di Vittorio Ferla
Dopo essere stato imbrigliato da Mario Draghi, l’incubo del populismo italiano si è ripresentato a queste elezioni nelle più diverse salse: dal pauperismo meridionalista di Giuseppe Conte, al putinismo pseudoliberale di Silvio Berlusconi, al lepenismo in camicia verde di Matteo Salvini, per finire con l’orbanismo euroscettico di Giorgia Meloni. I populisti di destra e di sinistra hanno potuto votare così sulla base di un’ampia offerta.
Sorte ben diversa per i liberali europeisti e progressisti. Quelli che in Francia, per due volte di fila, hanno potuto scegliere Emmanuel Macron. Ma che in Italia si devono accontentare, per ora, del Terzo Polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda o di Più Europa di Benedetto della Vedova. Sono questi, infatti, i partiti italiani che, nel parlamento europeo, militano nel gruppo di Renew Europe. Con l’obiettivo dichiarato di ripetere in Italia le fortune del macronismo francese. Ma la lezione visionaria di Macron riuscirà mai a trovare degli interpreti nel nostro paese?
Un programma macroniano
Se bastasse soltanto il programma certo che si. Quello del Terzo Polo è, in buona sostanza, un programma macroniano. Basato sulle magnifiche sorti e progressive della sovranità europea contro i sovranismi nazionali. Fermo nella condanna della Russia, colpevole dell’invasione dell’Ucraina e della violazione dell’ordine internazionale, ma consapevole della necessità di ristabilire un dialogo con Vladimir Putin per evitare il peggio. Attento alla progressiva indipendenza energetica dell’Italia e dell’Europa dalle forniture di idrocarburi russi e aperto all’attuazione della tassonomia energetica definita a Bruxelles (che non esclude il ricorso all’energia nucleare, proprio come da anni avviene in Francia). Liberato dal peso dei cascami della cultura postcomunista e del sindacalismo corporativo. Proiettato verso la crescita, lo sviluppo e l’economia di mercato. Ma con giudizio, come si vede dalle perplessità di Calenda nei confronti degli eccessi del liberismo: d’altra parte, all’interno dell’eurogruppo dei liberali, il gruppo macroniano francese è quello più statalista, in continuità con la storia politica transalpina.
Il sistema istituzionale francese (e il problema italiano)
Ma la vera sfida del macronismo italiano sarà un’altra. In Francia, la stella di Emmanuel Macron brilla grazie allo splendido funzionamento di una legge elettorale efficiente (maggioritario a doppio a turno) e di un sistema istituzionale basato sul semipresidenzialismo. Il presidente francese governa il suo paese con appena il 20-25% dei voti. L’effetto ‘disproporzionale’ – come lo chiamano i tecnici – è enorme. In cambio, però, la Francia gode di molti vantaggi. Una chiaro orientamento dei consensi verso un ‘partito coalizionale’ che raccoglie una coalizione sociale che pian piano si forma nei due turni elettorali (non una ‘coalizione di partiti’ incoerente e rissosa come di solito avviene in Italia). Una prevalenza della posizione mediana liberal-democratica contro i rischi della polarizzazione ideologica ed estremista (viceversa, in Italia può accadere che gli opposti populismi governino insieme, come nel caso del Conte I). Un governo stabile capace di durare per tutta la legislatura e di garantire credibilità, forza e continuità al proprio paese nei consessi europei e internazionali. Un programma univoco che non è annacquato dalle faticose intese di coalizione, ma semmai rielaborato con intelligente pragmatismo alla luce della fase congiunturale.
Tutto ciò nel nostro paese è complicato da realizzare. In primo luogo, perché le leggi elettorali in Italia (Mattarellum compreso) sono state concepite con l’obiettivo occulto di impedire la vittoria (o comunque una vittoria ‘eccessiva’) degli avversari e di rimandare le sorti del governo alle oblique dinamiche tra i partiti. In secondo luogo, perché nella storia repubblicana si è affermata una idiosincrasia nei confronti del leader ‘verticale’, come sarebbe un capo di governo eletto direttamente dal popolo e/o dotato dei poteri (e delle responsabilità) necessari per attuare il proprio programma. Basti pensare al modo in cui il sistema mediatico e intellettuale trasformò il referendum costituzionale del 2016 in un plebiscito contro il potenziale tiranno. Oppure alla fine che fanno, presto o tardi, tutti quei politici che pensano di riformare la costituzione nella direzione di un rafforzamento del ruolo del capo dell’esecutivo. In un siffatto contesto, ammesso che esista un leader della caratura di Macron, sarebbe impossibile farlo emergere.
