di Alessandro Maran
A partire dal primo luglio Benjamin Netanyahu potrebbe sottoporre al voto della Knesset l’estensione della sovranità di Israele su tutti gli insediamenti ebraici creati in Cisgiordania dal 1967, compresi quelli nella valle del Giordano, in accordo con il cosiddetto «piano di pace» dell’amministrazione Trump, un documento di 181 pagine che ha dato il via libera all’incorporazione del 30% della Cisgiordania e che, in sostanza, suggella l’agenda espansionistica di Israele.
Non è chiaro come procederà il governo di Netanyahu, date le tensioni interne a Israele e considerato che l’esito delle elezioni presidenziali negli USA è tutt’altro che scontato. Ma il primo ministro israeliano è pronto a seppellire «la soluzione dei due Stati» progettata per porre fine al conflitto israelo-palestinese. Molti osservatori hanno fatto notare che l’annessione di parti della Cisgiordania segnerebbe un punto di svolta e, verosimilmente, la fine delle speranze palestinesi di creare un proprio Stato. Eppure, alla vigilia di un momento così decisivo, Tareq Baconi, analista dell’International Crisis Group (una delle principali organizzazioni non governative che si occupa di prevenzioni di conflitti, ha sede a Bruxelles e può vantare nel suo organico numerosi politici, diplomatici e professori provenienti in particolare dagli Usa e dagli altri membri della Nato) ha scritto in un saggio sulla New York Review of Books, che le aspirazioni e le domande dei palestinesi sembrano essere in fase di trasformazione e potrebbero allontanarsi dalla creazione statuale per concentrasi sulla parità dei diritti.
Qualunque sia la strada che Netanyahu deciderà di prendere, un’annessione più ampia o più contenuta, per i palestinesi, secondo Baconi, è arrivato il momento della resa dei conti. «‘Dobbiamo ridefinire la lotta palestinese’, mi ha spiegato un giovane di Hebron», scrive l’analista del ICG. «‘Abbiamo bisogno di un nuova identità politica palestinese, non quella definita da Hamas e Fatah. Ora viviamo la realtà di un unico stato. Non vogliamo uno stato palestinese sulla base del 1967, ma i nostri diritti di esseri umani’». I palestinesi stanno, insomma, «riformulando» le loro aspirazioni in una richiesta di diritti all’interno di uno stato israeliano che attualmente quei diritti li garantisce soltanto ad una parte delle persone sotto la sua autorità, osserva l’analista. Questo cambiamento «supera le carenze della soluzione dei due Stati, che questi attivisti considerano sancire le divisioni tra i palestinesi e frammentare il popolo palestinese (…) La vecchia strategia dei due Stati non è riuscita, ai loro occhi, a tener conto dei loro diritti collettivi come popolo (…) Il linguaggio dei diritti, affermano i suoi fautori, può riunificare il popolo palestinese come un unico collettivo che cerca l’auto-determinazione, laddove il progetto di creazione statale reifica la loro frammentazione geografica».
I rappresentanti dell’Olp avvertono, tuttavia, che abbandonare il progetto della costruzione dei due Stati potrebbe rivelarsi fatale per la causa palestinese. Tareq Baconi riporta le parole di un dirigente di Fatah che, dato lo squilibrio di potere, sostiene che i palestinesi «diventerebbero una minoranza» (riferendosi alla possibilità che i palestinesi diventino una comunità marginalizzata in Israele): «Diventeremo schiavi. Saremo calpestati. Non possiamo rinunciare ai diritti internazionali. Non possiamo vivere con gli ebrei israeliani se non abbiamo potere». E un ex diplomatico dell’Olp ha detto che parlare di trasformare la lotta palestinese in un movimento per i diritti civili può andare bene nei «caffè di Manhattan» ma non in Palestina.
Secondo Tareq Baconi, il linguaggio dei diritti, anziché quello della costruzione statuale, può tuttavia esercitare una maggiore trazione a livello globale; rimarca le dichiarazioni di sostegno tra gli attivisti per i diritti umani palestinesi ed il movimento globale di Black Lives Matter e sottolinea la lentezza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, orientata alla costruzione statuale, ad abbracciare l’iniziativa BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), la campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele che si è sviluppata dal 2005. «Proprio come i politici e le istituzioni in tutta l’America si stanno rapidamente posizionando in modo da allinearsi al nuovo orientamento sul razzismo in America – suggerisce Baconi – i leader palestinesi avranno bisogno di tenere in maggior considerazione il potere di quelli che vedono il loro futuro definito dalla battaglia per la parità dei diritti per tutti quelli che vivono tra il fiume ed il mare».
In un saggio su Jewish Current, Peter Beinart sostiene un punto di vista molto simile da una prospettiva ebraica, sottolineando che la soluzione due Stati è morta e che Israele dovrebbe invece puntare sull’inclusione. Considerando la possibilità che Israele annetta parti della Cisgiordania, Beinart scrive «comincio a chiedermi, per la prima volta in vita mia, se il prezzo di uno Stato che privilegia gli ebrei sui palestinesi non sia troppo alto». Definendo la situazione eccellente per i leader israeliani ma insostenibile ai suoi occhi, Beinart invoca una soluzione e sostiene che «oggi due Stati e uno Stato paritario sono entrambe prospettive irrealistiche. La vera domanda non è quale visione sia più originale in questo momento, ma quale possa generare un movimento forte abbastanza da portare un cambiamento significativo». Un unico Stato israeliano – una casa binazionale per ebrei e musulmani, nel quale i palestinesi siano inclusi come cittadini – è l’unica risposta che ha la «forza morale» ed «emotiva» per essere fattibile.
«Le società divise che condividono il potere funzionano molto meglio di quelle che non lo fanno», scrive Beinart. Mentre la disperazione conduce alla violenza nei territori palestinesi, «al contrario, quando i cittadini palestinesi (che vivono in Israele) vogliono protestare contro le politiche di Israele – comprese le politiche che li discriminano – possono votare per la Lista comune» dei partiti a predominanza araba nella Knesset israeliana. Gli ebrei hanno visto lo stato di Israele come una risposta all’Olocausto, scrive Beinart, sostenendo che «solo aiutando a liberare i palestinesi – e nel processo che porta a vederli come esseri umani, non l’incarnazione del nostro passato tormentato – possiamo liberarci dalla morsa dell’Olocausto».
La soluzione dei due Stati è morta, si dice. Ma Israele può diventare davvero uno stato con pari diritti sia per gli ebrei che per i palestinesi?