di Lorenzo Gaiani
Le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla Segreteria del Partito Democratico sono giunte largamente inattese per il gruppo dirigente e per i militanti del Partito, che sono rimasti oltretutto sconcertati dalle accuse contenute nel messaggio di dimissioni, e dal linguaggio con cui queste accuse venivano formulate: un Segretario che “si vergogna” del suo stesso partito è effettivamente una cosa insolita. Ancora più insolito che sia stato affidato ad un post su Facebook ciò che avrebbe semmai richiesto una riflessione nei luoghi debiti della democrazia interna.
D’altro canto, non era la prima volta che ciò accadeva, e questo sta a dimostrare la difficoltà cronica del PD a gestire il conflitto interno, inevitabile in un partito strutturato e fin dall’inizio composto da più anime, in cui le frazioni, le correnti interne, non si sono mai strutturate per la verità in base alle appartenenze pregresse, ma hanno comunque generato un sistema complesso, e spesso di difficile governo. Il problema, in sé, non è neppure la questione della lotta per il potere, che è comunque insita nell’azione politica e forse in qualsiasi attività umana, ma la difficoltà della comunicazione interna e la tendenza alla personalizzazione che carica di aspettative le leadership e si traduce, nell’inevitabile momento in cui tali aspettative vanno anche parzialmente deluse, in un meccanismo di rigetto che ha prodotto , in quattordici anni di storia del PD, il rapido succedersi di sette Segretari alla guida del Partito, i più longevi dei quali, Pierluigi Bersani e Matteo Renzi, si sono poi messi alla guida di due movimenti scissionisti.
Zingaretti, che era diventato Segretario con larga maggioranza nella tornata congressuale del 2019, approdava alla guida del PD spinto dall’onda di risentimento verso la gestione renziana, ritenuta responsabile dell’isolamento politico e sociale del Partito che aveva determinato il disastro elettorale del 2018, e si trovava a gestire una struttura indebolita in cui di fatto la maggioranza dei Gruppi parlamentari era stata scelta da Renzi fra le persone a lui più legate. Il nuovo Segretario, di fronte al crollo del Governo formato dai Cinque stelle e dalla Lega nell’agosto 2019, avrebbe voluto andare immediatamente al voto in modo da poter allineare i Gruppi parlamentari alla linea politica .
Tuttavia, la convergenza nazionale ed internazionale di numerose forze istituzionali, politiche e sociali che ritenevano pericolosa la più che probabile vittoria elettorale della destra trainata da Matteo Salvini e da una Lega dichiaratamente antieuropea e filorussa aveva costretto il Segretario a dare il via libera all’alleanza con il M5S nuovamente sotto la presidenza di Giuseppe Conte; e subito dopo la formazione del Governo, Matteo Renzi, che era stato uno dei massimi sostenitori della necessità di dar vita all’inedita alleanza giallo-rossa, promuoveva una scissione dando vita ad un nuovo partito, Italia Viva, che portava con sé un buon numero di parlamentari eletti nelle fila del PD compresi alcuni componenti del Governo.
Lo scoppio della crisi pandemica ha costretto di necessità a sospendere, almeno per qualche mese, la dialettica politica interna, facendo progressivamente crescere la figura, fino ad allora abbastanza stinta, del Presidente del Consiglio, anche grazie ad una sapiente gestione d’immagine , fino al grande successo, nel luglio scorso, della definizione del progetto Next Generation EU, impropriamente detto Recovery Fund, che assegnava all’Italia una somme imponente per il finanziamento di progetti di sviluppo e ricostruzione economica e sociale dopo la crisi pandemica.
A questo punto, spinto anche da alcuni suoi consiglieri, in particolare Goffredo Bettini, Zingaretti ridefiniva la prospettiva politica del PD nella cristallizzazione della maggioranza che sosteneva l’Esecutivo, attribuendo a Conte il ruolo inaudito di “punto di riferimento di tutti i progressisti”.
Solo che dall’estate in poi le problematiche che nel frattempo si erano accumulate, al netto del buon risultato per il centrosinistra (generalmente non alleato con i Cinquestelle, salvo che in Liguria – peraltro con esiti disastrosi) alle elezioni regionali e amministrative, finivano per compromettere l’immagine del Governo e di chi lo presiedeva, a partire dalle incertezze e dai ritardi nella gestione della “seconda ondata” della pandemia per proseguire con l’annunciata volontà di Conte di gestire direttamente i progetti per il NGEU tagliando fuori i Ministri e le rappresentanze politiche, e finire con l’avvio incerto della campagna vaccinale sotto la guida del contestato super-commissario Domenico Arcuri.
Tali atteggiamenti avevano un’eco anche all’interno del PD, ma erano in qualche modo congelati dalla linea di totale adesione (alcuni dicevano di subordinazione) della linea della Segreteria nei confronti del Governo e di Conte personalmente. Aveva buon gioco lo spregiudicato Matteo Renzi a cercare di mettere progressivamente all’angolo il Presidente del Consiglio sfruttando anche i cambiamenti intervenuti a livello internazionale, con l’immagine dell’Unione europea riabilitata dalla reazione in termini di disponibilità economica alla crisi pandemica e, soprattutto, dal tormentato passaggio di consegne alla Casa Bianca fra Trump (alfiere del sovranismo più reazionario) e il democratico Biden, sostenitore delle alleanze tradizionali e del rafforzamento dell’asse euroatlantico. Venivano così meno le ragioni che avevano permesso a suo tempo la nascita dell’esecutivo giallo-rosso, e le tre settimane della crisi – in cui la Segreteria del PD si attestava sulla linea “o Conte – ter o elezioni” – servivano solo ad allargare la faglia del malessere complessivo del sistema politico che, al termine dell’inutile giro di “esplorazione” del Presidente della Camera Roberto Fico, si chiudeva il 2 febbraio con un drammatico appello del Capo dello Stato, che riconosceva come il passaggio dello scioglimento del Parlamento e dell’indizione di nuove elezioni fosse sempre possibile ma ne indicava le controindicazioni in periodo pandemico, esortando, di fatto, tutte le forze politiche a sostenere un Governo di emergenza aperto a tutte le forze politiche, dando l’incarico di presiederlo all’ex Governatore di Bankitalia e della BCE Mario Draghi.