La competizione con il PD
C’è, infine, un altro dato di sistema che non si può trascurare. Il successo di Emmanuel Macron in Francia è stato speculare al progressivo e ineluttabile declino del Partito socialista francese. Partito dal quale Macron proveniva (iscritto dal 2006 al 2009) e per conto del quale aveva ricoperto la carica di ministro dell’economia (dal 2014 al 2016) nell’esecutivo socialista di Manuel Valls. Nel 2016 Macron fonda En Marche e si candida alle presidenziali. Mentre il Psf si avvia praticamente all’estinzione. Con la scissione del 2019, Matteo Renzi sogna di ripetere il successo di Macron, dichiarando esplicitamente l’obiettivo di svuotare di consensi il Partito democratico. Finora questo tracollo dei dem non è avvenuto. La partnership con Carlo Calenda potrebbe aprire nuovi spazi di consenso. Ma soprattutto saranno cruciali le riforme sempre rimandate. Non a caso il programma del Terzo Polo propone la riforma del “sindaco d’Italia”, ovvero l’elezione diretta del capo del governo. Insomma, la legislatura che si apre sarà decisiva per le sorti future del ‘macronismo’ all’italiana.
Un risultato elettorale deludente
Nel corso della conferenza stampa a commento dei risultati elettorali, Carlo Calenda ha detto: “dopo Berlusconi e Monti è il risultato più grande mai fatto da una lista appena nata nella storia del Paese”. Mara Carfagna ha rafforzato il concetto: “passare dai circa 200mila voti di Calenda alle amministrative a Roma a oltre 2milioni di voti nell’arco di un mese di campagna elettorale è un risultato per niente banale”. Per la ministra del Sud, l’8% è un “punto di partenza molto solido”, mentre per Forza Italia è solo un “punto di arrivo”. Sarà, ma agli occhi di un osservatore neutrale il risultato pare un tantino deludente.
Sul piano squisitamente numerico, l’asse tra Renzi e Calenda, nato per creare un terzo polo, è arrivato solo quarto, superato dalla inaspettata remuntada di Giuseppe Conte al Sud. Proprio il M5s, che nelle aspettative di Calenda doveva “sparire”, non soltanto non si è dissolto, ma ha conquistato il doppio dei voti del piccolo rassemblement liberale italiano ispirato a Macron. Calcolatrice alla mano, il sogno macroniano dei terzopolisti va rimandato ad altra occasione. Siamo molto lontani da quel 20-25% che il presidente francese ha raggiunto per ben due volte, nel 2017 e nel 2022, e che è stato poi moltiplicato grazie all’invidiabile efficacia del sistema francese che premia il primo arrivato e ne garantisce il governo. Macron ottenne questo risultato al primo colpo, con un partito appena nato come En Marche. Vale poco, pertanto, oggi, raccontare la favola che Italia sul serio si presentava per la prima volta. La verità è che il Terzo Polo non è nemmeno riuscito a superare Forza Italia, un partito guidato da un ottuagenario che vive un lungo declino ma che riesce ancora a convincere una porzione consistente di quell’elettorato centrista che doveva essere facile preda dei più freschi e pimpanti Renzi e Calenda. In più, gli elettori che hanno abbandonato in massa la Lega, lo hanno fatto molto probabilmente per premiare Giorgia Meloni, no di certo i Dioscuri di Renew Italia. I numeri dicono infine un’altra cosa: diversamente dalle aspettative più volte enunciate da Matteo Renzi, Azione e Italia Viva non potranno fare l’ago della bilancia in Parlamento. Il centrodestra ha una maggioranza solida e autosufficiente e, salvo un improvviso impazzimento della Lega e di Forza Italia, per ora è difficile immaginare un Terzo Polo in qualche modo determinante nelle sorti del futuro governo di Giorgia Meloni.
“Tutti populisti, tranne noi”? Difficile che funzioni
Viceversa, se un ruolo determinante ha avuto il Terzo Polo questo è stato nella sconfitta del centrosinistra. L’esempio più clamoroso: la mancata rielezione di Emma Bonino. La leader di Più Europa era candidata nel collegio del centro di Roma già conquistato nel 2018: un collegio sicuro, ma consegnato a Fratelli d’Italia proprio a causa della candidatura concorrente di Carlo Calenda. Una situazione che si è ripetuta più volte lungo lo stivale, con il risultato di consegnare numerosi collegi ai candidati di centrodestra.
