di Alessandro Maran
Che cos’è una riforma? Secondo il vocabolario Treccani, «la modificazione sostanziale», volta al miglioramento, di un’istituzione, di un ordinamento. Il «taglio delle poltrone» dei Cinquestelle non è una riforma. Come ha sostenuto lo stesso Pd, «è solo uno spot elettorale». Infatti, nonostante le ragioni del nostro bicameralismo ripetitivo siano venute meno (perlomeno) dal crollo del Muro di Berlino, le due Camere continueranno a fare le stesse cose ed ad avere gli stessi poteri. Il provvedimento, dunque, lascia inalterati tutti i problemi più urgenti del nostro sistema istituzionale (incluso lo spreco di denaro, di tempo e di energie) e, semmai, ne crea degli altri (gli equilibri dell’elezione del Presidente della Repubblica, la rappresentanza delle regioni piccole, delle minoranze, ecc.).
Non sta scritto poi da nessuna parte che, fatta una riforma insignificante, ci sarà in seguito la volontà politica di fare quelle che contano davvero. Basterebbe, ad esempio, ricordare il referendum «sull’acqua pubblica». Quel referendum (e il nicodemismo del Pd di Bersani) ha ottenuto solo un risultato: impedire, come ha ricordato Alessandro De Nicola due anni dopo, «che la gestione dell’acqua fosse affidata attraverso gare competitive a chi era in grado di farlo in modo più efficiente ed economico e potesse anche investire in modo adeguato. In gioco non era la “privatizzazione”, come si è voluto in malafede far credere, ma la competizione». Dopo dieci anni, manco a dirlo, non è cambiato nulla: la situazione in Italia era e resta catastrofica: «gli acquedotti perdono tra 1/3 e il 40% dell’acqua che trasportano, in alcuni posti le società pubbliche erogano arsenico, il 15% della popolazione non è raggiunta dal sistema fognario e non ci sono i 65 miliardi necessari per rimettere a posto l’infrastruttura e portarla a livelli europei».
Il taglio, inoltre, con la scusa di correggerne gli effetti, aprirà la strada al ritorno al proporzionale, che non ha niente a che fare con l’esigenza di rappresentare meglio i cittadini e serve invece (come fanno da sempre le leggi proporzionali) a demandare ai vertici dei partiti il potere di fare e disfare i governi. Malgrado ventisette anni fa i cittadini abbiano risposto inequivocabilmente alle domande alla base di un altro referendum, quello del 1993 (Sono i partiti o i cittadini a scegliere il Governo? E questo risponde ai partiti o ai cittadini?), e scaricando, per giunta, un’altra volta sulla legge elettorale (come è successo nel 1953, e poi nel 1993 e infine nel 2005) tutte le tensioni derivanti da una forma di governo che non è mai stata in grado di garantire la stabilità.
Ma il peggio è che, archiviando l’idea di dar vita a un sistema di democrazia dell’alternanza, diamo una risposta negativa alla domanda di fondo che abbiamo davanti dalla fine degli anni ’70, da quando in Italia si discute di riforme istituzionali: l’Italia può diventare una democrazia parlamentare «normale»? Facciamocene una ragione, non si può.
Perché? Perché c’è Salvini (prima c’erano Craxi, Berlusconi e persino Renzi). Perché, in altre parole, bisogna «salvare l’Italia». Ed è quest’idea, più ancora della forza di attrazione dell’anti-parlamentarismo, che rischia di sancire la sconfitta definitiva dei riformisti, l’impossibilità per la sinistra italiana di emanciparsi dal lascito di Berlinguer. Come hanno messo in evidenza Paggi e D’Angelillo già negli anni 80, il Pci non è infatti mai riuscito a passare dall’arte di «salvare l’Italia» a quella di governare in condizioni di normalità. Ma il centrosinistra non deve «salvare» l’Italia, dovrebbe fare le riforme.
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.