LibertàEguale

Istruzioni per reagire al populismo

di Mario Rodriguez

 

 

Un comunicatore che parla di populismo?

Qualcuno pensa che il populismo vada considerato soprattutto una questione di comunicazione? Attenzione, dipende da cosa intendiamo per comunicazione.

  1. Ecco un primo punto. La comunicazione ha almeno due accezioni prevalenti; una strumentale e una culturale. Una si concentra sulle tecniche, i mezzi, il come si dice, attraverso quali strumenti; l’altra considera la comunicazione come ciò che costituisce la società la tiene insieme, costruisce il senso, il significato che motiva le persone ad agire, giustifica e motiva l’azione.
  2. Il secondo punto è che dobbiamo soprattutto comprendere come le persone attribuisco e co-costruiscono il significato, il senso delle cose che vivono.
  3. Il modo in cui raccontiamo ciò che accade (la storia) dà senso agli accadimenti. I fatti non hanno senso di per sé.
  4. È sbagliato parlare degli argomenti e, soprattutto, farlo con le parole degli altri. Dobbiamo imporre nostri argomenti, le nostre parole, le nostre metafore. Scomporre i problemi. Proporre nuove cornici di senso, nuovi frame.
  5. Dobbiamo raccontare storie nelle quali le persone che la ascoltano sappiano e possano trovare un loro posto, ci si possano trovare dentro (anche con le loro miserie umane) la possano condividere, raccontare ad altri, farla propria, farla diventare un mattoncino della costruzione della propria identità.
  6. Le persone si formano un’opinione o la cambiano (quelle rare volte in cui queste avviene) facendo esperienza, vivendo qualcosa di nuovo (news), qualcosa che modifica le conoscenze precedenti. È l’esperienza che si fa vivere alle persone alle quali ci si rivolge (compresi ben inteso i media attraverso i quali lo si fa) il più importante modo di comunicare, cioè di costruire un senso che motiva ad un determinato comportamento. Per questo comunicare è comportarsi, agire, fare cose con le parole e senza. Riportando a consapevolezza i comportamenti che comunicano.
  7. Infine vorrei illustrare la mia cautela sull’uso del termine populismo. Se è una categoria analitica forse può servirci (ma questo non è il mio compito almeno oggi), ma come tema centrale del nostro discorso pubblico, della nostra battaglia politica, contro la destra nazionalista e sovranista sono convinto che non solo sia inefficace ma temo possa essere dannosa.

 

La parola populismo

E se fosse l’uso della parola populismo a non essere adeguata a descrivere quello che stiamo vivendo? Le parole significano l’uso che se ne fa e si logorano con l’uso. Sono frame, cornici di significato più che significato in sé. Contengono i significati che il loro uso evoca. Ecco, se si usa populismo si evocano principalmente esperienze significative della nostra storia ma lontane dal vissuto di oggi.

Il termine populismo non riesce a descrivere la novità e la complessità del nostro tempo. Vorrei che si facesse lo sforzo di trovare dei sinonimi, delle perifrasi. Per evitare quella semplificazione che ci mette in difficoltà. Temo che l’uso o l’abuso del termine populismo non ci convenga.

I fenomeni nuovi andrebbero descritti con parole nuove, mentre, soprattutto nella loro fase nascente, usiamo parole vecchie. Definire i problemi, dargli un nome, è condizione necessaria per cercare di risolverli.

Le destre si stanno adattando meglio alle nuove condizioni ambientali: semplificazione, emergenzializzazione, immediatezza, drammatizzazione, SI/NO, amico nemico, buono cattivo.

Bisogna cercare di non usare termini logori ma soprattutto non bisogna evocare il loro temi. Bisogna trovare i nostri temi quelli sui quali siamo a nostro agio, non giocando di rimessa. Abbiamo bisogno di formule e metafore nuove. Ogni volta che usiamo la parola populismo (come fu per berlusconismo) compattiamo il loro schieramento.