La dirigenza del Partito accettava di far parte del nuovo Governo, in cui, oltre ai partner del Governo precedente (compreso Renzi, assurto al ruolo di “cattivo” della situazione) rientravano anche Lega e Forza Italia, ma dava la sensazione di viverlo con una certa insofferenza, come se esso non fosse espressione di quella linea atlantista ed europeista che da sempre il PD sosteneva e che anzi si vantava di aver fatto assumere progressivamente al M5S. Peraltro, la scelta di Conte – in accordo con Grillo e Di Maio – di assumere la leadership dei Cinquestelle toglieva all’avvocato pugliese l’aura di “terzietà” che fin qui lo accompagnava (sebbene egli di fatto sia sempre stato organico al Movimento) e ne faceva il capo di un partito in competizione con gli altri partiti, producendo fra le altre cose un micidiale sondaggio che vedeva il M5S guidato dall’ex premier sopravanzare nettamente il PD.
Tutti questi elementi, unitamente al malessere delle minoranze interne alcune delle quali richiedevano un nuovo passaggio congressuale (venendo per questo accusate di essere delle “quinte colonne” renziane), provocava in Zingaretti, consapevole delle crescenti difficoltà della linea politica che aveva così faticosamente abbracciato per vederla poi crollare, la reazione che lo avrebbe condotto a dimettersi usando espressioni ingenerose, dispiaciute anche ad alcuni dei suoi alleati interni.
Le correnti di maggioranza hanno quindi cercato, scartando da subito l’ipotesi di un passaggio congressuale, irrealistica in una fase di emergenza sanitaria, di accordarsi sul nome di un nuovo Segretario che garantisse il difficile percorso che passa attraverso il superamento dell’emergenza pandemica, le elezioni amministrative dell’autunno prossimo (che riguardano metropoli come Milano, Roma e Napoli) e l’elezione del Capo dello Stato nel gennaio 201, che potrebbe essere prodromica ad elezioni politiche anticipate. Si trattava di individuare una personalità prestigiosa, capace di trattare alla pari con il nuovo Presidente del Consiglio, raccogliere il massimo di unità possibile in una comunità divisa e, nello stesso tempo, garantire una sostanziale estraneità politica rispetto all’eredità di Matteo Renzi.
L’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta, da tempo assente dalla scena politica italiana, è sembrato incarnare questi requisiti, e, dopo qualche resistenza dovuta alla riluttanza a lasciare il suo attuale ruolo di docente presso il prestigioso Istituto di Scienze politiche di Parigi (Sciences-Po), ha accettato ed è stato eletto alla quasi unanimità dall’ Assemblea nazionale del Partito tenutasi il 14 marzo con le modalità a distanza attualmente possibili.
Nel suo intervento programmatico il nuovo Segretario ha richiamato alla necessità di guardare all’Italia e all’Europa dopo la pandemia, e alle importanti sfide che attendono, a partire dalla questione del lavoro e della sostenibilità ecologica. Del Governo Draghi ha detto che è il “nostro Governo”, e che semmai è la Lega che dovrebbe spiegare perché lo sostiene, e ha rivendicato la necessità di mettere in piedi una nuova coalizione democratica con tutti gli interlocutori possibili che poi si confronti con il M5S in vista della sfida con la destra alle prossime elezioni .
Ma soprattutto la sfida di Letta si giocherà sul partito, un partito che fin dalla sua costituzione ha trascorso troppo tempo a parlare di se stesso, della sua natura, della sua aderenza o meno ad un’idea di sinistra regolarmente concepita con la testa rivolta all’indietro, del suo essere “solido” o “liquido” o altre questioni che forse appassionano il dibattito degli addetti ai lavori (mai come negli ultimi tempi la dirigenza del PD è apparsa come una sorta di club di frequentatori di certi salotti o terrazze del centro di Roma) ma che sono tragicamente estranee alle preoccupazioni del cittadino medio, il quale giustamente cerca soddisfazione altrove.
Il dato di fatto è che dal novembre 2011, cioè dalla crisi terminale del quarto Governo Berlusconi, il PD ha fatto parte di tutte le maggioranze che hanno governato questo Paese (ad eccezione del Conte I), pur avendo “pareggiato” le elezioni del 2013 e perso rovinosamente quelle del 2018, ha espresso tre Presidenti del Consiglio e nutrite rappresentanze ministeriali. Ciò sta a significare che il PD è ad ogni effetto il “partito sistema”, il “partito delle istituzioni”, ma a parte questa sua prerogativa – comunque rilevante perché la conservazione delle istituzioni democratiche è un bene in sé, e in mezzo a tanti incendiari qualcuno deve mantenere il senso di responsabilità – ha ben poco che lo definisca in positivo, mentre spesso ha dovuto qualificarsi come “anti-” qualcuno (Berlusconi, Salvini…) creando di fatto un vulnus alla sua capacità di dare vita ad un pensiero riformista e progressista all’altezza delle sfide di questo XXI secolo.
La speranza, anche per le forze sociali che da sempre si pongono in interlocuzione positiva con il PD, è che questa ennesima crisi non vada sprecata e che anche la leadership di Letta non si perda nel chiacchiericcio politicante.