Archiviato il risultato elettorale, bisognerà verificare le strategie e le prospettive future del Terzo Polo in uno scenario politico completamente nuovo. Sul punto, la conferenza stampa di Carlo Calenda lascia un po’ perplessi. Commentando i risultati elettorali, il leader di Azione ha prima stigmatizzato “questa dinamica che porta le persone a votare come se fossero al voto del grande fratello, per chi urla di più, promette di più e realizza di meno è quello che ha fatto declinare negli ultimi trent’anni l’Italia”. Ma così dicendo, il rischio di dare la colpa agli elettori, sfuggendo a una valutazione più profonda delle ragioni del voto è assai forte. Calenda si è avventurato in un calcolo grossolano: “Se prendete i voti generali, noi abbiamo un Paese che per il 70% ha votato partiti che non hanno mai votato la fiducia a Draghi o l’hanno sfiduciato, partiti la cui collocazione internazionale è o anti-europea o anti-occidentale o direttamente filo-putiniana, partiti che hanno promesso sussidi, pensioni, redditi, bonus di tutti i tipi e preso posizione contro le infrastrutture a partire dal rigassificatore di Piombino”. In sostanza: sono tutti populisti, tranne noi.
In questa rappresentazione un po’ perentoria del voto degli italiani ricade anche il Partito democratico, a conferma di un rapporto ai limiti della deriva tossica. “Mi dispiace per Enrico Letta, una persona perbene, un europeista che ha tenuto la barra dritta sulle questioni di politica estera. Ma da lì in poi non ho capito niente di cosa voleva fare e con chi”, dice Calenda. Come dargli torto? Il Pd è ormai un partito incolore e insapore, il cui messaggio si capisce poco, e che molto presto comincerà a dilaniarsi in un percorso congressuale che potrebbe portare diritti al nulla. “Il Pd ha ormai una pulsione populista fortissima, che non riesce a separare dal pezzo che ha cultura di governo. Questo equivoco nel Pd non si può più sciogliere. Andare da Taverna a Bonino non può funzionare, è un’altra situazione destinata a esplodere”, avverte Calenda.
Quale strategia per il futuro?
Il problema esiste. Ma davvero l’unica strategia possibile è quella di dare per perso il Pd, consegnandolo definitivamente all’abbraccio mortale del M5s? “Si riaprirà il rapporto Pd-M5s, come lo stesso Bonaccini ha sostenuto. Anche il 19% del Pd finirà nell’offerta populista e tanto più noi dovremo distinguerci”, è la risposta di Calenda. Ritorna, insomma, lo schema francese. Con il Terzo Polo che fa la parte del partito macroniano, contro il bipopulismo di destra (in Francia Le Pen, in Italia Meloni) e di sinistra (lì Mélenchon, qui M5s e Pd). Peccato che questo schema funzioni solo nel quadro del sistema elettorale maggioritario a doppio turno e del semipresidenzialismo. Calenda e Renzi, insomma, fanno benissimo a coltivare il sogno di un partito liberaldemocratico finalmente egemone e vincente. Bisogna crederci perché – come dimostra la storia di Giorgia Meloni – anche un piccolo gruzzolo di voti può trasformarsi nel tempo in un exploit.
Ma per realizzare questo sogno servirà una identità coltivata senza fare la guerra ai propri vicini. Se la legge elettorale resta questa, bisognerà evitare l’autoghettizzazione nel nome della purezza ideologica, accettando un dialogo con i potenziali alleati. Sopra ogni cosa, questa legislatura deve diventare l’occasione per ritentare la carta delle riforme istituzionali (magari ispirate a Parigi) per superare la polarizzazione e i blocchi della democrazia italiana. La strada da fare è tanta insomma. Ma, per dirla alla francese, ce n’est qu’un début.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).
Direi che le contraddizioni in seno alla destra potrebbero portare alla fine del nascente governo. L’estensione del servizio dimentica il grande risultato del terzo polo nel nord e significativamente a Milano dove è al 16%. Vedremo alle prossime regionali. E vedremo se passerà il presidenzialismo nella forma indicata da Renzi.