Quello che evoca populismo non comprende la complessità delle sfide alle quali (anche) i democratici devono dare risposta: ad esempio, far funzionare le istituzioni, renderle più efficaci, saper rispondere alla richiesta di contare che è sempre più diffusa nella società secolarizzata che pretende di verificare e controllare tutte le autorità. Sfruttare le opportunità delle nuove tecnologie. In che modo i democratici affrontano il problema che uno vale uno solo in determinate condizioni? Pensiamo si debbano immettere elementi di epistocrazia nell’articolazione dei bilanciamenti del potere e dei processi di decisione? Se questo è il trend “di sistema” allora è meglio che ci attrezziamo e li portiamo avanti noi.

 

Un esempio

Non conviene mai parlare delle cose e con le parole degli altri. Dobbiamo usa le nostre parole. Scomporre i problemi. Proporre nuove cornici di senso, frame.

Sono molti anni che la destra riesce a tener insieme dentro lo stesso frame tre problemi molto diversi tra loro e la sinistra non riesce separarli a “raccontare tre diverse storie credibili” sui diversi temi, accetta di trattarli insieme e già quindi rimane subalterna, non ha la forza di imporre il proprio racconto sui diversi temi. I temi accorpati nella narrazione della destra sono il lavoro che cambia (ma è tutto il sistema economico che cambia), il confronto con l’islam soprattutto dopo l’11 settembre, l’evoluzione demografica e sociale dell’Africa. Sono tre argomenti diversi che richiedono iniziative politiche diverse. Credo si dovrebbe disambiguare, spezzare, dividere i problemi e affrontarli separatamente, uno per uno, valorizzando quelli sui quali siamo più a nostro agio e riusciamo a raccogliere successi, anche piccoli ma significativi. Fare proposte e possibilmente realizzare cose nei comuni e nelle regioni da noi amministrate.

Negli anni 70 le giunte di sinistra furono o apparvero come quelle che più efficacemente affrontavano i problemi urgenti del momento, soprattutto la casa e le scuole per l’infanzia, oggi quali temi le distinguono? Come facciamo oggi a smontare il frame dell’immigrazione e impedire che la destra continui a tener tutto insieme sotto l’etichetta del “prima gli italiani”, della sicurezza? È possibile distinguere il comportamento delle giunte di centrosinsitra proprio sul terreno di come si affrontano sicurezza e accoglienza?

 

Ma torniamo a come reagire

I fenomeni che stiamo definendo populismo non si “dominano” cambiando le tecniche di comunicare, adottando nuovi strumenti o nuove tecniche. Scrivendo 60 tweet, al giorno invece dei 30 di Salvini. Ma trovando un modo di parlare di quello che stiamo vivendo, capace di raccogliere più consenso, di quanto ne raccolga la destra.

Bisogna trovare un altro modo per parlare di quei fenomeni, conviene spezzarli, dividerli. Non accettare il confronto sul quel concetto sperando che evochi altre discriminanti valoriali (come l’antifascismo).

Ma per farlo e prima di pensare a come fare tecnicamente, deve essere sviluppata una capacità di riconcettualizzare la realtà, prendere degli obiettivi attualmente inseriti in un certo modo di vedere le cose (in determinate storie) e ridefinirli in un altro contesto completamente diverso con implicazioni del tutto differenti, e raccontare storie del tutto differenti. Produrre una novità, atti degni della attenzione del sistema mediatico.

Riconcettualizzare significa rendere esplicita la visione che si ha della realtà perché solo da una chiara visione possono nascere, non casualmente, frasi efficaci e più in generale comportamenti comunicativi efficaci. Solo da un buon brief nasce una buona campagna pubblicitaria.

Alla base di tutto ci sono i con-tenuti, c’è la cultura dell’organizzazione. E allora lasciatemi esporre alcuni principi che a mio parere possono rendere la comunicazione efficace, possono creare le condizioni di base sulle quali avviare un uso scaltro delle tecniche.

 

Il destinatario è attivo

Capire perché le persone pensano quello che pensano significa condividere che la comunicazione non è un fenomeno meccanico come l’elettricità o l’idraulica, non è il travaso di contenuto tra una damigiana piena a una vuota.

Il ricevente, il destinatario, è attivo, (non è target, bersaglio da colpire, è persona) partecipa alla costruzione del senso. Il suo ambiente, la società, il suo livello di intelligenza, di capacità, di cono­scenze, le sue esperienze contano nella co-costruzione del significato, nella rielaborazione del mes­saggio.

