesante eredità organizzativa del PD post renziano.
Un partito annichilito nel quale, come Mauro Calise ha più volte sottolineato, l’enfasi sul cambiamento necessario e ineluttabile della forma partito ha finito per coincidere con una “politica interna” del non partito, fatta di trasformismi e di strategie coalizionali di cortissimo respiro che hanno visto protagonisti i vecchi detentori del potere nei governi locali e regionali. “Il PD appare oggi un partito in agonia” dice Calise. “Un’agonia organizzativa, nel senso più elementare ed essenziale del termine. Non ha una leadership legittimata e coesa, non ha strutture intermedie operative e incisive. Non ha meccanismi di reclutamento, selezione e ricambio in grado di far intravedere – di qui a un paio di anni – una nuova leva di militanti. […] Si discute della direziona da prendere. Ma senza una macchina funzionante non si va da nessuna parte”. Gli esempi dell’Umbria e della Toscana sono assai istruttivi da questo punto di vista. Tutti coloro che lavorano in questa direzione, da Richetti a Giachetti al sindaco di Pesaro Matteo Ricci, si troveranno di fronte pezzi di partito ormai inutilizzabili. Per raggiungere una nuova meta, passando per strade non battute e usando mappe nuove, occorre una macchina nuova.
6. Scomporre e ricomporre
Oltre il PD e oltre lo stato: con questa doppia discontinuità si presentano gli attori dell’ultimo quadrante della nostra mappa. Non è pensabile uno stato europeo né ha senso immaginare gli stati uniti d’Europa: anche la sovranità europea rischia di essere una costruzione ideologica. Serve continuare sulla strada della costruzione di un’Unione flessibile di stati, innovativa sotto il profilo istituzionale, dotata sì di maggiori strumenti di azione sul piano delle politiche economiche ma senza rigidità keynesiane, in ragione della loro debole tenuta teorica non riscattata dai fallimenti del mercato ma soprattutto della loro impraticabilità politica, considerato il quadro delle possibili alleanze in sede di Unione. Il primo attore collettivo di questa costruzione è l’area euro.
Occorre guardare con realismo a chi ci sta, per cosa e entro quali limiti. E’ la dichiarazione di Meseberg che tenta un compromesso tra ordoliberali e nuovi keynesiani: “Proponiamo di istituire un bilancio della Eurozona nel quadro dell’Unione europea per promuovere la competitività, la convergenza e la stabilizzazione nell’area dell’euro, a partire dal 2021”. Come si vede una proposta pesante di policy, non solo regole. Una proposta che guarda al mercato elettorale europeo cercando di uscire dal frame imposto dal nazional populismo: seguendo finalmente il don’t think of an elephant di Lakoff. Esiste infatti in Italia e negli altri stati dell’Unione un’opinione pubblica che sostiene l’Unione, è convintamente indisponibile ad avventure nazional populiste ma attende di essere rappresentata, attende un’offerta che ne raccolga e ne aggreghi gli interessi.
Per rispondere a questa attesa e sostenere questo disegno serve un’aggregazione politica nuova, fabbricabile secondo diversi layout ma certamente non confinabile entro il recinto del PD e quindi del PSE. Le elezioni europee sono una salutare scadenza esterna che impone l’elaborazione di una prima efficace risposta a questa esigenza: il nazional populismo si sta muovendo, anche con strategie configgenti – chi vuole lanciare un’opa sul PPE contro chi vuole sfidare il PPE – ma si sta muovendo. Il problema di questo quarto quadrante dunque non sono i confini: sono gli attori. Chi rappresenta questa posizione? Quale leadership collettiva ma soprattutto personale ha la credibilità per avviare una strategia di consolidamento e di alleanze?
7. Dai quadranti alle alternative
Come sempre nella storia politica il timing è quello che è: occorre cogliere le finestre di opportunità e non è possibile attendere i momenti propizi come se il timing fosse dettato dalle convenienze, le prudenze, le difficoltà di un singolo attore. Entro l’autunno una strategia va confezionata per dare volto al quadrante della doppia innovazione. Altrimenti resteranno in campo solo due statalismi, quello nazional populista e quello veteroeuropeista. E sarà difficile sfidare i nazional populisti sul loro terreno.
Allo stesso tempo si tratta di una proposta che dovrà anche fare i conti con l’evoluzione degli equilibri interni alla maggioranza di governo. In direzione di una chiara scelta di posizionamento: l’obiettivo è costruire l’alternativa a questo governo in una logica ancora una volta maggioritaria, sfruttando le eventuali crepe che si aprissero nel fronte avversario non per resuscitare improbabili proposte di alleanze politiche con un pezzo del nazional populismo ma, al contrario, per costruire le convergenze possibili per disegnare i meccanismi elettorali e istituzionali di una vera democrazia decidente, affidando poi agli elettori la scelta di chi deve governare e di chi deve giocare il ruolo dell’opposizione.
Se il disegno istituzionale è la prima delle cause del scarsa crescita economica è da lì che – ancora una volta e nonostante tutto – bisogna ripartire per battere il nazionalpopulismo.
Funzionario del Comune di Terni. Già assessore alla Cultura a Terni, è stato collaboratore a contratto del Censis e della cattedra di scienza della politica, Facoltà di scienze politiche della LUISS.