Gli individui rielaborano i messaggi che raccolgono dalla società.

Ma che realtà vedono, come se la “raccontano”? Se non capisco cosa vede non posso fargli vedere quello che vedo io, vedere in un modo diverso. E quello che vede lo decide lui, non io. Con la sua ragionevolezza o razionalità. Se voglio vedere cosa vede devo mettermi al suo posto. E devo pensare che possa avere ragione altrimenti avremo fraintendimento, dissenso e non convergenza di aspettative.

 

Convincere o costruire relazioni di fiducia?

Il punto non è convincere non è persuadere (sviluppare strumenti più evoluti di persuasione o costrizione) ma comprendere come costruire una convergenza di aspettative reciprocamente accettabili quindi costruire una relazione di fiducia.

Usare i social in modo social significa proporsi di interagire e costruire fiducia.

Il modo nel quale gli individui pensano è unico e diverso per ciascun individuo per questo è difficile (impossibile) che due persone, due sistemi psichici, pensino allo stesso modo (su questioni complesse). Certo possono avere comportamenti analoghi, votare lo stesso partito, esprimere apprezzamento per lo stesso personaggio. Ma questo succede non tanto perché condividono opinioni, credenze, valori, ma perché il comportamento che mettono in atto corrisponde alle loro (autonome, indipendenti) aspettative, ai loro percorsi cognitivi e di costruzione di senso.

Ma anche qui credo debba essere chiaro che la condivisibilità o la convergenza delle aspettative non dipende dalla verificabilità della promessa ma dalla credibilità del promettente. Le persone sanno che delle promesse se ne realizza solo una minima parte (persino nessuna), homo sapiens non è homo oecomomicus, calcolatori di costi benefici, hanno sentimenti passioni, esperienze vissute.

Gli umani hanno bisogno di credere, avere una speranza. Un sogno non un foglio excel!

A me pare chiaro: quello che conta è la credibilità del promettente, i comportamenti del promettente. Qui si crea la fiducia. Ma il promettente deve essere sostenuto da un’organizzazione coesa, la capacità di attrarre dipende dalla coesione del soggetto.

 

Identificazione e riconoscimento

Allora come stiamo nella società e come stiamo sui social, cioè nel nuovo ambiente comunicativo? Che esperienza di noi facciamo vivere alle persone, come ci facciamo riconoscere come ci distinguiamo e quindi come ci facciamo identificare e quindi che identità costruiamo.

L’identità non è rimanere identici a qualcosa che ci raccontiamo essere stati ma farci identificare, distinguerci, oggi nel presente, farci appiccicare un’etichetta: loro sono quelli che. È un processo, ed è sempre in relazioni agli altri.

Nelle esperienze che facciamo vivere c’è certo il modo nel quale usiamo le tecnologie, come usiamo i social, che parole scegliamo, quali metafore cerchiamo di costruire e proporre, ma se questo uso non ha un contenuto appealing ci sarà poco da fare. Ecco perché ogni decisione, ogni affermazione va presa considerandone la spendibilità “comunicativa”, quindi anche sui social.

Vi faccio una domanda: perché invece di ragionare su come dovremmo stare nel nuovo ambiente social non ragioniamo sul perché certe nostre intuizioni innovative e avanzate sono fallite?

Siamo affascinati dai big data, dal micro targeting che gli algoritmi che permetterebbero, ma perché il nostro rapporto con il data base dei primaristi è stato e continua ad essere un fallimento? Il Pd ha colto certo tra i primi (non nella società ma nella politica) la domanda di voler contare che si era diffusa già a fine secolo e che le nuove tecnologie rendevano possibile. Le cosiddette primarie (dico cosiddette per non irritare i puristi) erano questo voler (o riconoscere di dover dare voce per la perdita di autorevolez­za che colpiva ogni autorità) dare voce a cittadini che da decenni mostravano insoddisfazione, volevano contare, pensavano a torto o a ragione di poter dire e voler dire la loro. Ebbene noi non abbiamo consolidato quella intuizione. Perché non abbiamo trasformato l’2 per mille nella nostra “comunità fidelizzata”? Perché i forum di YouDem e YouDem stesso sono falliti? Perché complessivamente il partito democratico le sue persone non ci hanno creduto, li hanno pensati come escamotage propagandistici. E questo succede perché la cultura politica del pd, nel suo complesso, con le necessarie differenze e responsabilità, è insufficiente e non ha preso le misure del tempo che viviamo.

 

Le storie danno senso agli accadimenti

La storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi (Arendt)

Tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia. (Blixen)

È il modo in cui raccontiamo ciò che accade (la storia) che dà senso agli accadimenti. E riconoscere questo non è cedere al populismo ma metabolizzare le conoscenze acquisite negli anni più recenti anche grazie alla psicologia cognitiva e alle neuroscienze.

Io credo ad esempio che l’Europa, debba affrontare “dolori” importanti, quelli legati alla perdita di centralità nei processi di civilizzazione e alla propria impotenza istituzionale.

“Credo che anche il rigurgito identitario dipenda da questa crisi esistenziale” concordo con quanto scritto da Claudia Mancina prorpio sul sito di Libertà Eguale.

Nei giorni del 50° dello sbarco sulla Luna, penso a quel clima di invincibilità, di certezza di progresso che pure era contenuto nei conflitti di quegli anni. Oggi quella speranza manca. E quella mancanza è alla base delle paure, delle preoccupazioni, delle nuove incertezze che rilanciano i valori “materialistici” di sicurezza economica e fisica.

Ci vuole un racconto che ci aiuti a farcene una ragione a ritrovare una ragionevole speranza. E qui ci vuole un leader che ovviamente potrà anche (ogni tanto) farla fuori dal vaso ma deve saper ispirare. Speriamo il meno possibile perché lo stile di leadership conta. E questi non si costruiscono a tavolino. Bisogna che ci siano le condizioni perché emergano degli innovatori, persone che vedono le cose in un modo diverso. Bisogna che ci sia una bottega che allevi artisti. Un partito incubatore di leadership. I puledri vanno domati ma non azzoppati. E ci vogliono “anziani” che guardino con favore il ricambio, senza spocchiosa difesa del proprio ruolo. E persone che preferiscano organizzare e partecipare a Wimbledon piuttosto che vincere a turno il torneo della bocciofila.

Quale storia dobbiamo raccontare allora e quale storia possiamo raccontare? Perché non tutti possono raccontare la stessa storia perché il narrante deve essere credibile. Andiamo davanti alle fabbriche e quale storia raccontiamo? E rendendo simbolico l’andare davanti alle fabbriche che storia sto raccontando?

 

L’organizzazione come comunicazione

Ecco che allora prima del comunicare c’è il decidere come stiamo nella società, perché ci stiamo per fare cosa, con quale cultura perché non possiamo non averne una e non possiamo averne troppe e divergenti.

E come stiamo sui social, cioè nel nuovo ambiente comunicativo? Che esperienza di noi facciamo vivere alle persone, come ci distinguiamo e quindi come ci facciamo identificare e quindi che identità costruiamo. L’identità non è rimanere identici a qualcosa che ci raccontiamo essere stati ma farci identificare, distinguerci, oggi nel presente, farci appiccicare un’etichetta: loro sono quelli che… . È un processo, ed è sempre in relazioni agli altri.

Vorrei dire solo che non lo si trova (solo) con il congresso delle idee con la fiducia nella razionalità dialogica che farebbe emergere la verità ma con la costruzione di un contesto favorevole alla emersione di leader portatori di visioni, di una storia, che conquista consenso. Per questo io vedo negli eletti lo scheletro dell’organizzazione (a partire dai sindaci) ma eletti che si conquistano il consenso degli elettori non la fiducia di gruppi ristretti che li cooptano, di segreterie.

Per questo vorrei che le cd primarie rimanessero parte della esperienza che il Pd fa vivere agli italiani di quella capacità di dare voce agli elettori, ai detentori della sovranità popolare, della legittimazione dell’autorità. Per paradosso credo che far funzionare bene le primarie sia più importante del blog della Casaleggio che sta mostrando tutti i suoi limiti di progetto verticistico e non certo social.

E per questo credo che la comunicazione efficace sia strettamente legata ad una organizzazione efficace (le organizzazioni sono culture, visioni condivise, linguaggio e procedure condivise per regole minoranza e maggioranza, per stare insieme).

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